Presentazione a cura del Prof. Francesco Bilancia, Ordinario di Diritto Pubblico presso l’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara e coordinatore scientifico, insieme con la Dott.ssa Marta Ferrara, del ciclo di conferenze.
Presso l’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara, nell’ambito del Dipartimento di Scienze giuridiche e sociali, in collaborazione con il Corso di dottorato di ricerca in Business Institutions Markets e con il Dipartimento di Economia, ha preso avvio un Ciclo di Seminari in tema di Green Deal, Next Generation EU, PNRR.
Gli incontri, condotti da studiosi di diverse discipline e con competenze scientifiche interdisciplinari, prendono avvio dall’inquadramento tematico mosso dalla crisi climatica e dal riscaldamento globale, per definire significato e valore dei paradigmi dello “Sviluppo sostenibile” e della c.d. Economia circolare, allo scopo di misurare l’impatto di questi obiettivi sull’evoluzione delle politiche pubbliche, compresi i concreti profili applicativi della “transizione ecologica”.
Seguendo il flusso degli argomenti dei numerosi seminari previsti, ci si renderà conto che, lungo le linee degli investimenti e lo sviluppo delle principali riforme imposte quali condizioni dell’intervento finanziario previsto, saranno oggetto di riflessione quasi tutti i complessi paradigmi teorici toccati dal recovery fund.
A partire dall’impatto delle nuove “European policies” e delle nuove forme di intervento pubblico nell’economia sul regime della concorrenza. Da qui ci si muoverà lungo l’asse delle riforme della governance economica e degli assetti di governo nazionale, comprendente una visione di impatto sul sistema delle autonomie, sulle fonti del diritto e sull’organizzazione amministrativa. Per procedere con riflessioni in materia di proprietà industriale, processo civile, informatizzazione della pubblica amministrazione e semplificazione dei procedimenti.
L’articolazione delle competenze coinvolte apre lo sguardo anche sui profili della comunicazione istituzionale e pubblica, sui temi dell’equità e della solidarietà sociale, della parità di genere, della giustizia tributaria, della digitalizzazione dell’economia e delle amministrazioni pubbliche, fino alla riforma delle procedure fallimentari in relazione alle crisi aziendali.
La questione degli assetti istituzionali e del sistema delle relazioni sociali ed economiche a valle dell’emergenza pandemica – presente in tutti gli ambiti tematici richiamati – nella prospettiva di ipotizzare previsioni su cosa potrà condurre con sé l’auspicato “ritorno alla normalità”, aprirà infine la riflessione sull’intreccio dei mutamenti in atto nel contesto istituzionale con il dibattito relativo al “Futuro dell’Unione europea”.
NdR: Qui di seguito pubblichiamo le singole locandine ed ogni informazione utile per seguire i seminari.
Il 4 novembre 2021 il Consiglio dei Ministri ha approvato il Disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021 (ddl concorrenza). Come previsto da una legge del 1999, questo serve a “rimuovere gli ostacoli regolatori, di carattere normativo o amministrativo, all’apertura dei mercati, promuovere lo sviluppo della concorrenza e garantire la tutela dei consumatori”. Tra le numerose misure, l’art. 6 del disegno di legge prevede una “delega in materia di servizi pubblici locali”. Il Governo, vale a dire, chiede al Parlamento, che dovrà trasformare in legge il disegno di legge, di delegarlo a riordinare i servizi pubblici locali, anche tramite l’adozione di un apposito testo unico. Vengono elencati ben ventuno principi e criteri direttivi ai quali il futuro decreto legislativo/testo unico dovrà ispirarsi. Tra questi spiccano quelli di cui alla lettera f) dell’articolo 6, ove si stabilisce che gli enti locali debbano giustificare in modo “anticipato e qualificato” (sic) il mancato ricorso al mercato, ossia le ragioni per cui scelgano o confermino il “modello dell’autoproduzione”. In parole più semplici, se un comune o un gruppo di comuni vogliono continuare a fornire l’acqua potabile, smaltire i rifiuti, gestire i trasporti pubblici e l’igiene urbana attraverso proprie aziende (quelle che vengono chiamate società in house) dovranno darne conto all’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Dovranno, vale a dire, spiegare le ragioni che giustificano la gestione pubblica “sul piano economico e della qualità, degliinvestimentie dei costi dei servizi per gli utenti … anche in relazione ai risultati conseguiti nelle pregresse gestioni in autoproduzione”. In termini ancora più espliciti, la regola diventerà quella della concessione ai privati dei servizi pubblici. La gestione pubblica sarà l’eccezione da motivare ‘qualificatamene’.
Vi è persino di più. Si intende anche revisionare la “disciplina dei regimi di proprietà e di gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni”. Frase quantomai ambigua, che diventa più chiara continuando a leggere che si prevederà la “cessione dei beni in caso di subentro, anche al fine di assicurare un’adeguata valorizzazione della proprietà pubblica, nonché un’adeguata tutela del gestore uscente”. Insomma, siamo alla politica di ‘valorizzazione’ del patrimonio pubblico dei primi anni Novanta del secolo scorso, la vendita dei gioielli di stato per fare cassa, che qualcuno, meno pudicamente, chiama la svendita dei beni pubblici. In pratica, si apre la strada, per esempio, alla privatizzazione degli acquedotti.
Quali sono le ragioni di questa scelta, che riguardo al servizio idrico è in contrasto sia con il referendum, che nel 2011 vide un successo schiacciante dei promotori dell’acqua come bene comune, sia con il disegno di legge Daga presentato alla Camera all’inizio della legislatura e sottoscritto da 205 deputati? Non ci eravamo lasciati alle spalle la stagione del neoliberismo e dello smantellamento dello stato? Non ci avevano insegnato il Covid e i fallimenti delle privatizzazioni (si pensi alle autostrade) che il settore pubblico è strategico e che gli interessi e i beni pubblici essenziali non devono essere ‘messi a profitto’?
Nessuno può negare che molte amministrazioni e aziende pubbliche non funzionano o che esistono fenomeni di clientelismo e corruzione (come se nel privato non ve ne fossero). Il punto, però, è che i fatti hanno mostrato che la soluzione non è certo quella di ricorrere al mercato per supplire ai ‘fallimenti dello stato’, la faccia nascosta dell’ambigua teoria dei market failures, secondo cui lo stato esisterebbe per rimediare ai problemi lasciati insoluti dal mercato. Come se il ‘mercato’ fosse una sorta di problem solver, un’entità metafisica, con fini suoi propri, cui di tanto in tanto va fatto un ‘tagliando’. E non invece un complesso fatto istituzionale operante in virtù di un insieme di regole sociali, giuridiche, pratiche conflittuali, eccetera. Se si vogliono far funzionare le istituzioni pubbliche, occorrono politiche, azioni e misure – e soldi – in luogo delle vacue riforme degli ultimi trent’anni, dettate dall’agenda della semplificazione e del “meno stato più mercato”.
Italia Domani, ossia il PNRR, enfatizza ripetutamente la necessità di “assicurare la costruzione di una capacità amministrativa stabile all’interno delle PA. Questa deve consentire non solo di realizzare in maniera efficace ed efficiente i progetti di riforma e di investimento previsti dal Piano, ma di fornire strutturalmente beni e servizi pubblici adeguati alle esigenze di cittadini e imprese” (p. 45). Basta scavare un poco, però, per scoprire che il PNRR è in piena continuità con le idee di semplificazione, snellimento, liberalizzazione, figlie dei ruggenti anni Novanta. Non è un caso, tornando all’oggetto di questo articolo, che le disposizioni sui servizi pubblici locali del ddl concorrenza siano tratte di sana pianta dal PNRR stesso. In una sezione intitolata “Concorrenza e valori sociali” leggiamo che “una parte importante del disegno di legge sarà diretta a promuovere dinamiche competitive finalizzate ad assicurare anche la protezione di diritti e interessi non economici dei cittadini, con particolare riguardo ai servizi pubblici, alla sanità e all’ambiente” (pag. 76). Curiosamente, però, per proteggere gli interessi ‘non economici’ dei cittadini si prescrive un “ricorso più responsabile da parte delle amministrazioni al meccanismo dell’in house providing”, cioè al meccanismo del servizio pubblico. E così, “andranno introdotte specifiche norme finalizzate a imporre all’amministrazione una motivazione anticipata e rafforzatache dia conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato”, eccetera, eccetera. A parte qualche vocabolo (“qualificata” ha preso il posto di “rafforzata” nel ddl concorrenza) le specifiche norme sono ora arrivate sugli scranni parlamentari.
