Ddl Zan: alcune note su un dibattito aperto

di Carla Maria Reale

ABSTRACT: Il Ddl Zan, mira a contrastare violenze e discriminazioni sulla base del sesso, genere, orientamento sessuale e disabilità, tramite una estensione della fattispecie incriminatrici (c.d. “crimini d’odio” di matrice razziale e religiosa) contenute all’interno dell’art. 604-bis c.p e dell’aggravante dell’art. 604-ter c.p. agli ambiti sopra citati.
Il disegno di legge è ad oggi nuovamente al centro del dibattito pubblico, preso atto della potenziale rottura della coalizione che aveva portato il testo all’approvazione in Camera dei Deputati e dell’avvenuta calendarizzazione in Senato, con l’avvio dell’esame del testo previsto per il 13 luglio. Il presente contributo ha l’obiettivo di collocare, in chiave critica, il disegno di legge all’interno di un quadro giuridico nazionale e sovranazionale più ampio, per discutere brevemente alcuni nodi principali oggetto di critica, fra cui l’inserimento dell’espressione identità di genere nel testo.

___

Il Ddl Zan si inscrive all’interno di una sensibilità giuridica europea che sanziona, tramite norme penali ad hoc, i crimini d’odio nei confronti delle persone lgbti*.
In particolare, ad oggi, sono 17 gli Stati che hanno legiferato in materia di crimini d’odio basati sull’orientamento sessuale, mentre sono 11 i Paesi UE ad aver adottato il medesimo approccio per i crimini motivati dall’identità di genere della vittima. Questo numero negli ultimi dieci anni è in costante crescita, passando dai 10 ai 15 Stati dal 2008 al 2015, per esempio, come emerge dal rapporto della FRA (European Union Agency for Fundamental Rights) “Protection against discrimination on grounds of sexual orientation, gender identity and sex characteristics in the EU – Comparative legal analysis (2015)”. Ciò, è peraltro in linea con l’approccio dell’UE, che stabilisce il principio per cui per contrastare i c.d. “crimini d’odio” servano delle norme penali ad hoc (Decisione Quadro 2008/913/Gai Del Consiglio 28 novembre 2008 sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e  xenofobia mediante il diritto penale) , approccio che è auspicabile estendere, come evidenziato da una Risoluzione del Parlamento Europeo del 2014,  anche ad altri fattori, fra cui l’orientamento sessuale e l’identità di genere. Analogamente, nella Raccomandazione del 2010 CM/Rec(2010)5  del Consiglio d’Europa per combattere le discriminazioni sull’orientamento sessuale e l’identità di genere si domandava ai Paesi membri del Consiglio d’Europa di adottare misure legislative per contrastare i crimini d’odio basati sull’orientamento sessuale e l’identità di genere della vittima. Allo stesso modo, la Commissione Europea contro l’intolleranza ed il razzismo del Consiglio d’Europa, a partire dalla General Policy Recommendation n. 7, come poi ribadito nel recente rapporto “Factsheet on LGBTI issues” del 2021, ha raccomandato agli Stati di includere gli ambiti dell’orientamento sessuale, identità di genere e caratteristiche sessuali all’interno della legislazione per contrastare il razzismo e l’intolleranza.
Affianco a questi atti di soft law, ad oggi la Direttiva europea sulle vittime di reato (direttiva 2012/29/UE), che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato per tutti i paesi UE, esplicitamente include e menziona l’identità di genere, l’orientamento sessuale, l’espressione di genere, il genere e la disabilità quali fattori da tenere in conto nell’apprestare piene tutele per chi ha subito un reato. 

Il disegno di legge si muoverebbe dunque in questo solco tracciato a livello internazionale ed europeo, prevedendo di estendere l’aggravante all’art. 604-ter c.p, e le fattispecie di discriminazione e istigazione alla discriminazione, violenza, istigazione alla violenza e provocazione alla violenza, promozione, direzione o partecipazione ad organizzazioni aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza, anche ai motivi connessi al genere, all’identità di genere, al sesso, all’ orientamento sessuale e alla disabilità. Non rientrerebbe in queste modifiche previste agli articoli 2 e 3 del Ddl la fattispecie di propaganda di idee, che rimane ancorata esclusivamente all’odio razziale o etnico, come previsto dalla Legge Reale. Questa mera constatazione basterebbe già a fugare ogni dubbio circa una reale sussistenza di un potenziale conflitto fra il diritto alla libera manifestazione del pensiero e una legge così formulata, considerando anche come le fattispecie sopramenzionate siano oggetto di vasta e pacifica interpretazione giurisprudenziale, che ha escluso il contrasto con l’art. 21 della Costituzione (per es: Cass. n. 31655/2001 sulla fattispecie di istigazione). Da qui deriva la posizione critica circa la clausola c.d. “salva-idee” contenuta all’interno dell’art. 4 del Ddl, che risponde maggiormente ad una funzione compromissoria all’interno del dialogo politico, che ad una tecnico-giuridica, ove si limita a ribadire quanto già ricavato dalla giurisprudenza nazionale e sovranazionale al riguardo.  

