La Corte costituzionale decide sul cognome della madre. Un passo verso la pari dignità dei genitori e la parità di genere

di Eugenia Jona

  1. La decisione della Corte costituzionale: un’introduzione al tema

Il 27 aprile 2022 la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali tutte le norme che non permettono ai genitori di poter dare il cognome della madre ai propri figli ritenendo che queste contrastino con il principio di protezione dei diritti fondamentali (art. 2, cost.), con il principio di uguaglianza (art. 3, cost.) e con i vincoli e obblighi provenienti dalle fonti internazionali e da quelle comunitarie (art. 117 c.1, cost.).

L’illegittimità costituzionale riguarda tutti gli articoli che prevedono l’automatica attribuzione del cognome del padre ai figli nati nel matrimonio, ai nati fuori dal matrimonio e ai figli adottivi (art. 237 c.c.; art. 262 c.1, c.c.; art. 299, c.3, c.c.; art.72 c.1 del regio decreto n.1239 del 1939; artt. 33 e 34 d.p.r. n.396 del 2000).

Così si apre la possibilità di assumere il cognome che i genitori, di comune accordo, decidono: solo quello della madre, solo quello del padre o entrambi. In mancanza di accordo, sarà il giudice a dover intervenire.

2. Il caso che ha portato alla decisione e la disciplina previgente del cognome dei figli.

A portare agli onori della cronaca la questione è stata l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Bolzano. Il giudice doveva decidere sulla modifica di un atto di nascita di una bambina alla quale era stato dato solo il cognome della madre.  Era stato infatti l’ufficiale dello stato civile che dopo aver iscritto la bambina alle liste con il cognome della madre, aveva presentato un’istanza alla Procura Regionale di Bolzano perché si procedesse con la modifica – per vie giudiziali – del cognome e le si aggiungesse quello padre, come era stato sottolineato in un caso analogo dalla Corte nel 2016

Questa sentenza del 2016, in realtà, aveva però stabilito che non si potesse impedire ai genitori di dare entrambi i propri cognomi, ma nulla aveva detto sulla possibilità di dare solo quello della madre. Le opzioni erano quindi due: o doppio cognome, o solo cognome del padre. Secondo il giudice di Bolzano, allora, si era di fronte comunque ad una norma discriminatoria per le madri perché si poteva dare il cognome materno solo se accompagnato da quello paterno. Questa ragione lo ha spinto a sollevare la questione di costituzionalità.

Il giudice di Bolzano ha sostenuto anche che questa disciplina sia in contrasto con alcuni principi: quello di protezione dei diritti fondamentali, “sotto il profilo dell’identità personale”; quello di uguaglianza che deve ispirare, fra tutti, anche i rapporti genitoriali. A questi si aggiunge il rispetto dei vincoli e degli obblighi che derivano dall’ordinamento internazionale e dall’Unione europea. Tali norme della Convenzione dei diritti fondamentali dell’Unione europea che prevedono la “protezione dell’identità personale del figlio” (art. 8) e il divieto di discriminazione (art. 14).

Infatti, anche la Corte Europea dei diritti dell’uomo, nella sentenza Cusan e Fazzo contro Italia del 2014, aveva stabilito che questo meccanismo automatico fosse discriminatorio nei confronti delle donne, in quanto non prevedeva la possibilità del solo cognome della madre. Di conseguenza, la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva affermato la violazione dei principi della CEDU nella parte in cui non è permesso ai genitori, in quel caso, coniugati, di iscrivere allo stato civile il proprio figlio con il cognome della madre.

3. La questione di costituzionalità

La Corte, dopo aver esaminato il caso, amplia il quesito costituzionale ritenendo di dover affrontare, in via pregiudiziale, i profili di compatibilità o incompatibilità costituzionale del meccanismo generale di prevalenza del cognome del padre rispetto al cognome della madre (art. 262 c.1, c.c.).

Infatti, scrive la Corte che se si accogliesse la questione come sollevata dal giudice di Bolzano si avrebbe comunque l’attribuzione del solo cognome del padre in tutte le situazioni in cui l’accordo manchi o non sia stato esplicitamente espresso dai genitori. Così non si risolverebbe il cuore della questione, perché non ci sarebbe parità tra l’attribuzione del cognome di uno dei genitori, ma ancora prevalenza di quello del padre.

Infatti, quest’articolo si riferisce solo all’ipotesi in cui se vi sia consenso dei genitori ad attribuire un solo cognome il figlio assume quello del padre o di entrambi. Se si modificasse questa norma, nei termini prospettati dal giudice di Bolzano, il radicamento della visione patriarcale della struttura della famiglia sarebbe confermato nell’ipotesi in cui invece non vi è accordo fra i genitori.

La Corte motiva così l’ampliamento della questione: “il modo in cui occasionalmente sono poste le questioni incidentali di legittimità costituzionale non può impedire al giudice delle leggi l’esame pieno del sistema nel quale le norme denunciate sono inserite”. Questa è una modalità inusuale sicuramente ma già utilizzata in precedenza in altri giudizi.