Che farà il nutrito pacchetto di parlamentari firmatari della proposta di legge Daga? La proposta si ispira a “una gestione pubblica partecipativa e trasparente del bene comune costituito dall’acqua” (p. 3). Il suo art. 9 prevede che il “servizio idrico integrato è considerato servizio pubblico locale di interesse generale non destinato ad essere collocato sul mercato in regime di concorrenza” e che “la gestione del servizio idrico integrato è realizzata senza finalità lucrative, mediante modelli di gestione pubblica, e persegue finalità istituzionali e di carattere sociale e ambientale”. Basta che votino contro il disegno di legge governativo, si dirà, e Draghi se ne dovrà fare una ragione. Dopo tutto, salve le intoccabili regole sulla concorrenza del mercato interno (per i beni e i servizi che sono offerti dal mercato), nessuna legge europea impone agli stati di mettere sul mercato la somministrazione dell’acqua potabile.
Ma qui scatta un vero e proprio cortocircuito. La preferenza per la gestione privata dei servizi pubblici locali è una ‘riforma’ del PNRR e questo cambia le carte in tavola. Il governo italiano ha approvato il PNRR nell’aprile 2021, poi inviato alla Commissione Europea il 30 aprile 2021. Il Parlamento lo ha visto solo passare. I parlamentari ne discussero una bozza nel gennaio 2021, quella del governo Conte poi riformulata da Draghi, e si limitarono ad alcune generiche linee guida. Il PNRR, quindi, è formalmente una decisione del Consiglio dei Ministri privo di forza di legge. In linea di principio, il Parlamento non è vincolato a seguirne le direttive, che in molti casi consistono nell’approvare atti aventi forza di legge: 53, tra leggi, decreti-legge, decreti legislativi, da portare a termine tra il 2021 e il 2026. Qualunque studente del primo anno di giurisprudenza direbbe che è un nonsenso ipotizzare che il Parlamento sia obbligato ad approvare un disegno di legge elaborato in attuazione di un programma deciso dal Governo, salvo il meccanismo politico della fiducia.
Se, però, consideriamo il problema dal punto di vista dell’Unione Europea le cose cambiano. I piani di ripresa e resilienza sono i capisaldi di una complessa procedura prevista dal Regolamento (UE) 2021/241 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 febbraio 2021 (regolamento RRF), attraverso cui gli Stati membri ricevono gli ingenti finanziamenti del Next Generation EU. Il fulcro di questa procedura è l’accordo tra la Commissione e ciascuno Stato membro beneficiario che suggella il sostegno finanziario dell’UE e sancisce l’obbligo degli Stati membri di realizzare tutti gli obiettivi e le misure previste dai piani. In breve, la natura di tali piani secondo il diritto nazionale (in Italia una decisione del Governo) è irrilevante per l’Unione. Se uno Stato membro desidera accedere (e mantenere nel tempo) i finanziamenti Next Generation UE deve obbligarsi a eseguire quanto contenuto nell’accordo firmato con la Commissione UE.
Secondo il Regolamento europeo i piani nazionali stabiliscono in primo luogo e principalmente un percorso di riforma. Come spiegato nel documento di lavoro della Commissione europea del 22 gennaio 2021, l’elemento principale su cui si impernia un piano di ripresa e resilienza è denominato “componente”: “Ogni componente dovrebbe riflettere le relative priorità di riforma e investimento in un settore o in settori, attività o temi correlati, mirando ad affrontare sfide specifiche, formando un pacchetto coerente”. In breve, investimenti, progetti e riforme sono inestricabilmente legati. Il rispetto di questo ‘pacchetto’, riforme legislative comprese, è monitorato e verificato dalla Commissione. Non attuare una delle riforme promesse nel piano, secondo i tempi indicati, mette in pericolo l’ottenimento dei fondi europei su cui ruota l’intera tenuta del Paese nei prossimi anni.
Il Parlamento sembra, dunque, in un cul de sac, messo nell’angolo dalla decisione presa dal Presidente del Consiglio di inserire nel PNRR la riforma mercatistica dei servizi pubblici locali. Si profila, allora, all’orizzonte una nuova campagna referendaria promossa dal movimento “Acqua bene comune”, quando le nuove disposizioni vedranno la luce? Anche questa, si perdoni la battuta scontata, rischierebbe di produrre un buco nell’acqua. Le nuove regole sui servizi pubblici locali potrebbero essere escluse dal referendum abrogativo se ritenute disposizioni indispensabili per evitare il concretizzarsi di una «responsabilità dello Stato italiano per inadempimento di uno specifico obbligo comunitario, con conseguente violazione dell’art. 75, secondo comma, Cost.» (Corte cost. sent. n. 45/2000).
Il problema qui discusso mostra che la democrazia è un po’ in affanno. A costo di essere tacciato per il solito petulante nostalgico del defunto stato-nazione e della moribonda democrazia rappresentativa, credo che congegni come il PNRR per imporre in modo verticistico decisioni che calpestano la volontà popolare su questioni fondamentali (come l’acqua bene comune) non facciano il bene del Progetto Europeo.
Il modo per uscire dal cul de sac sarebbe per la ‘politica’ di riappropriarsi delle sue prerogative e – invece di appiattirsi sull’Agenda Draghi – decidere se la prospettata riforma dei servizi pubblici locali sia o meno compatibile con la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 28 luglio 2010 (GA/ 10967) che dichiara «il diritto all’acqua un diritto umano universale e fondamentale». L’accordo sul PNRR non è inciso nella roccia e non si può credere che un governo munito di un chiaro mandato parlamentare non abbia la possibilità di rinegoziare aspetti di dettaglio di un piano estremamente complesso. Possiamo, però, seriamente pensare che questo Parlamento abbia la forza e l’autorevolezza per assumersi questo compito?
Perché la sopravvivenza dell’orso bruno marsicano passa anche di qui
di Stefano Civitarese Matteucci
Premessa
Questo post prende le mosse dalla vicenda del gasdotto “linea Adriatica”, in particolare del suo tratto appenninico Sulmona-Foligno, che dovrebbe essere realizzato dalla SNAM nei prossimi mesi e anni per entrare in esercizio nel 2028. La vicenda si presta a vari piani di lettura ed è istruttiva per diverse ragioni. Le decisioni su queste infrastrutture sono il risultato dell’attività di una complessa rete di attori pubblici e privati su scala europea e nazionale di cui è estremamente difficile venire a capo per i non addetti ai lavori. Tale rete è caratterizzata da un’elevata commistione tra dimensione tecnica, spinte del mercato, lobbying, ruolo (rarefatto) dei decisori politici e partecipazione dei cittadini. Il settore del gas deve oggi misurarsi con la sfida epocale della transizione ecologica. Scendendo di livello – alla dimensione domestica – il piano di lettura diviene soprattutto quello del modo come certi interessi si misurano tra loro nel momento in cui devono essere tramutati in fatti (opere). Il procedimento per la valutazione di impatto ambientale (VIA) dovrebbe essere per antonomasia la sede in cui questo avviene. I fatti – almeno quelli che racconterò qui – mostrano che non è così.