Il merito della proposta avanzata nel Ddl, così come approvata alla Camera, è quella di tracciare un chiaro continuum fra le discriminazioni basate sui diversi fattori elencati: razza, religione, sesso, genere, identità di genere, orientamento sessuale e disabilità. 
Sebbene infatti questi fattori possano apparire ed essere differenti, hanno in comune il fatto di essere fortemente identitari.  Il merito di questa proposta di legge che racchiude in una unica norma la tutela dell’identità delle persone da violenze e discriminazioni è quella di abbracciare una visione intersezionale di questi fenomeni, l’unica in grado di sradicare le violenze strutturali come quelle che la norma vorrebbe contrastare. 
L’approccio intersezionale, promosso dalla giurista e avvocata statunitense Crenshaw a cavallo fra gli anni ’80 e ‘90, infatti ricorda come le discriminazioni e violenze non agiscano in maniera isolata sui singoli fattori, ma che al contrario colpiscano il peculiare intreccio risultante dalle condizioni e caratteristiche delle singole persone che ne sono oggetto. La violenza e la discriminazione agiscono in maniera pervasiva su tutto ciò che diverge dalla norma e che sfida la norma, creando delle identità socialmente marginalizzate. Donne, persone con disabilità, persone lgb, persone trans* e persone razzializzate sono spesso vittime di violenze e discriminazioni proprio per questo essere percepite come “altro”. 

Il portato simbolico di una norma penale che unisce questi fattori potenziali di discriminazione e violenza è elevato perché capace di riconoscere la matrice comune dei fenomeni del sessismo, razzismo, omolesbobitransfobia e abilismo (introdotto grazie l’emendamento Noja) e le loro connessioni, evidenziando come questi siano fenomeni strutturali delle nostre società, presupposto essenziale per un contrasto efficace agli stessi.
Proprio per questo, ognuno degli ambiti sopra elencati è fondamentale per il raggiungimento dello scopo della norma, nel cammino verso il raggiungimento di una piena eguaglianza sostanziale tracciato dalla nostra Costituzione. 
Al contrario, molti dei dibattiti ad oggi in corso vertono sull’opportunità dell’inserimento della dicitura “identità di genere” all’interno degli ambiti protetti dell’art. 604-bis e dell’aggravante al 604-ter. Le critiche rispetto a tale proposta provengono da alcune forze politiche, da alcune voci della società civile come anche da alcune fazioni dei movimenti femministi. Per i fini di questo breve contributo non sarà possibile riassumere le posizioni critiche emerse fino ad ora nel dibattito, ma ci si limiterà a fornire alcuni argomenti in risposta i punti che più frequentemente vengono sollevati.

Si cominci con l’osservare che, la nozione di identità di genere non farebbe per la prima volta capolino nell’ordinamento italiano con l’approvazione del Ddl in oggetto, ma che al contrario si tratta di un concetto consolidato nella giurisprudenza italiana, con una matrice costituzionale espressa. Con il d.lgs. n. 18/2014 infatti, la dicitura “identità di genere” contenuta nella Direttiva 2011/95 UE sullo status di rifugiato, ha fatto ingresso nell’ordinamento italiano. La dicitura è presente anche nella già citata Direttiva 2021/29 UE sulle vittime di reato ed anche all’interno della Convenzione di Istanbul. Sebbene non vi sia traccia di tale terminologia nella l. 104/1982, la Corte costituzionale stessa ha mutato il proprio linguaggio, non solo avallando l’uso della dicitura “identità di genere” nel lessico costituzionale, nel lessico dei diritti, ma esplicitamente definendola come elemento costitutivo dell’identità della persona, tutelata all’art. 2 della Costituzione (sent. 221/2015). L’identità di genere costituzionalmente tutelata, dunque, fa riferimento alla percezione soggettiva, intima e insondabile della propria identità da parte del soggetto, nella valorizzazione di quella che è stata definita dalla Corte “l’irriducibile varietà delle singole situazioni”.