4. Una sentenza fondamentale per la pari dignità dei genitori

Sono molto significative le due raccomandazioni che la Corte rivolge al legislatore di fronte alla questione sollevata dal giudice di Bolzano.

Innanzitutto, la Corte spiega che la norma censurata (art. 262 c.1, c.c.) riguarda il momento attributivo del cognome, legato quindi all’acquisizione dello stato di figlio: se il cognome definisce l’identità del figlio, allora deve rispecchiare l’uguaglianza e la pari dignità dei genitori. I legami familiari sono tre, non due, continua la Corte: quello “genitoriale con il padre, identificato da un cognome” che rappresenta “il suo ramo familiare”; quello con la madre e il suo ramo familiare, e quindi definito dal cognome di quest’ultima; e l’ultimo che consiste nella possibilità di dare entrambi i loro cognomi in modo tale da accoglierlo nel nucleo familiare. La prevalenza, quindi, del cognome paterno, come appunto prevede la disciplina censurata, “oscura unilateralmente il rapporto genitoriale con la madre”.

La Corte chiarisce che la nuova disciplina non deve creare situazioni in cui fratelli e sorelle abbiano diversi cognomi. Aggiunge che è necessario ripensare il criterio e “individuare un ordine di attribuzione dei cognomi” in conformità ai principi costituzionali e agli obblighi internazionali che non riproduca la medesima discriminazione. Infatti, prevedere un criterio caratterizzato da un automatismo in cui a venire trasmesso alla fine è sempre il cognome paterno, favorisce comunque una discriminazione. 

La Corte sottolinea però che il legislatore, nel modificare la disciplina, deve impedire che si verifichi un “meccanismo moltiplicatore” del cognome nelle generazioni prossime tale da ledere “la funzione identitaria del cognome”.

Il tema non è di certo nuovo per la Corte. Anzi, oltre alle raccomandazioni, i giudici redarguiscono il legislatore di non essere ancora intervenuto nonostante le diverse censure che si sono susseguite negli anni in relazione al meccanismo dell’automatica attribuzione del cognome paterno. Pertanto, nel rispetto del principio di parità di genere, deve essere prevista la possibilità per i genitori di attribuire il cognome che preferiscono – solo materno, solo paterno, entrambi. Soluzione, tra l’altro, che è già presente in altri ordinamenti dell’Unione Europea.

5. Qualche riflessione

Non si può non riconoscere che questa sentenza – come afferma la Corte stessa – comporti un passo avanti perché abbatte un ostacolo alla pari dignità dei genitori e alla parità di genere.

Su questo il femminismo giuridico ha molto riflettuto, proponendo una lettura del diritto attenta alle questioni di genere da un punto di vista teorico, metodico, ideologico e anche linguistico.

Vi sono diverse correnti, alcune più radicali di altre, che ragionano sull’interpretazione femminista del diritto e su come si possa proporre una lettura del diritto orientata non solo ad eliminare le barriere della cultura patriarcale che sono rappresentate, ancora, nelle norme del nostro ordinamento, come nel caso del meccanismo del cognome del padre, ma ad interpretare il diritto secondo un’ottica plurale e inclusiva delle differenze delle persone che lo compongono.

Infatti, il soggetto giuridico a cui le leggi si rivolgono è, sostanzialmente, un soggetto maschile e ciò comporta che le discriminazioni, non solo di fatto, ma anche previste in norme, siano ancora all’ordine del giorno. L’idea è quindi di ripensare le strutture del diritto secondo un’ottica femminile e “per differenza” – una delle correnti del femminismo è il “femminismo per differenza” – in modo tale da creare un sistema attento alle diversità, tutte.

L’impostazione patriarcale della famiglia negli anni è stata smussata dal legislatore e dalle corti, come in questo caso, e si è lentamente avvicinata ad una concezione di parità sostanziale di genere nei rapporti genitoriali. Nonostante vi siano ancora molti retaggi della cultura patriarcale, questi sono destinati ad essere progressivamente eliminati dal sistema, se, passo dopo passo, si continueranno a sollevare questioni di legittimità costituzionali, sul tenore di questo giudizio.

Concludendo con le parole della Corte “unità ed uguaglianza non possono coesistere se una nega l’altra, se l’unità opera come limite che offre un velo di apparente legittimazione a sacrifici imposti in una direzione solo unilaterale. A fronte dell’evoluzione dell’ordinamento, il lascito di una visione discriminatoria, che attraverso il cognome si riverbera sull’identità di ciascuno, non è più tollerabile”.

Parola alla Corte costituzionale: legittimi i d.P.C.m. adottati nell’emergenza Covid

di Chiara Gentile

ABSTRACT: Con la sentenza n. 198/2021 la Corte costituzionale salva la linea di Governo seguita dallo scoppio della pandemia ad oggi per contenere la diffusione del virus. I d.P.C.m. attuativi delle misure previste nei decreti-legge non violano la Costituzione: nessuna delega della funzione legislativa al Governo.