Il racconto che segue comincia con alcune informazioni sulla “Linea Adriatica”. Da qui risale al quadro più ampio delle politiche energetiche e ambientali dell’Unione Europea, per tornare poi al rapporto tra la realizzazione di questa infrastruttura e gli “impegni” assunti dal Governo Italiano con il PNRR e suoi annessi e connessi. Bisognerà avere la pazienza di seguire tutto il filo per scoprire che c’entrano gli orsi con tutto questo.
“il progetto comprende la costruzione di circa 430 km di nuova linea di diametro DN1200 lungo la direttrice Sud – Nord e il potenziamento dell’impianto di compressione di Sulmona per circa 33 MW. La Linea Adriatica è funzionale al trasporto di quantitativi di gas provenienti da eventuali nuove iniziative di approvvigionamento dalla Sicilia e dal medio Adriatico. La Linea Adriatica può essere vista come uno sviluppo che ha carattere di generalità e che consente di potenziare le capacità della direttrice di importazione da Sud, favorendo l’interconnessione di nuove iniziative di importazione che insistono sul Corridoio ad alta priorità delle reti energetiche “Southern Gas Corridor”. Gli interventi di potenziamento della rete (metanodotti) necessari per il trasporto dei nuovi quantitativi di gas sono al momento in corso di acquisizione dei permessi” (p. 68).
LA è una porzione di ciò che all’inizio si chiamava “Rete Adriatica” (RA). Questa include sei tratti divisi in cinque “fasi funzionali”. Le prime due fasi, comprendenti i tre tratti Massafra-Biccari-Campochiaro-Sulmona – per 363 km –, sono state completate e il gasdotto è entrato in funzione dal 2012 sino a Biccari e dal 2016 sino a Sulmona. Quella che viene chiamata Linea Adriatica coincide con le altre tre fasi corrispondenti ai tratti Sulmona-Foligno-Sestino-Minerbio, quindi dall’Abruzzo all’Emilia-Romagna, passando per Lazio, Umbria e Marche.
La cartina mostra il tratto Sulmona-Foligno, lungo 167 Km, che attraversa la dorsale appenninica centrale e lambisce o attraversa vari parchi nazionali e regionali e aree protette di interesse comunitario.
Tratto Sulmona Foligno del Gasdotto Adriatico
Nei pressi di Sulmona è anche prevista una centrale di compressione. Le centrali di compressione servono a “spingere” il metano lungo la rete. In Italia ve ne sono già 13, come si vede nella cartina qui sotto (pallini scuri). Nella cartina sono mostrati anche i centri di stoccaggio, il più grande dei quali si trova in Abruzzo, presso il fiume Treste.
La rete per il trasporto e la distribuzione del metano è gestita in netta prevalenza da SNAM, e in parte minore da Gasdotti Italia. La Snam possiede 32.643 km di metanodotti tra nazionali e regionali. La rete, stante la quasi totale dipendenza dell’Italia da fonti esterne, trasporta il metano importato da Norvegia e Russia, da una parte, e da Algeria e Libia, dall’altra. Nella rete circola inoltre il gas prodotto nei tre rigassificatori di Livorno, Panigaglia e Rovigo che convertono il metano liquido trasportato dalle navi.
Si tratta di un sistema che ha una capacità di distribuzione superiore alla domanda. Lo si deduce dai dati riportati nel piano decennale SNAM sulla “capacità massima di importazione (continua e interrompibile)” e la produzione nazionale in relazione alla domanda complessiva di metano al netto delle ulteriori quantità immagazzinate negli impianti di stoccaggio.
Nella tabelle sottostanti (p. 28 Piano decennale) sono rappresentate, rispettivamente, la capacità continua d’importazione dai metanodotti in ingresso da estero e dagli impianti GNL (rigassificatori) e la produzione nazionale.
La più alta domanda di metano registrata negli ultimi anni, quella del 2017, è pari a 206,63 M Smc/g. Il quadro non cambia considerando le differenze nei consumi giornalieri tra inverno ed estate. I dati MISE registrano nel 2016-2017 un consumo medio giornaliero invernale di 317 milioni di mc., laddove quello medio estivo è di 139 milioni di mc. Anche d’inverno rimaniamo ben al di sotto della “capacità portante” del sistema.
Se poi si allarga lo sguardo all’andamento della domanda di gas in un arco temporale più ampio, si nota una costante e decisa tendenza alla decrescita dal 2000 a oggi.
Si comprende, pertanto, come non sia esercizio semplice giustificare programmi di espansione della rete, ancor più in considerazione – come si vedrà – dell’obiettivo della decarbonizzazione che investe il metano in quanto combustibile fossile.
Tornando a LA, la strategia della SNAM è stata sin dall’inizio quella di considerare ogni tratto della RA a sé stante dal punto di vista del procedimento di autorizzazione e dell’impatto ambientale, nonostante fossero stati sollevati dubbi sulla legittimità di questa sorta di “spacchettamento”. Ogni tratto è stato quindi sottoposto a distinti permessi e VIA. Un analogo approccio è stato in parte seguito anche per l’autorizzazione della centrale di Sulmona progettata come parte del gasdotto Sulmona-Foligno. Il progetto nel suo complesso è stato assoggettata a VIA (nel 2011), ma in seguito il procedimento per l’autorizzazione della centrale e quello per il gasdotto hanno seguito strade diverse. Al punto che la centrale di compressione è stata assentita nel marzo 2021 con autorizzazione integrata ambientale del MITE, che ha fatto seguito all’autorizzazione unica rilasciata dal MISE nel 2018. Il procedimento relativo al gasdotto Sulmona-Foligno è invece ancora pendente.
Nel suddetto Piano decennale si specifica che LA è inclusa nelTYNDP 2018 di ENTSOG, nella lista dei progetti che sono stati inseriti nel TYNDP 2020 e nei GRIP “Southern Corridor” e “South-North Corridor”. Inoltre, il progetto è nella lista PIC della Commissione Europea del 31 ottobre 2019, “con l’obiettivo di portare in Europa nuovo gas dalle riserve del Mediterraneo Orientale”. Di seguito cercherò di decifrare questa selva di sigle per il lettore non esperto. Esse si riferiscono alla dimensione europea dei metanodotti. Dimensione che gioca un ruolo determinante nelle decisioni nazionali. Basti notare il modo come il Consiglio dei Ministri, nella seduta del 22 dicembre 2017, effettui l’esame comparativo degli interessi a giustificazione della decisione di autorizzare la centrale di compressione di Sulmona nonostante l’avviso contrario di regione e comune. La tutela dell’ambiente viene contrapposta alla “rilevanza energetica e al carattere strategico dell’opera in quanto necessaria per la sicurezza degli approvvigionamenti a livello italiano ed europeo, essendo stata inclusa dalla Commissione Europea nella lista dei progetti di interesse comunitario”.
Il sistema del Regolamento UE TEN-E e le liste dei Progetti di Interesse Comune
Il Regolamento 347/2013 sul Trans-European Networks-Energy (TEN-E) determina come le istituzioni dell’Unione Europea scelgano i progetti relativi all’elettricità e ai combustibili fossili che beneficiano del supporto finanziario dell’Unione.
Il principale obiettivo del TEN-E risiede nell’accelerazione dello sviluppo di infrastrutture a rete strategicamente prioritarie per l’interconnessione energetica tra i paesi europei. I relativi progetti sono chiamati Progetti di Interesse Comune (PIC), le cui liste sono aggiornate con cadenza biennale. Una volta presenti nella lista i progetti godono di una corsia accelerata e preferenziale di pianificazione e autorizzazione e possono beneficiare dei fondi stanziati nell’ambito del Connecting Europe Facility (CEF). In Italia questa disciplina di favore è prevista all’interno del testo unico sull’espropriazione per pubblica utilità in un capo apposito intitolato “disposizioni in materia di infrastrutture lineari energetiche”. Vi è un articolo che riguarda espressamente la rete nazionale dei gasdotti e che indica un tempo massimo di nove mesi per ottenere il permesso da parte del Ministero per lo sviluppo economico. Occorre, però, l’intesa con le regioni e gli enti locali. Se questa non si raggiunge, il potere risolutivo è attribuito al Consiglio dei ministri, integrato con il Presidente della Regione interessata, la cui decisione dovrebbe intervenire entro i successivi nove mesi.