Il Ddl Zan si pone in una linea di continuità rispetto a quanto tracciato dalla Corte costituzionale, non interferendo con l’applicazione e interpretazione della l. 164/1982 (come invece paventato da alcune/i) – che pur necessiterebbe di essere riformata- ma ponendo in essere una piena tutela a tutte le persone transgender, non binarie e di genere non conforme che subiscono violenza a causa della propria espressione di genere e del proprio essere, a prescindere dal proprio genere legale. Oltre ad essere una scelta costituzionalmente orientata e sostenibile, quella di inserire la dicitura “identità di genere” è una necessità contingente considerando come siano proprio le persone trans* ad essere maggiormente esposte, fra tutta la comunità lgbt* a violenze, discriminazioni e odio, come emerge chiaramente da diverse ricerche (es. quella realizzata nel 2019 dalla Fundamental Rights Agency dell’UE, sul tema delle discriminazioni subite e percepite, che ha coinvolto più di 140.000 partecipanti in Europa, Macedonia del nord e Serbia). Si pensi per esempio che, in base ai dati raccolti dall’associazione europea Transgender Europe (Trans Murder Monitor Project, TGEU), fra l’anno 2008 e l’anno 2020, l’Italia risulta il Paese con il più alto numero di omicidi nei confronti di persone trans* in Europa.

Queste evidenze suggeriscono come, in Italia, il lavoro più grande da fare per contrastare l’abilismo, il sessimo, l’omolesbobitransfobia, il razzismo, in tutte le loro espressioni, sia chiaramente di matrice culturale, funzioni a cui lo strumento penalistico – che in tal senso si presterebbe ad alcune note critiche – non può e non deve pienamente assolvere. Sono dunque da salutare con grande favore quegli articoli del Ddl che hanno lo scopo di attuare prevenzione e sensibilizzazione istituzionale e culturale (artt. 7-10). Di fondamentale rilevanza, non meramente simbolica, è l’istituzione della giornata nazionale contro l’omofobia, la bifobia, la lesbofobia e la transfobia, che consentirà alle istituzioni di farsi carico di iniziative di sensibilizzazione culturale e allo stesso tempo porterà, garantendo il rispetto dell’autonomia scolastica, le tematiche all’interno degli istituti scolastici. Non è un caso che un approccio simile sia adottato dalla Convenzione di Istanbul, che prevede interventi educativi rispetto alla relazione di genere, che rappresentano la matrice fondante del contrasto al fenomeno del femminicidio e della violenza di genere, ben oltre le misure di stampo repressivo e punitivo.

Per concludere, il Ddl Zan, così come approvato alla Camera e nell’attuale contesto italiano, rappresenta uno strumento necessario- ma non certamente risolutivo – per il contrasto ai fenomeni dell’abilismo, del sessismo, dell’omo-lesbo-bi-transfobia. Questa conclusione non potrebbe essere mantenuta qualora venisse eliminato il riferimento all’identità di genere, o qualora si rinunciasse ad approvare, insieme alle norme penali, la parte riguardante sensibilizzazione e prevenzione.  Al contrario è auspicabile che, lasciato alle spalle il dibattito parlamentare di questi mesi, talvolta immemore della posta realmente in gioco – la garanzia dei diritti fondamentali di una fetta della popolazione – gli sforzi futuri si concentrino proprio sull’attuazione di un profondo cambiamento culturale e sociale, che deve passare anche dall’analisi e dalla presa in carico di tutte quelle discriminazioni e forme di violenza istituzionalizzate, proprio per questo meno visibili.

(Auto) dichiarazioni, fatti, stati e intenzioni in tempi di Covid-19. Il diavolo è proprio nei dettagli?

di Stefano Civitarese

Dovrei spiegare il titolo di questo post indubbiamente criptico. Ma il senso diverrà chiaro se arriverete in fondo.

Di autorichiarazione, fatti e intenzioni, nel contesto delle regole anti-Covid-19, discorre una recente sentenza del GIP di Milano (16.11.2020), che ha assolto un caldaista, chiamiamolo sig. Bogardi, imputato per falso ai sensi dell’art. 483 del codice penale. Il sig. Bogardi era stato fermato dai Carabinieri a bordo di un autocarro in data 31.3.2020, quindi nella vigenza del lockdown imposto dal decreto legge 19/2020, alle ore 13.10.

I Carabinieri chiedono a Bogardi di predisporre l’autodichiarazione per spiegare le ragioni del suo allontanamento da casa. Lui scrive che si occupa di assistenza caldaie e che sta andando da un collega, chiamiamolo sig. Ferbi, per ritirare dei pezzi di ricambio, e poi da un cliente.

Sennonché queste dichiarazioni si rivelano non del tutto vere. I Carabinieri, infatti, scoprono che da Ferbi Bogardi ci era andato alle 11.30 e si era intrattenuto con lui per un’oretta almeno. Inoltre, quando lo fermano, Bogardi sta pure guidando in direzione opposta alla casa di Ferbi.