Con un’importante e attesa sentenza (n. 198/2021), la Corte costituzionale ha ritenuto legittime le restrizioni imposte durante il lockdown e le sanzioni per la loro violazione previste dai decreti-legge nn. 6/2020 e 19/2020.

Preliminarmente all’analisi della sentenza e al fine di comprenderne meglio la rilevanza, è opportuno fornire il quadro generale delle linee di governo seguite per contrastare la diffusione del virus SARS-CoV-2 (c.d. coronavirus o Covid-19).

Il contesto

In seguito allo scoppio dell’emergenza epidemiologica, a livello statale gli strumenti più utilizzati per contenere la propagazione del virus sono stati due:

  1. il decreto-legge, che è un atto avente forza e valore di legge adottato dal Governo, in casi straordinari di necessità e urgenza, che, secondo l’art. 77, co. 2, Cost., deve essere convertito in legge entro 60 giorni dalla pubblicazione per non perdere efficacia sin dall’inizio;
  2. il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (d.P.C.m.), un atto previsto e disciplinato non dalla Costituzione ma dalla legge (o altra fonte primaria), che è adottato dal Presidente del Consiglio in presenza dei presupposti individuati dalla fonte, la cui efficacia è limitata nel tempo e deve essere precisata all’interno dell’atto stesso.

Come si evince da questa schematizzazione, per il decreto-legge vi è un coinvolgimento almeno successivo del Parlamento, che interviene nella fase della conversione in legge, mentre il d.P.C.m. rimane sottratto all’intervento parlamentare e si configura quale atto interamente governativo.

Sin dai primi decreti-legge il Governo ha rimesso la concreta attuazione delle misure in essi contenute a successivi d.P.C.m., strumenti di più rapida adozione che riescono, perciò, ad adattare le misure disposte in via generale dalla fonte primaria allo sviluppo dell’emergenza.

La gestione della pandemia a colpi di decreti-legge e d.P.C.m. attuativi è stata fortemente criticata per la marginalizzazione del Parlamento, che, in quanto istituzione di massima rappresentanza ed espressione della volontà popolare, avrebbe invece dovuto essere in prima linea, soprattutto perché le misure di contrasto alla diffusione del virus hanno avuto un forte impatto sul godimento e sull’esercizio dei diritti e delle libertà fondamentali (si pensi, per esempio, al divieto di lasciare la propria abitazione e spostarsi nel territorio comunale, all’imposizione di un coprifuoco, all’introduzione di forme di didattica a distanza). Alla luce di queste premesse, è ora possibile esaminare e comprendere meglio la decisione della Corte.

La sentenza

I fatti all’origine della sentenza possono riassumersi come segue.

Il giudice di pace di Frosinone doveva pronunciarsi sull’opposizione proposta da un privato cittadino avverso la sanzione amministrativa di 400 euro, inflittagli per aver violato il divieto di uscire dalla propria abitazione e spostarsi nel territorio comunale, come prescritto dal d.P.C.m. 22 marzo 2020, che, in attuazione del d.l. n. 6/2020, introduceva misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica.

Secondo il giudice di pace, il d.l. n. 6/2020 delegava al d.P.C.m. 22 marzo 2020 la disciplina di nuovi illeciti amministrativi, così attribuendo all’atto la “forza di legge” necessaria richiesta dal principio di legalità delle sanzioni amministrative (art. 1 della l. n. 689/1981), in evidente contrasto con l’art. 76 Cost., che ammette che il Parlamento deleghi al Governo l’esercizio della funzione legislativa solo con apposita legge-delega, e l’art. 77, co. 1, Cost., che specularmente esclude che il Governo possa emanare decreti con valore di legge senza previa delegazione del Parlamento. In sostanza, il decreto-legge, fonte di rango primario, avrebbe rimesso al d.P.C.m., atto di rango sub-primario, l’esercizio della funzione legislativa in violazione del principio di tipicità delle fonti-atto di produzione normativa, al di fuori dell’unica situazione emergenziale in cui la Costituzione prevede una tale delega di poteri al Governo, cioè lo stato di guerra (art. 78 Cost.).

Il nodo centrale della vicenda è dunque la qualificazione amministrativa o legislativa della funzione esercitata dal Presidente del Consiglio dei ministri mediante i d.P.C.m.

In primo luogo, la Corte costituzionale ha dichiarato le questioni di legittimità attinenti al d.l. n. 6/2020 inammissibili per difetto di rilevanza, perché, come evidenziato dal Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato in giudizio dall’Avvocatura di Stato, al momento dell’infrazione del divieto di uscire dalla propria abitazione il d.P.C.m. 22 marzo 2020 non aveva più efficacia: esso era stato sostituito dal d.P.C.m. 10 aprile 2020, attuativo del d.l. n. 19/2020.

In secondo luogo, le questioni di legittimità attinenti al d.l. n. 19/2020 sono state dichiarate ammissibili, ma non fondate, per le seguenti ragioni.