Per essere classificati PIC, e beneficiare della corsia preferenziale, i progetti devono essere stati inclusi nel più recente Ten-Year Network Development Plan (TYNDP), piano decennale di sviluppo della rete. Dall’entrata in vigore del TEN-E la Commissione ha adottato quattro liste di PIC, l’ultima il 31 ottobre 2019. Ad aprile 2021 si è conclusa la fase di consultazione del pubblico relativa alla quinta lista, che sarà adottata dalla Commissione entro il 2021. Quest’ultima non differisce molto dalla lista del 2019. Dei ben 77 progetti su 162 riguardanti il gas, cinque interessano l’Italia. Tra questi, oltre all’interconnessione Malta-Italia e al gasdotto Poseidon tra Grecia e Italia di Edison e Depa, troviamo la Direttrice Sud. Si tratta del Southern Corridor di cui parla la SNAM nel suo piano decennale, vale a dire il potenziamento del TAP (Trans Adriatic Pipeline), i gasdotti Matagiola-Massafra e la Linea Adriatica. Il Southern Corridor è oggetto, a sua volta, di un GRIP (Gas Regional Investment Plan) attraverso cui il TYNDP viene articolato su base regionale. La sostanza è che LA continua a essere riproposta, praticamente dall’inizio, in ogni lista PIC.
Il ruolo chiave delle compagnie nel governo del sistema
È interessante guardare un po’ meglio a come effettivamente un progetto arrivi a conquistare lo status di PIC nell’ambito del TEN-E. Il punto focale consiste nella governance del sistema. Prima dell’entrata in vigore del TEN-E nel 2013, la scelta dei progetti di infrastrutture energetiche da sovvenzionare era frutto di pure decisioni politiche ispirate da singoli Stati membri. Il Regolamento puntava a rendere più obiettivo il processo di identificazione dei progetti strategici. Per farlo si decise di conferire allo European Network of Transmission System Operators for Gas (ENTSOG), Rete europea di gestori del sistema di trasporto del gas, un ruolo chiave in questo processo. Questa rete di operatori era stata istituita con il terzo “pacchetto energetico” del 2009. L’art. 5 del Regolamento (CE) n. 715/2009 prevede che “entro il 3 marzo 2011, i gestori del sistema di trasporto del gas presentano alla Commissione e all’Agenzia un progetto di statuto, un elenco dei membri e un progetto di regolamento interno, comprese le norme procedurali per la consultazione di altre parti interessate, della REGST del gas”.
Nell’ambito di TEN-E, a ENTSOG è affidato il compito di redigere, ogni due anni, il piano decennale di sviluppo della rete, il suddetto TYNDP. Questo piano contiene la visione della rete metanifera europea, con una serie di modelli e scenari in un arco ventennale. Abbiamo già visto che l’inserimento nel TYNDP è condizione perché un progetto divenga di interesse comunitario. ENTSOG ha natura ambigua. Secondo le categorie degli studiosi italiani di diritto amministrativo potrebbe, forse, essere classificato come ente pubblico associativo. In fin dei conti è, però, un’associazione di industrie del settore i cui interessi sono direttamente legati ai profitti del mercato del gas. Di ENTSOG fanno parte 45 società, tre sono italiane, tra cui la SNAM. Molte di queste società sono a loro volta parte di holding più ampie, con forti interessi sui mercati europei e internazionali. Nel consiglio direttivo siedono i rappresentanti di 12 delle società aderenti. È, pertanto, poco credibile la rappresentazione che ENTSOG fornisce di sé come un soggetto indipendente e distante dagli interessi finanziari dei propri membri. È curioso notare che nel registro UE sulla trasparenza ENTSOG è registrata come “organizzazione non-governativa che non svolge azione di lobbying”. ENTSOE, l’organizzazione corrispondente nel settore elettrico, viceversa, si è registrata tra gli “in-house lobbyists” e le associazioni nel campo del commercio, degli affari e delle professioni.
Del resto, circa l’80% dei progetti che vengono inclusi nella lista PIC appartengono a società aderenti a ENTSOG. Non è difficile comprendere perché molti dubitano della correttezza di un sistema di governo edificato su un caso quasi scolastico di conflitto di interessi. Il che diviene ancora più evidente nel momento in cui la politica generale dell’Unione, con il Green New Deal, punta all’abbandono delle fonti fossili. Diversi studi mostrano, peraltro, come, anche in passato, le proiezioni sui fabbisogni per giustificare la necessità di nuove infrastrutture fossero sovrastimate.
Nello stesso processo di approvazione dei PIC, ENTSOG mantiene un ruolo di primo piano. I progetti sono sottoposti dagli interessati a degli organismi compositi chiamati “Gruppi regionali”, istituiti per corridoi e aree prioritari. Di questi organismi fanno parte rappresentanti degli Stati membri, delle autorità di regolamentazione nazionali, degli operatori di trasmissione energetica, oltre che della Commissione, dell’Agenzia per la cooperazione fra i regolatori nazionali dell’energia (ACER) e di ENTSOG. È vero che il TEN-E precisa che i poteri decisionali all’interno dei gruppi sono riservati agli Stati membri e alla Commissione. Le alternative decisionali si basano, però, sulla visione e gli scenari elaborati – e presentati all’inizio delle riunioni del Gruppo – da ENTSOG. I progetti potenzialmente ammissibili alla selezione devono essere, d’altronde, sottoposti a un’analisi dei costi-benefici (CBA) basata su metodologie che sono elaborate, ancora una volta, da ENTSOG. La decisione finale sui progetti da includere è assunta dall’organo decisionale del Gruppo su proposta dei componenti del Gruppo, dopo avere acquisito il parere dell’ACER. La Commissione alla fine, esercitando il potere delegatole nel Regolamento ai sensi dell’art. 172.2 TFUE, si limita a ratificare le decisioni prese dai Gruppi. I relativi regolamenti biennali contenenti la lista dei PIC entrano in vigore se né il Parlamento europeo né il Consiglio sollevano obiezioni entro il termine di due mesi dalla data in cui essi sono stati loro notificati.
Verso la riforma del TEN-E …
Nel dicembre 2020 la Commissione ha adottato una proposta per un nuovo regolamento sulle infrastrutture energetiche transeuropee, sospinta dal fatto che TEN-E deve essere reso compatibile con il Green New Deal, ma anche probabilmente dalla necessità di affrontare i nodi del sistema. In un rapporto indipendente del gennaio 2020 il ThinkTank francese Artelys aveva concluso che le 32 infrastrutture metanifere incluse nella quarta lista PCI del 2019 non erano necessarie per la sicurezza degli approvvigionamenti. Rappresenterebbero, quindi, un potenziale spreco di risorse pubbliche nell’ordine di decine di miliardi di euro. Le infrastrutture esistenti sono, infatti, sufficienti per fronteggiare un’ampia varietà di scenari quanto alla domanda di gas nell’Unione Europea persino nel caso di estremi eventi avversi. Altri studi, come il policy paper elaborato da un gruppo di studiosi della Florence School of Regulation presso l’Istituto Universitario Europeo, evidenziano l’opportunità di rivedere significativamente i meccanismi di adozione e l’impostazione dei piani decennali, le metodologie dell’analisi costi-benefici e i poteri assegnati ai vari attori nel sistema. Per esempio, il fatto che vi sia un TYNDP per ogni tipologica di infrastruttura tende a massimizzare gli interessi di ciascun settore (gas, elettricità, etc.) ma non agevola certo la razionalizzazione del sistema in vista della riduzione del fossile. Secondo questi studiosi, comunque, i gasdotti dovrebbero ancora poter essere inclusi nelle liste PIC, sebbene la priorità dei finanziamenti dovrebbe essere assicurata ai progetti più in linea con l’obiettivo della decarbonizzazione. Questa posizione è condivisa dall’ACER – il regolatore europeo –, che però ritiene necessarie riforme più incisive della governance e delle procedure, per assicurare una valutazione tecnica neutrale e indipendente dei progetti. A tal fine propone un sostanziale trasferimento dei relativi poteri all’Agenzia e alla rete dei regolatori nazionali dell’energia a scapito del ruolo dei Gruppi regionali, di cui propone l’abolizione.
Nella proposta di nuovo regolamento della Commissione – che pure conferma in buona misura l’impianto esistente – si trovano comunque misure innovative proprio rispetto al gas. Nella relazione leggiamo che, sebbene l’infrastruttura energetica sia uno strumento chiave per la transizione energetica, “il regolamento RTE-E nella sua versione attuale non è … adeguato a sostenere il raggiungimento dell’obiettivo della neutralità climatica”. Infatti, “l’infrastruttura è un bene a lungo termine e pertanto deve essere coerente con la neutralità climatica e altri obiettivi ambientali, come il principio del “non nuocere” che informa il Green Deal, per consentire una decarbonizzazione rapida ed efficace in termini di costi del sistema energetico e, più in generale, dell’economia”. I metanodotti sono bocciati senza appello: sulla “questione cruciale … se mantenere o meno l’infrastruttura del gas naturale come categoria di infrastruttura ammissibile … l’esclusione … appare l’approccio più efficace e coerente”.
… con il Green Deal in standby?
Il problema è che, nonostante il Green Deal e l’urgenza che ne connota gli obiettivi, il nuovo approccio sembrerebbe rinviato al prossimo esercizio biennale. Come abbiamo visto, la proposta della quinta lista contiene una quantità di infrastrutture metanifere. Difficile non condividere a questo riguardo quanto osserva, tra gli altri, il Climate Action Network Europe sull’incoerenza politica tra l’approvare allo stesso tempo progetti che rendono più difficile la transizione verso la neutralità energetica e un nuovo assetto legislativo che bandisce tali progetti. Inoltre, molti di questi progetti erano stati già respinti in precedenti esercizi biennali e sono finanziariamente sostenibili soltanto grazie a ingenti sussidi pubblici.
In una lettera del 30 giugno 2021 sottoscritta da 71 parlamentari europei appartenenti ai gruppi dei Verdi, della Sinistra, dei Socialisti e Democratici, di Renew Europe e dei Popolari (uno), si chiede alla Commissione di assicurare che il processo decisionale relativo alla quinta lista PCI sia condotto alla luce degli obiettivi climatici fissati dall’Unione. A questo proposito i parlamentari richiamano l’art. 5.4 della c.d. European Climate Law, adottato dal Parlamento Europeo il 24 giugno 2021 e ora in attesa di essere definitivamente approvato dal Consiglio presumibilmente entro il 2021. Questo obbliga la Commissione a compiere una verifica sulla compatibilità di ogni nuova misura con l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050. Nella lettera si osserva che nonostante le rassicurazioni della Commissione, la metodologia proposta per la valutazione dei progetti continui a non contemplare la sostenibilità come criterio obbligatorio. Pertanto, infrastrutture inquinanti possono essere incluse se ritenute necessarie per altre ragioni, tipicamente la “sicurezza degli approvvigionamenti”. Il medesimo problema si pone per i progetti inclusi nella quarta lista, neanche questi assoggettati obbligatoriamente a una valutazione della loro sostenibilità. Questi ultimi, tra cui LA, possono ora avanzare richiesta di finanziamento a valere sul fondo CEF che dispone di quasi 1 miliardo di euro.
La questione è stata anche oggetto di una decisione della Mediatrice Europea Emily O’Reilly del novembre 2020 in cui si deplora che che “progetti nel settore del gas siano stati inclusi in precedenti elenchi dei PIC senza che ne fosse stata adeguatamente valutata la sostenibilità”. La Mediatrice non ritiene comunque necessarie ulteriori indagini sulla base del fatto che la Commissione abbia
“riconosciuto che la valutazione della sostenibilità dei progetti nel settore del gas candidati era stata meno che ottimale a causa della mancanza di dati e dell’inadeguatezza dei metodi. Nel corso dell’indagine, la Commissione ha comunicato alla Mediatrice che stava aggiornando il criterio applicato per valutare la sostenibilità dei progetti candidati all’inclusione nel prossimo elenco dei PIC, che la Commissione stilerà nel 2021. Tra l’altro, detto aggiornamento dovrebbe tenere conto, ai fini della valutazione dei progetti, del bilancio del metano e dell’anidride carbonica nonché degli impatti in termini di efficienza. Si prevede che il relativo indicatore esprima l’impatto previsto dell’infrastruttura sull’intensità complessiva dei gas serra derivanti dalla produzione energetica in un dato Stato membro dell’UE, nonché le emissioni correlate al funzionamento dell’infrastruttura stessa”. La suddetta “metodologia” smentisce, però, questa risoluzione.
Non essendo il European Climate Act vigente, la Commissione non è tecnicamente obbligata a utilizzare lo strumento della valutazione di impatto climatico. La mia sensazione è, quindi, che non seguirà l’invito contenuto nella lettera dei parlamentari. Rimane la questione politica. In teoria il Parlamento – e anche il Consiglio, quindi i governi – avrebbero la possibilità di imporre alla Commissione una soluzione coerente con il Green Deal. Staremo a vedere, ma temo che si tratti di vicenda troppo complessa e ancora distante dall’opinione pubblica per mobilitare una maggioranza anti-gas. Utilizzando le categorie di Bruno Dente nello studio delle politiche pubbliche, è improbabile che una scelta avversa alle potenti lobby del gas possa assicurare agli attori politici del complesso contesto decisionale una risorsa di consenso tale da favorire una decisione non meramente incrementale.
Il gasdotto Sulmona-Foligno
Scendendo per li rami al nostro gasdotto, molto di quanto sopra osservato serve a comprendere quanto accade alla scala “micro” dei tratti di rete nazionali. Ciò non toglie che si resti sorpresi del fatto che il gasdotto appenninico e la centrale di Sulmona siano stati progettati più di dieci anni fa e abbiano ricevuto una valutazione ambientale favorevole nel 2011, cioè in un’altra era. L’inclusione nelle liste PIC dovrebbe assicurare la rapidità di realizzazione, trattandosi di progetti strategici e prioritari. In realtà, anche per questo aspetto il gioco tra la dimensione europea e quella nazionale non è lineare. Molti dei progetti, abbiamo visto, sono riproposti di biennio in biennio, probabilmente in attesa di un’occasione favorevole. Il che risponde assai poco all’idea di un sistema disegnato per assicurare efficienza del servizio, concorrenza e tutela degli utenti.
LA è inclusa nel TYNDP con un non-FID status. Cosa significa? Che è un progetto per il quale a oggi non è stata assunta una decisione di investimento finale e che non risulta neanche prossimo a questo stadio. Nonostante questo, la Centrale di compressione di Sulmona ha ottenuto pochi mesi fa l’autorizzazione definitiva. Il gasdotto, per quanto si sappia, potrebbe seguire a breve, visto che la pratica giace nei cassetti del Consiglio dei Ministri da ben più dei nove mesi previsti dalla legge per la decisione finale. A questo proposito rientra in gioco, tuttavia, il suddetto elemento tattico. Si tratterà pure di progetti essenziali per la sicurezza degli approvvigionamenti e (a leggere i piani recenti di ENTSOG) persino per favorire la transizione ecologica, ma, se le condizioni di mercato e i sussidi pubblici non garantiscono un investimento profittevole, possono attendere.