L’art. 1, co. 1, dello stesso decreto prevede espressamente che le sole misure che possono essere adottate sono quelle elencate nel successivo co. 2, e non anche altre misure indefinite; inoltre, sempre l’art. 1 prescrive la temporaneità di tali misure, adottabili per periodi predeterminati e reiterabili non oltre la fine dello stato di emergenza. Non solo: la scelta delle misure attuative deve avvenire nel rispetto dei principi di adeguatezza e proporzionalità, entrambi volti a orientare l’esercizio della discrezionalità amministrativa.

Il d.P.C.m. 10 aprile 2020, nel consentire «solo gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero per motivi di salute» (art. 1, co. 1), e nello stabilire che le disposizioni in esso contenute «producono effetto dalla data del 14 aprile 2020 e sono efficaci fino al 3 maggio 2020» (art. 8, co. 1), ha semplicemente adattato all’attuale andamento della pandemia quanto stabilito in via generale dal d.l. n. 19/2020.

Il legislatore pertanto si è limitato ad autorizzare il Presidente del Consiglio ad attuare «mediante atti amministrativi sufficientemente tipizzati» le misure tipiche previste nella fonte primaria.

Infine, la Corte ha tracciato la linea distintiva tra il d.P.C.m. in questione e il modello delle ordinanze libere e contingenti (c.d. extra ordinem), cui sono riconducibili le ordinanze di protezione civile, emanate anch’esse dal Presidente del Consiglio dei ministri ai sensi degli artt. 5 e 25 del d.lgs. n. 1/2018 (Codice della protezione civile). Infatti, sebbene entrambi gli atti siano adottati dallo stesso organo, designato da una fonte primaria, nel rispetto dei presupposti in essa individuati, e producano effetti per un periodo di tempo delimitato, il contenuto delle ordinanze extra ordinem è libero e non tipizzato dalla fonte primaria, come avviene per il d.P.C.m.

Il punto

Con la sentenza in esame la Corte costituzionale pone fine al dibattito sulla legittimità costituzionale dei d.P.C.m. adottati per contrastare l’emergenza epidemiologica: nessun conferimento di potestà legislativa al Governo, nessuna violazione del principio di legalità e, di conseguenza, nessuna lesione dei diritti fondamentali per effetto di misure adottate illegittimamente.

Una conclusione con evidenti risvolti positivi, poiché, escludendo che i d.P.C.m. siano incostituzionali, la Corte “salva” la linea d’azione seguita dalle istituzioni sin dallo scoppio della pandemia e, di riflesso, consente di proseguire lungo questa linea senza che ciò determini, di per sé, una illegittima compressione delle libertà e dei diritti dei cittadini. La Corte compie così un passo in avanti e completa la precedente sentenza n. 37/2021, avente ad oggetto la ripartizione delle competenze tra Stato e Regioni nel contrasto alla pandemia, in occasione della quale aveva evitato di affrontare la questione della legittimità dei d.P.C.m., limitandosi a specificare che questi sono atti «comunque assoggettati al sindacato del giudice amministrativo».

In termini analoghi si era precedentemente espresso il Consiglio di Stato nel parere n. 850/2021, rilevando che la linea d’azione governativa è coerente con il sistema delle fonti, nonché enfatizzando che solo lo strumento del d.P.C.m. è in grado di assicurare «la duttilità, l’adattabilità e la flessibilità necessarie ad aderire plasticamente alla continua mutevolezza delle condizioni oggettive di sviluppo e andamento della pandemia».

La sentenza della Corte conduce infine a una riflessione critica. Definendo i d.P.C.m. attuativi della normativa primaria sull’emergenza epidemiologica quali «atti amministrativi» e negando loro la natura di fonti extra ordinem, la Corte prende una posizione netta e condivisibile, non solo per le ragioni suesposte, ma anche perché, visto il carattere meramente “attuativo” di tali d.P.C.m., essi mancano di quella “innovatività” che è propria delle fonti normative di rango primario. Non è chiaro, tuttavia, se il ragionamento della Corte si estenda a tutti i d.P.C.m., come categoria generale, purché «sufficientemente tipizzati» nel contenuto, o si applichi solo a quelli adottati nel contesto dell’attuale pandemia (l’assenza di termini perentori nella decisione della Corte è sottolineata anche da Cavino, 2021). In sostanza, l’interrogativo che sorge è se i d.P.C.m. siano sempre atti amministrativi: ciò rileva, in particolare, dal momento che la posizione espressa dalla Corte si pone in contrasto con quella parte della dottrina che riconduce i d.P.C.m. alla categoria delle ordinanze contingibili e urgenti e, sulla base della capacità di tali ordinanze di derogare alla legge (o ad altra fonte primaria), riconosce loro forza innovativa e quindi natura “sostanzialmente normativa”. 