Gli stessi documenti SNAM più recenti, in particolare il piano decennale, offrono giustificazioni generiche sulla necessità dell’opera. LA sarebbe
“abilitante per più opportunità di nuove importazioni: l’Adriatica è infatti funzionale a importazioni dal Sud da differenti origini. A tal proposito, come descritto nel paragrafo “Procedura di capacità incrementale”, si segnala che è in corso una procedura, in coordinamento con i trasportatori a monte, per creare nuova capacità di trasporto nel punto di entrata di TAP”.
L’obiettivo originario del progetto era quello di “incrementare la capacità di importazione del gas metano dal Sud Italia”, in particolare per fronteggiare eventuali congestionamenti della rete esistente. Sempre nel piano decennale si legge che
“la situazione più critica sulla rete di trasporto nazionale si ha in relazione al trasporto dei flussi di gas provenienti dallo stoccaggio del Fiume Treste. L’infrastruttura attuale non è infatti in grado di trasportare i flussi provenienti dallo stoccaggio nel caso in cui vengano erogate le capacità di punta, limitando di fatto un’importante fonte di flessibilità del sistema italiano”.
Si tratta di affermazioni che sfidano i fatti. Come sopra visto, gli stessi dati reperibili nei piani della SNAM mostrano che la rete è già oggi sovradimensionata. Si ripete sul piano domestico la tendenza riscontrata sul piano sovranazionale a gonfiare i fabbisogni. Ma la riportata giustificazione è ancora più sorprendente se si considera che il gasdotto, lo abbiamo notato all’inizio, entrerebbe in esercizio nel 2028, quando ormai dovremmo essere prossimi al primo “tagliando” del Green Deal nel 2030, la riduzione del diossido di carbonio del 55% rispetto ai livelli del 1990.
La notata incoerenza a livello europeo tra il consentire nuove infrastrutture metanifere e avviare l’attuazione del Green Deal, si ritrova tal quale a livello nazionale.
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza
Nel PNRR, approvato dal Parlamento a fine aprile, troviamo, naturalmente, un ampio capitolo sulla transizione energetica. Il regolamento del NGEU (Next Generation EU), il fondo europeo da 750 miliardi approvato dall’UE in risposta alla crisi economica innescata dalla pandemia nel 2020, prevede che almeno il 37% del budget dei piani nazionali debba sostenere gli obiettivi climatici fissati dall’European Green Deal. Tra le sei missioni del PNRR alla “transizione ecologica” sono destinati quasi70 miliardi di eurodei circa 235 miliardi totali. La fetta più grande di questi soldi è finalizzata a favorire la transizione energetica verso fonti di energia rinnovabile e a rendere sostenibile la mobilità.
Consideriamo che tra il 1990 e il 2019 le emissioni di gas serra in Italia sono diminuite del 19%, passando da 519 Mt CO2eq (milioni di tonnellate di diossido di carbonio equivalente) a 418 Mt CO2eq. Negli ultimi anni l’Italia non è, però, riuscita a scendere al di sotto del livello raggiunto nel 2014. Per raggiungere l’obiettivo al 2030 di ridurre le emissioni del 55%rispetto al 1990 occorre arrivare a quasi 230 Mt CO2eq. Uno sforzo titanico considerando che negli ultimi 30 anni abbiamo registrato una riduzione di sole 100 Mt CO2eq circa. Per provarci è stata elaborata una strategia di decarbonizzazione, su cui si fonda il PNRR, contenuta neldocumento intitolato “Strategia nazionale di lungo termine sulla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra” redatto a gennaio 2021 a cura di Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (oggi MITE), dello Sviluppo Economico, delle Infrastrutture e dei Trasporti e delle Politiche agricole, Alimentari e Forestali.
La tabella qui sotto, tratta dalla “Strategia”, nel rappresentare lo status quo e il bilancio energetico al 2050, non ha bisogno di commenti quanto al contributo che il gas naturale (in rosso nelle colonne) potrà ancora fornire.
Considerata dalla prospettiva odierna, la decisione prima ricordata del Consiglio dei Ministri assunta nel 2017 per approvare la centrale di compressione di Sulmona assume un tono parossisticamente anacronistico. Il CdM individuava l’interesse pubblico preminente nella sicurezza degli approvvigionamenti di gas a livello italiano ed europeo. Lo sconcerto cresce se si considera che la SNAM aveva presentato, nel 2011, una richiesta di autorizzazione distinta per la costruzione della centrale per “assicurare la tempestività dell’aumento di capacità di trasporto”. La centrale, dunque, i cui lavori potrebbero iniziare nelle prossime settimane, si giustificherebbe (oggi) per la necessità di assicurare, tempestivamente (l’altro ieri), un aumento della capacità di trasporto – che (forse) nel 2011 poteva sembrare plausibile, ma i dati smentivano già tale scenario – di una quantità di gas che diminuisce.
Nel caso specifico della tratta appenninica centrale una fase di revisione riguarderebbe tecnicamente la sola centrale di compressione, visto che per il gasdotto non vi è un provvedimento finale. Al di là dei profili tecnici, però, vi è una dimensione di indirizzo politico riguardante le scelte di fondo di politica energetica, ecologica ed economica.
L’opportunità di una più comprensiva revisione si lega, peraltro, alla attendibilità di una VIA effettuata nel lontano 2011. A questo aspetto dedicherò l’ultima parte di questo racconto. La VIA – a differenza dell’intera filiera decisionale del gas, che dal centro europeo alle diramazioni nazionali suona una piatta melodia in cui il metano è il protagonista indiscusso – dovrebbe immettere nello spartito armonia e contrappunto. Fuor di metafora, il procedimento dovrebbe arricchirsi della fantomatica comparazione tra molteplici interessi pubblici, con quelli ambientali in prima fila.
Che la VIA sia importante è riconosciuto anche dall’ultimo atto della Commissione che approva la lista PCI nel 2019, in cui si trova un “considerando” assente nelle precedenti versioni: “l’inserimento dei progetti nell’elenco unionale non pregiudica l’esito dei pertinenti procedimenti di valutazione d’impatto ambientale e di rilascio delle autorizzazioni”.
La valutazione di impatto ambientale del gasdotto e della centrale e l’orso come specie bandiera
La centrale e il gasdotto sono previste in aree sensibili da molteplici punti di vista. In un recente convegno tenutosi all’Università di Pescara sono stati messi in luce gli aspetti paesaggistici, archeologici, geologici, di rischio sismico (assai elevato), botanici e faunistici del sito e del lungo tracciato attraverso la dorsale appenninica. Basti pensare ai milioni di alberi che bisognerebbe abbattere e alle strade di penetrazione per portare i mezzi di scavo, i camion, etc.
Secondo i giudici amministrativi e la letteratura specialistica la sostanza della VIA risiede in un “attento e puntuale bilanciamento dei delicati e rilevanti interessi in gioco al fine di privilegiare la soluzione maggiormente funzionale al perseguimento del pubblico interesse e maggiormente idonea a non ledere inutilmente, o in maniera sproporzionata, gli altri interessi, pubblici e privati”. Nell’effettuare tale bilanciamento si ritiene vi sia un vero e proprio obbligo per l’amministrazione di considerare l’alternativa di non realizzare l’intervento in quanto inutile o poco utile o comunque utile in maniera insufficiente a renderlo prevalente sugli interessi contrapposti. Compulsando il corposo fascicolo del procedimento, nel parere istruttorio (pag. 9) si rinviene il passaggio relativo alla cosiddetta opzione zero. Vi si legge a cosa servirebbe il gasdotto, cioè quanto si trova nel piani SNAM, ma di bilanciamenti non v’è traccia. Per fare bilanciamenti, del resto, bisognerebbe conoscere approfonditamente gli oggetti cui i “delicati e rilevanti interessi” si riferiscono. Fatto questo, occorrerebbe poi dare un peso a tali interessi. Questo comporta inevitabilmente una scelta politica o, se si preferisce, di “valori”. Nella relazione istruttoria ci si limita a descrizioni generiche di vincoli e loro confini. Prevale l’approccio ‘legalistico’ tipico della nostra burocrazia.
Uno dei valori primari che questo tratto di montagne esprime è la presenza dell’orso bruno marsicano. Una presenza sporadica, che però va intensificandosi negli ultimi anni.
Due giovani orsi nel PNALM (foto S. Civitarese)
Anni fa il MITE – lo stesso che oggi ha rilasciato l’autorizzazione per la centrale vicino Sulmona nell’area di “Case Pente” – ha promosso un Piano d’Azione Nazionale per la Tutela dell’Orso bruno Marsicano (PATOM) per apprestare politiche di tutela di questa specie oltre gli storici confini del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise (PNALM). Il PATOM mira a coordinare tutte le amministrazioni comunque coinvolte nella gestione dell’orso, compresi gli enti parco e le regioni. Un piano di azione è un insieme di misure per assicurare la tutela e il ripristino della biodiversità mediante la gestione integrata delle specie e dei loro habitat. Adottare un approccio cosiddetto specie-specifico rappresenta in molte circostanze la soluzione più idonea per perseguire obiettivi più ampi di tutela degli ambienti naturali. Concentrare gli sforzi di conservazione su alcune specie a rischio di estinzione innesca un effetto a cascata su altre specie e sull’ambiente in cui vivono e, quindi, sulla biodiversità. Questo è l’approccio raccomandato dal Consiglio d’Europa per conservare le specie a più elevato rischio di estinzione. Le campagne di conservazione di alcune specie dotate di particolare carisma – c.d. specie bandiera – possono, inoltre, esercitare un impatto tale sull’opinione pubblica da facilitare l’avvio di azioni di sensibilizzazione per la tutela di interi ecosistemi.
La popolazione relitta di orso marsicano è ridotta a poco più di 50 esemplari. Gli studi su cui il PATOM si fonda dicono due cose fondamentali. Una popolazione di quelle dimensioni può sopravvivere solo se cresce numericamente. La soglia di 50 individui è considerata quella critica al di sotto della quale si verifica la cosiddetta depressione da incrocio. La popolazione di orsi può, però, crescere solo a condizione che il suo areale si espanda. La loro densità nei territori del PNALM, che costituisce il nucleo storico di presenza dell’orso marsicano, è infatti già satura. In uno studio del 2016 Paolo Ciucci & Altri hanno dimostrato che esistono nell’Appennino Centrale – in un areale che ricalca in buona parte quello della Linea Adriatica – le condizioni ecologiche per ospitare da 157 a 208 orsi. A condizione, naturalmente, che si adottino alcune misure. La prima è di evitare l’impoverimento o la distruzione dei biotopi, per esempio delle faggete, e poi di garantire che vi siano sufficienti “corridoi” che gli orsi possano usare per spostarsi, in particolare alla ricerca di nuovi territori. Negli ultimi anni sono stati registrati segnali che possono far pensare a una tendenza all’espansione dell’areale. Giovani esemplari sono stati, per esempio, segnalati nell’area del Gran Sasso a nord dell’Abruzzo e persino dei Sibillini, nelle Marche. Uno dei corridoi ecologici che gli orsi usano nei loro movimenti verso il Massicio della Majella passa nell’area di Case Pente, quella della centrale SNAM.
L’area di “Case Pente”
Come ha sostenuto Paolo Ciucci nel convegno sopra ricordato, una valutazione di impatto scientificamente corretta dovrebbe fondarsi su cartografie paesaggistiche specificamente elaborate per consentire di misurare gli effetti degli interventi umani sull’ecosistema. Cartografie di cui oggi il MITE dispone, nell’ambito del PATOM. Non va, inoltre, dimenticato che le infrastrutture che incidono sul paesaggio dell’orso (preso qui come specie ombrello nel senso suddetto) hanno effetti cumulativi, se non esponenziali. Mentre si decide, mediante il suddetto approccio legalistico, che il gasdotto non ha impatti negativi sull’ambiente, altre decine di progetti di strade, impianti sciistici, etc. continuano a deturpare il territorio, ricevendo singolarmente i loro bravi “nulla osta” ambientali.
Se il fondamento tecnico-scientifico delle valutazioni è essenziale, esso non dovrebbe servire a nascondere le scelte politiche. Sono queste, in ultima analisi, che stabiliscono se preferiamo che il nostro “sviluppo” si basi sulla tutela di un animale “bandiera” come l’orso o sulla realizzazione di una ennesima infrastruttura doppiamente impattante: una volta perché favorisce l’impiego di energia clima-alterante in contrasto con l’obiettivo della decarbonizzazione; una seconda volta perché deturpa territori naturalisticamente pregiati, che al punto in cui siamo dovremmo custodire come oro.
Un’ultima notazione. Al di là dell‘opportunità di un riesame di tutta la vicenda, è davvero possibile che si avvii la realizzazione di un’opera così importante sulla base di una VIA vecchia di 10 anni? La risposta è no. La disciplina applicabile alla procedura di valutazione del gasdotto LA nel 2011 prevedeva che
“i progetti sottoposti alla fase di valutazione devono essere realizzati entro cinque anni dalla pubblicazione del provvedimento di valutazione dell’impatto ambientale. Tenuto conto delle caratteristiche del progetto il provvedimento può stabilire un periodo più lungo. Trascorso detto periodo, salvo proroga concessa, su istanza del proponente, dall’autorità che ha emanato il provvedimento, la procedura di valutazione dell’impatto ambientale deve essere reiterata”.
Ebbene sì. La centrale è stata autorizzata quest’anno in base a una VIA scaduta. Gli studiosi di diritto amministrativo parlano in questi casi di illegittimità derivata. Erano tutti distratti a bilanciare gli interessi e non si sono accorti di questo dettaglio. In sostanza, è tutto da rifare. L’orso ci conta e le next generations pure.
E’ disponibile la registrazione del seminario telematico Le riforme orizzontali previste dal PNRR, organizzato da Orizzonti del Diritto Pubblico e tenutosi il 16 giugno 2021 sulla piattaforma Zoom.
Hanno partecipato: Luisa Torchia (Università Roma Tre); Margherita Ramajoli (Università degli Studi di Milano); Antonella Bianconi (Dirigente Università di Perugia, già segretaria generale ANAC); Stefano Civitarese Matteucci (Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara); Alessandra Pioggia (Università di Perugia); Gianluca Gardini (Università di Ferrara); Leonardo Ferrara (Università di Firenze).
Il Webinar Le riforme orizzontali previste dal PNRR si terrà Mercoledì 16 giugno 2021 alle ore 16.30 e potrà essere seguito mediante le piattaforme Zoom e Facebook.
La difficile situazione finanziaria dei Comuni è oggetto da anni di previsioni legislative che hanno cercato di mettere a disposizione rimedi che sostanzialmente sono consistiti in prestiti: come tutti i prestiti, le anticipazioni di liquidità fornite da Cassa Depositi e Prestiti a partire dal dl. 35/2013 erano destinate ad essere restituite, ma la disciplina che le aveva introdotte aveva permesso un arco temporale di addirittura trent’anni per tale rientro.
Corte dei conti e Corte costituzionale hanno gradualmente ma costantemente sottoposto al proprio sindacato previsioni della legislazione nazionale – il decreto del 2013 e le sue successive modificazioni – che permettevano restituzioni di questo debito che erano incoerenti con la logica del mandato. Infatti se le amministrazioni del territorio possono contare su tempi di rientro di tre o anche solo due decenni, la responsabilità di chi spende viene meno, andandosi così a svuotare il contenuto sostanziale del principio democratico nonché l’altro principio che ormai riveste un ruolo centrale non solo nel quadro costituzionale ma anche nel comune sentire: l’equità tra generazioni, in virtù della quale il quadro normativo non deve permettere al personale politico – dello Stato e delle autonomie – di usare risorse che vanno restituite, ma non nell’arco di quel mandato bensì in mandati successivi, ad opera di amministratori che seguiranno.