Il ruolo delle Regioni nel contrasto alla pandemia

di Carlo Alberto Ciaralli

ABSTRACT: La sentenza della Corte costituzionale del 12 marzo 2021, n. 37, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di numerose disposizioni contenute nella legge regionale della Valle d’Aosta n. 11/2020, avente ad oggetto misure di contenimento della diffusione del virus Covid-19 nelle attività sociali ed economiche regionali. La Corte costituzionale ha ricondotto le disposizioni emergenziali di contrasto alla diffusione del virus nell’ambito della “profilassi internazionale”, materia di competenza esclusiva statale, ridimensionando fortemente il ruolo delle Regioni nella gestione dell’emergenza sanitaria.

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Con la pronuncia del 12 marzo 2021, n. 37, la Corte costituzionale è intervenuta sul delicato tema del rapporto tra Stato e Regioni nell’elaborazione ed implementazione delle politiche di contrasto all’emergenza sanitaria derivante dalla diffusione del virus Covid-19, riconoscendo allo Stato una sostanziale primazia nell’imposizione delle misure necessarie al fine di fronteggiare la drammatica diffusione dell’infezione su scala nazionale.

La sentenza n. 37/2021 si rivela assai interessante, specie in relazione alla gestione verticale della crisi sanitaria, nonché con riferimento alla querelle, protrattasi per lungo tempo, circa l’effettivo ruolo riconosciuto alle Regioni (e, in particolare, ai Presidenti di Regione) nell’affrontare le conseguenze drammatiche della pandemia. Come noto a tutti, specie in coincidenza di importanti appuntamenti elettorali, taluni Presidenti di Regione hanno assunto un protagonismo mediatico di primo momento, rivendicando sovente scelte che si ponevano in parziale distonia con quanto disposto dallo Stato centrale. Si pensi, per citare solo alcuni esempi, alla “chiusura” unilaterale dei confini regionali, alla contrattazione autonoma per l’acquisto di vaccini non ancora validati ed adottati né da EMA né dalle autorità sanitarie nazionali, nonché alla redazione di specifici profili di prevalenza nell’accesso prioritario alla vaccinazione.

In particolare, la Corte costituzionale è stata chiamata a valutare la conformità alla Costituzione di talune disposizioni contenute nella legge regionale della Valle d’Aosta 9 dicembre 2020, n. 11, recante “Misure di contenimento della diffusione del virus SARS-COV-2 nelle attività sociali ed economiche della Regione autonoma Valle d’Aosta in relazione allo stato d’emergenza”. Dal punto di vista del riparto delle competenze tra Stato e Regioni, la Corte costituzionale, apertis verbis, ha riconosciuto l’afferenza delle misure di contrasto all’emergenza pandemica da Covid-19 (e di ogni altra emergenza sanitaria involgente l’applicazione di “procedure elaborate in sede internazionale e sovranazionale”) alla materia “profilassi internazionale”, quindi di esclusiva competenza dello Stato, a norma dell’art. 117, co. 2, lett. q), della Costituzione (fra le altre, si vedano le precedenti pronunce nn. 5/2018, 270/2016, 173/2014, 406/2005, 12/2004).

In prima istanza, il Giudice delle leggi ha posto alla base della propria decisione la necessità, ai fini di arginare gli effetti nefasti della pandemia, di una “disciplina unitaria, di carattere nazionale, idonea a preservare l’uguaglianza delle persone nell’esercizio del fondamentale diritto alla salute e a tutelare contemporaneamente l’interesse della collettività” (Considerato in Diritto, p.to 7.1). A nulla varrebbe, sul punto, la considerazione per la quale il sistema sanitario regionale sia stato il principale “ammortizzatore” nelle fasi particolarmente acute della diffusione dell’infezione ed un attore di primo piano nell’organizzatore territoriale della campagna vaccinale tuttora in corso, ponendo così le Regioni in una condizione di “eccezionale” visibilità nei riguardi dei cittadini. Ad avviso della Corte, infatti, il legislatore nazionale può, in ogni momento, imporre ai servizi sanitari regionali di adeguarsi a “criteri vincolanti di azione, e modalità di conseguimento di obiettivi che la medesima legge statale, e gli atti adottati sulla base di essa, fissano, quando coessenziali al disegno di contrasto di una crisi epidemica” (Considerato in Diritto, p.to 7.2). In tal senso, l’esclusività della competenza statale in materia è in grado di attrarre la produzione legislativa e regolamentare, nonché la complementare funzione amministrativa.