La sentenza n. 80 del 2021 della Corte costituzionale ha inferto l’ultimo colpo a questa legislazione, che dal punto di osservazione dello Stato è vista come un aiuto alle autonomie, mentre nella prospettiva delle istituzioni di garanzia è stata ripetutamente sanzionata per la sua portata apparentemente di favore per i Comuni: per effetto di essa infatti queste amministrazioni sono state indotte a una gestione contabile piuttosto disinvolta, che invece di utilizzare le anticipazioni per pagare i creditori le hanno destinate ad artifici contabili che hanno finito per consentire nuova spesa. Andando a incidere sul risultato di amministrazione, quel saldo che ai sensi del D.lgs. n. 118/2011 – la disciplina di armonizzazione dei bilanci – rappresenta il rapporto tra debiti e crediti, queste anticipazioni sono state trattate come indebitamento legittimo, ovvero quello che la Costituzione contempla all’art. 119, co. 6: e diventando debito legittimo, esse vengono utilizzate dai Comuni per destinazioni contrarie a questa stessa disposizione, ovvero esborsi di natura corrente. Mentre la Costituzione consente alle autonomie territoriali di indebitarsi solo per spese di investimento, che generino crescita economica e valore sociale.
La decisione n. 80 pare però avere introdotto elementi di destabilizzazione «definitiva» a carico della situazione contabile dei Comuni: essi infatti, a partire da questa pronuncia, sono destinati ad andare incontro ad un dissesto certo, e il pericolo insito in questo scenario è tale che il Governo ha immediatamente «sposato» la causa di queste istituzioni e si è messo a studiare soluzioni che evitino l’epilogo più drammatico. Ma le stesse associazioni rappresentative di questi enti hanno preso posizione: a metà maggio Anci e Upi, a nome della Conferenza Stato-città e autonomie locali, hanno ritenuto di intervenire in merito a tale questione. Esse hanno invocato una soluzione normativa che metta in sicurezza i bilanci di tanti Comuni che rischiano – e questa è la criticità a breve – di incontrare in via definitiva il dissesto; ma che in più – e questa è la criticità a lungo termine – rischiano di essere totalmente non attrezzati rispetto alle politiche che dovranno intraprendere nel quadro degli interventi di trasformazione del settore pubblico per effetto dei finanziamenti europei veicolati dal Piano di ripresa e resilienza.
Nell’Appunto sintetico sugli interventi di sostegno agli enti locali in condizioni di debolezza finanziaria, anche a fronte della sentenza CCost n. 80/2021del 12 maggio scorsoAnci e Upiosservano che fino alla sentenza n. 80/2021 non si era «mai messo in discussione la liceità di un ripiano specifico delle anticipazioni, coerente con la restituzione su trent’anni delle somme erogate. Il punto critico riguardava l’esigenza di neutralizzare le somme in questione (necessariamente accertate in entrata, quindi nella parte attiva del bilancio), per evitare l’indebito ampliamento della capacità di spesa corrente dell’ente beneficiario». Invece la nuova sentenza del 2021 mette in mora anche il meccanismo di rimborso a scalare che la legislazione più recente aveva introdotto, soprattutto per conformarsi alle sentenze n. 4 e 115/2020 della Corte costituzionale, che da ultimo avevano sanzionato la legislazione contabile.
Nel documento si prospetta un’evoluzione che viene qualificata «devastante»: «alle prime analisi, dei circa 1.400 Comuni coinvolti nella costituzione del Fondo anticipazione liquiditàcirca 950 risultano in disavanzo nel 2019, come anche 8 Province. Richiedere un ripiano ordinario (diciamo in tre/cinque anni) comporterebbe una maggior esposizione annuale moltiplicata mediamente per 8 o per 4,5 volte, con risultati disastrosi per una parte degli enti già in disavanzonel 2019 e molto pesanti anche per i circa 450 enti in avanzo, almeno per quelli con avanzi esigui e quote di anticipazione più rilevanti. Tra gli enti in disavanzo, circa un terzo registra quote di maggior ripiano necessario, almeno in questa ipotesi-base, complessivamente per oltre 100 euro pro capite. Va anche tenuto a mente che solo poco più della metà dei Comuni in piano di riequilibrio sono coinvolti dagli effetti della sentenza. Su questi aspetti, numerosi interventi giurisprudenziali hanno via via messo in mora taluni comportamenti di Regioni ed enti locali considerati illegittimi, ma non il principio applicativo generale di ripiano/restituzione trentennale, peraltro in vigore fin dal 2015 per le Regioni senza che sia tuttora sorta alcuna contestazione».
Di conseguenza il documento si appella affinché venga adottato dallo Stato un «intervento di sistema, volto ad impedire che le convergenti debolezze precipitino in un tracollo della capacità amministrativa – corrente e d’investimento – nelle funzioni di molti enti locali, accentuando per questa via i divari territoriali che siamo impegnati invece a colmare, anche con le risorse nazionali ed europee connesse al PNRR». Ma ancora di più il soccorso dello Stato viene invocato in vista dell’efficace impiego delle risorse aggiuntive da PNRR, affinché sia «aumentata la capacità amministrativa nei campi finanziario, tecnico, sociale e della sicurezza e innestare un percorso di reale convergenza verso una stabilità della gestione, anche finanziaria».
Diverse sono evidentemente le criticità che si prospettano all’orizzonte. Da un lato una crescente difficoltà dei Comuni nel fronteggiare le loro funzioni ordinarie, e dunque nel dare risposta ai bisogni delle loro comunità con una spesa per servizi che diventa sempre meno sostenibile. Dall’altro l’incapacità nell’intraprendere un percorso di innovazione profonda, di ripensamento delle politiche e degli strumenti di soddisfacimento dei diritti, che il PNRR astrattamente renderà possibile da quest’anno e fino al 2026. La straordinaria distribuzione di risorse di cui la Repubblica italiana auspicabilmente beneficerà per effetto del programma Next Generation EU è destinata ad essere incanalata verso molteplici obiettivi nominalmente virtuosi, di cui una grande parte saranno trasformazioni delle modalità di agire della Pubblica amministrazione, centrale e del territorio. Dunque anche per Comuni e Regioni si apre la scommessa del cambiamento – e in larga misura un cambiamento che dovrebbe essere digitale – che è però fortemente condizionato dalla capacità amministrativa di istituzioni che invece, in questo passaggio, appaiono sempre più costrette a trovare soluzioni di ripiego per assenza di risorse finanziarie, che l’emergenza sanitaria ha in più dirottato verso esigenze straordinarie che non erano state messe in conto, e che la finanza locale ha dovuto immediatamente sostenere.
Il documento di Anci e Upi prospetta varie soluzioni, e varie forze politiche dell’attuale maggioranza parlamentare stanno già dimostrandosi sensibili alla questione: l’auspicio è che non si metta in campo un rimedio nuovamente incompatibile rispetto al quadro dei principi costituzionali. È evidente infatti che le responsabilità per una situazione di evidente difficoltà finanziaria di Comuni e Regioni non sono certo addebitabili alle Corti e alle loro sentenze, ma a tante amministrazioni del territorio poco avvedute nell’impiego delle risorse, nonché ad una legislazione dello Stato centrale che invece di fare leva sulla responsabilità politica degli amministratori locali punta piuttosto a renderli sempre più dipendenti da erogazioni dello Stato, che svuotano il principio di autonomia e penalizzano la corretta gestione amministrativa e finanziaria soprattutto di Comuni ed enti di varia natura. Mentre proprio di sana e corretta gestione contabile e amministrativa si sente la necessità nel momento in cui ci si prepara a ricevere finanziamenti che potenzialmente potrebbero trasformare nel profondo la realtà comunale, innescando un’innovazione di sistema rispetto alla quale però sia lo Stato che le autonomie devono dimostrare serietà e autentica responsabilità.