Sulla base della riconduzione delle misure di contrasto alla competenza esclusiva dello Stato, la Corte ha ritenuto che fosse sufficiente ad assicurare il coinvolgimento delle Regioni quanto disposto dai decreti legge nn. 19/2020 e 33/2020, laddove si prevede la necessaria acquisizione del parere dei Presidenti di Regione interessati da misure restrittive o, in caso di misure applicabili all’intero territorio nazionale, di quello del Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, nonché la possibilità per le Regioni di introdurre “misure derogatorie” restrittive o, per converso, ampliative rispetto a quelle già vigenti in ambito nazionale, previa intesa con il Ministro della Salute, nei casi e secondo le modalità previste dai dpcm. In tal senso, a parere della Corte, verrebbe salvaguardato il principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni, prevedendo un “percorso gestionale” concordato, laddove le misure previste dalla Stato non verrebbero “imposte”, bensì “condivise” con le Regioni, anche sulla base degli specifici dati territoriali relativi ai contagi. La riconducibilità delle misure emergenziali di contrasto alla pandemia alla materia “profilassi internazionale” non è stata, tuttavia, unanimemente ritenuta plausibile, giacché le argomentazioni proposte dalla Corte apparirebbero «piuttosto apodittiche e prive anche di un chiaro ancoramento che non sia quello logico-razionale, prospettato dallo stesso giudice» (V. Baldini, p. 417).

In sostanza, sulla base dello scrutinio svolto dalla Corte, alle Regioni viene interdetta qualsivoglia disciplina di carattere locale che, sovrapponendosi incongruamente a quella nazionale, tenda a “deviare” dal tracciato predisposto dal livello centrale, invadendo così la sfera di attribuzione riconosciuta allo Stato, per nulla rilevando la specialità statutaria della Regione Valle d’Aosta, posto che la competenza statale in materia di “profilassi internazionale” preesisteva, anche nei riguardi dell’ente regionale in parola, alla riforma del Titolo V della Costituzione (in tal senso, v. l’art. 36, co. 1, n. 1), della legge 16 maggio 1978, n. 196, recante “Norme di attuazione dello statuto speciale della Valle d’Aosta”). Sul punto, una parte dei commentatori ha paventato il rischio che la pronuncia abbia potuto recare in nuce l’intento di «dare copertura alla poderosa costruzione statale di contrasto alla pandemia, evitando qualsiasi possibile interferenza delle Regioni, anche nell’esercizio di competenze costituzionalmente garantite» (L. Cuocolo-F. Gallarati, p. 4), legittimando, così, una profonda estensione della nozione di “profilassi internazionale”, atta a ricondurvi, in senso teleologico, ogni azione intrapresa al fine di contenere la diffusione dell’infezione.

D’altro canto, in funzione di “contrappeso” rispetto ad una statuizione così perentoria, dalla pronuncia n. 37/2021 emerge anche una qualche attenzione nei riguardi della “preservazione” del valore costituzionale del principio autonomista, stante il potenziale “pericolo” che l’attivismo statale possa sfociare in un’illegittima compressione dell’autonomia regionale. Tale “attenzione” si estrinseca, necessariamente, nel richiamo al doveroso rispetto della disciplina costituzionale sul riparto delle competenze tra Stato e Regioni, articolandosi tale percorso in una duplice direzione: in primo luogo, nelle materie di competenza concorrente “tutela della salute” e “protezione civile”, verrebbe assicurato alle strutture sanitarie regionali di poter “operare a fini di igiene e profilassi, ma nei limiti in cui esse si inseriscono armonicamente nel quadro delle misure straordinarie adottate a livello nazionale, stante il grave pericolo per l’incolumità pubblica” (Considerato in Diritto, p.to 7.2). In secondo luogo, residuerebbero nella disponibilità esclusiva delle Regioni (competenza legislativa “residuale”, ex art. 117, co. 4, Cost.), tutte quelle azioni e provvedimenti che, atteggiandosi quali applicazioni “funzionali” delle disposizioni nazionali, non siano in alcun modo capaci di “interferire con quanto determinato dalla legge statale e dagli atti assunti sulla base di essa”, quali, a titolo esemplificativo, “la definizione di quali organi siano competenti, nell’ambito dell’ordinamento regionale, sia a prestare la collaborazione demandata dallo Stato, sia ad esercitare le attribuzioni demandate alla Regione” (Considerato in Diritto, p.to 16. In tal senso, si veda anche la pronuncia n. 250/2020).

Le Regioni, in tempo d’emergenza, hanno visto affermare fattualmente un nuovo protagonismo istituzionale. In occasione della pandemia, a ben vedere, l’ente regionale ha saputo imporsi e “proporsi” quale essenziale fondamento delle Repubblica, specie sotto il versante del necessario supporto al contenimento dell’infezione prima e, successivamente, nell’organizzazione territoriale della campagna vaccinale. Tuttavia, a parere di autorevole dottrina, la strada intrapresa dalla Corte apparirebbe sin troppo “drastica” (quanto necessitata), consentendo così allo Stato, nell’ambito della materia “profilassi internazionale”, di «entrare come un bisturi nel burro delle residue competenze regionali» (B. Caravita, p. 4).

Conclusivamente, non può considerarsi esente da criticità la soluzione individuata dalla Corte costituzionale. La riconduzione delle misure emergenziali di contrasto alla diffusione del virus Covid-19 alla materia “profilassi internazionale”, nonostante la dimensione globale della crisi sanitaria e specie se non “direttamente connessa” all’esecuzione di protocolli imposti a livello sovranazionale (è noto come ogni Stato membro abbia posto in essere strategie di contenimento piuttosto diversificate), non appare del tutto convincente. Seppure possa apparire giuridicamente necessario e logicamente ammissibile garantire un’omogeneità nazionale delle misure di contrasto all’emergenza pandemica, la riconduzione della disciplina alla materia “tutela della salute”, di competenza concorrente tra Stato e Regioni, avrebbe potuto assicurare il medesimo risultato, preservando maggiormente la funzione delle Regioni in tempi così gravi. Ad ogni buon conto, la disciplina generale dello Stato avrebbe potuto imporsi su legislazioni regionali divergenti o distoniche da essa, garantendo tuttavia un ruolo non riconducibile alla mera “esecuzione” da parte delle Regioni e valorizzando, al contempo, il principio cooperativo ed il rispetto delle reciproche sfere di competenza, intesi ambedue quali pilastri necessari della relazione tra centro e periferia.

I bilanci dei Comuni in affanno: dalle “Corti” le coordinate per evitare i dissesti

di Camilla Buzzacchi

La Corte costituzionale si è di recente pronunciata su una tematica di crescente – e preoccupante – attualità e rilevanza per tutte le amministrazioni del territorio: quella della difficile situazione finanziaria degli enti locali, che diventa questione sempre più critica dopo un anno di emergenza sanitaria, economica e sociale. Queste istituzioni si sono infatti prodigate con misure di varia natura per sostenere situazioni di disagio delle rispettive comunità: tale provvidenziale impegno ha comportato un’esposizione contabile che potrebbe implicare conseguenze spiacevoli per le stesse, ma soprattutto per le prestazioni che i cittadini da esse si attendono.

Con la sent. n. 34 del mese di marzo il giudice delle leggi ha accolto il ricorso della Corte dei conti, che ha dubitato della costituzionalità della disciplina della procedura di riequilibrio finanziario di Comuni e Province. Tale disciplina prevede che questi enti possano ricorrere al piano di riequilibrio finanziario pluriennale – il cosiddetto predissesto – che ha durata da quattro a venti anni: tale piano viene poi sottoposto al controllo della sezione regionale della Corte dei conti, che è chiamata a pronunciarsi sulla sua congruità. Occorre infatti che l’istituzione contabile valuti l’idoneità del piano a ripristinare l’equilibrio del bilancio nel tempo indicato dall’amministrazione: lo scrutinio viene effettuato a partire dall’attendibilità della copertura della spesa nell’intero periodo di rientro, ma riguarda altresì il rispetto dei limiti di indebitamento e dei vincoli di finanza pubblica nazionali ed europei.

Ora l’anomalia segnalata dal giudice remittente – che appunto in sede di questa verifica del piano ha riscontrato il possibile allontanamento dalla Costituzione – è che il Testo unico sugli enti locali non consentirebbe a tali enti di avvalersi del termine di sessanta giorni per deliberare il piano quando, durante la pendenza del termine per adottarlo, sia subentrata una nuova compagine amministrativa. Tale anomalia, e il giudizio che ne è seguito, offrono l’occasione per ragionare sulle condizioni della finanza di tante amministrazioni del territorio, prendendo come faro le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale e provando a prefigurare alcune ricadute che il crescente stato di indebitamento di questi enti potrà avere.

Tanti sono i beni costituzionali che, nella pronuncia della Consulta, vengono riconosciuti violati: anzitutto il principio dell’equilibrio di bilancio e quello della sana gestione finanziaria dell’ente – trattandosi di disposizioni che dovrebbero essere preposte al sano governo delle risorse – ma anche quello del mandato conferito agli amministratori dal corpo elettorale. Infatti il fatto che il dissesto si avvii in via automatica quando una nuova amministrazione subentri alla guida dell’ente, e che dunque essa sia chiamata a farsi carico di un’eredità onerosa ricevuta dalle precedenti gestioni, pregiudica da un lato la sua capacità di programmare il risanamento della situazione finanziaria compromessa; e dall’altro la sua possibilità di esercitare pienamente il mandato elettorale. Il vulnus tocca dunque addirittura il principio democratico ex art. 1 Cost., come tante decisioni della Corte ormai segnalano, a partire dalla c.d. sentenza di San Valentino – la n. 18/2019 – che ha completato la costruzione della nozione del bilancio quale bene pubblico: bene in qualità di strumento di soddisfacimento di diritti, e pubblico in quanto esso comporta l’obbligo dell’amministratore di rispondere delle decisioni che assume a riguardo. La finalità deve essere quella di evitare il dissesto attraverso un fattivo e coerente comportamento economico-finanziario dell’ente locale nel tempo ipotizzato di rientro dal deficit, ma per raggiungere tale risultato «i nuovi depositari del mandato elettorale devono essere posti nella condizione di farsene pienamente carico».

Ma anche il principio di buon andamento risulta negato, se si riflette che l’obiettivo della procedura di riequilibrio è quello di risanare una situazione deficitaria che può rendere poco efficace l’attività amministrativa: ovvero può comportare la rinuncia all’erogazione di servizi o alla realizzazione di opere necessarie per il benessere della comunità. Il giudice segnala che «le norme regolanti l’endemico fenomeno del dissesto degli enti locali» hanno avuto una «tormentata evoluzione legislativa» mentre occorre un assetto di regole che permetta ai medesimi di conseguire «un equilibrio strutturale che si conservi nel tempo». Tale orizzonte è auspicabile non per un mero desiderio di rigore contabile, ma perché questa è la condizione che garantisce «l’acquisizione delle entrate e l’individuazione degli interventi necessari a garantire l’erogazione dei servizi pubblici alla collettività»; rispetto a tale traguardo «gli amministrati possono valutare l’operato degli amministratori nella gestione della crisi», realizzandosi così nella maniera più autentica il modello del governo democratico.

Il riferimento alla situazione di crisi è formulato dal giudice con riguardo genericamente ai contesti di deterioramento dei conti che da anni tante amministrazioni presentano, ma ora suona ancora più realistico: ovvero da quando alla realtà di conti dissestati già esistente si è andato ad aggiungere l’eccezionale sforzo dei Comuni, volto soprattutto a rimediare a contesti di povertà legati al perdurare della pandemia, della mancanza di lavoro e alle molteplici condizioni di fragilità delle persone. Sforzo eccezionale da cui non è escluso che si producano sempre più numerose situazioni di squilibrio finanziario.

A tale proposito è interessante l’analisi Comuni in dissesto? Li prevede l’intelligenza artificiale di Raffaele Lagravinese e Giuliano Resce, pubblicata su LaVoce.info, che parte dal seguente dato di criticità: dall’introduzione, nel 1989, della speciale procedura di insolvenza dei Comuni, fino a fine 2019, vi hanno fatto ricorso 814 comuni, circa il 10 per cento del totale. L’analisi riferisce di metodologie che potrebbero consentire un approccio di tipo previsionale, dal momento che queste tecniche forniscono modelli predittivi che, nel caso qui in esame, condurrebbero ad acquisire per tempo la consapevolezza di situazioni di dissesto e a mettere in atto misure idonee a correggere – o addirittura prevenire – il «fallimento». Si rappresenta infatti la possibilità dell’integrazione tra open-data – ovvero quantitativi di dati che anche le amministrazioni italiane ormai raccolgono in maniera consistente – e intelligenza artificiale per poter «prevedere con una precisione molto alta i dissesti degli enti locali». Monitorando 7795 comuni italiani nel periodo 2009–2016, i risultati dello studio richiamato indicano che è possibile effettuare previsioni di insolvenza con un alto tasso di «veri positivi» e un basso tasso di «falsi positivi». E si conclude – curiosamente, visto il punto da cui qui si è partiti – che «i modelli in grado di prevedere i dissesti finanziari dei Comuni potrebbero diventare strumenti preziosi per le autorità di monitoraggio (ad esempio la Corte dei conti). Poiché la specificazione utilizza i dati degli anni precedenti per prevedere il default nell’anno in corso, i modelli possono far parte di un sistema di “diagnosi precoce” (early detection) per valutare i Comuni a rischio di difficoltà finanziarie e attuare politiche di recupero preventivo».

Ciò potrebbe essere di particolare utilità nella prospettiva che si apre, che per i Comuni sarà tutta in salita: essi sono stati in prima linea negli interventi a sostegno del disagio, ma con drastiche riduzioni di entrata, dovute al minor incasso collegato ai tributi locali e anche a quelli trasferiti. Rispetto a questa fiscalità, fondamentale perché i Comuni possano svolgere le proprie funzioni, la decretazione dell’emergenza ha infatti disposto delle sospensioni che, se hanno recato sollievo ai cittadini contribuenti, hanno però posto le amministrazioni davanti alla sfida titanica di garantire più prestazioni con minor gettito. E infatti grazie al decreto legge c.d. Rilancio si è provveduto ad avviare un tavolo di confronto, che ha generato una richiesta di 5 miliardi da parte degli enti locali, a cui il Governo ha risposto anche con maggior larghezza. Ma ciò non elimina lo scenario non propriamente sereno che aspetta i sistemi di finanza locali, che verosimilmente si troveranno a dover ricorrere a procedure di dissesto che preoccupano soprattutto per il vuoto di servizi che potrebbe derivarne: e dunque per la mancata risposta a bisogni di un crescente numero di persone in difficoltà. È prima di tutto nell’ente di prossimità che essi trovano un supporto che non deve in alcun modo venir meno in una fase di emergenza di cui, al momento, non è ben distinguibile la fine. Amministratori responsabili devono pertanto poter destinare risorse certe – e non frutto di un ricorso al debito di cui poi non potranno rispondere – alle tante richieste che stanno emergendo, e che una legislazione statale coerente deve consentirgli di utilizzare secondo criteri virtuosi per il bene delle proprie comunità.