Insomma, afferma il GIP, Bogardi ha dichiarato un’intenzione – andare a visitare Ferbi – che non trova “riscontro nei successivi accertamenti della Polizia giudiziaria”.

Bogardi non è stato esattamente sincero. Caso facile e condanna sino a due anni? Questa è la pena prevista per il reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico, consistente nell’attestare falsamente al pubblico ufficiale fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità.

Potrà sembrarvi sorprendente ma, invece, il giudice afferma senza mezzi termini che va “escluso che tale falsità integri gli estremi del delitto di cui all’imputazione.” La ragione? L’art. 483 c.p. incrimina il privato che attesti al pubblico ufficiale “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”.

Non ci siete ancora? Il nostro furbetto Bogardi, che certo avrebbe dovuto restarsene a casa quel mercoledì delle Ceneri all’ora di pranzo, aveva manifestato un’intenzione o un proposito: andare da Ferbi; mica aveva attestato dei fatti, con tutta l’insostenibile pesantezza che questi si portano dietro. Ce lo ricorda il dickensiano Mr Gradgrind: “Facts alone are wanted in life. Plant nothing else, and root out everything else. You can only form the minds of reasoning animals upon Fact…” (Hard Times).

Come sostiene pervicacemente Thomas Gradgrind, fancy and facts sono incommensurabili e così, riprendendo la prosa – per certi versi non meno dickensiana – del nostro Giudice, “mentre l’affermazione nel modulo di autocertificazione da parte del privato di una situazione passata (si pensi alla dichiarazione di essersi recato in ospedale ovvero al supermercato) potrà integrare gli estremi del delitto de qua, la semplice attestazione della propria intenzione di recarsi in un determinato luogo o di svolgere una certa attività non può essere ricompresa nell’ambito applicativo della norma incriminatrice, non rientrando nel novero dei “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”.

Questa vicenda mi richiama alla mente una vivace discussione, avvenuta pochi giorni dopo l’avventura del sig. Bogardi, poi immortalata in questo scritto [Il diavolo è nei dettagli], innescata dalla mia domanda su dove e come era stato previsto che dovessi autocertificare di “andare a fare la spesa”. A qualcuno stanno già fischiando le orecchie.

Di quello scritto (prima che corriate a leggerlo) riporto un passaggio che mi ricorda vagamente la storia del sig. Bogardi qui. Giuro però che il seguente era solo un esperimento mentale.

Non riesco a comprendere come io possa ‘certificare’, cioè attestare che sia vera, un’azione che devo ancora compiere. Vale a dire trattare come un fatto ‘notorio’ … quella che al momento è una mia intenzione. E questo nonostante io sia notoriamente una persona del tutto sincera e di incrollabile determinazione: se auto-dichiaro che sto andando a fare la spesa – anche se mi trovo al momento in un bosco di lecci a circa 5 chilometri dal più vicino centro abitato e per caso ho il mio binocolo e sto osservando un luì boreale (Phylloscopus borealis) incredibilmente capitato qui – dovete credermi. Eppure, per quanto mi sforzi, non riesco a trattare, dal punto di vista dell’atto linguistico che pongo in essere, la dichiarazione “sto andando dal fruttivendolo” rivolta all’autorità di pubblica sicurezza diversamente da una promessa o impegno”.

Il diavolo è nei dettagli appunto.

Attitudine al rispetto delle norme durante l’emergenza sanitaria in Italia

A cura di Stefano Civitarese, Lara Fontanella e Mara Maretti

Dipartimento di Scienze Giuridiche e Sociali
Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara

Abstract

A marzo 2020, i governi di tutto il mondo hanno definito una serie di restrizioni per tentare di contenere l’epidemia di COVID-19 tra i propri cittadini.

In Italia, diversi DPCM (in particolare ci si riferisce ai DPCM 22 febbraio, 8 e 11 marzo 2020) hanno definito un codice di comportamento per tutto il territorio nazionale a tutela della salute dei cittadini, determinando corpose restrizioni alla libertà individuale (libertà di movimento, libertà di culto, libertà di associazione). Tale situazione di “lockdown” ha innescato un vivace dibattito giuridico e politico sulle misure di contenimento dell’epidemia, definite come “le più severe limitazioni alla libertà mai imposte”. Al di là del dibattito di natura politica e giuridica, risulta di un certo interesse conoscere l’impatto di tali misure sulla popolazione.

Molte sono le iniziative di ricerca di taglio sociologico e psicologico nate in questi mesi di emergenza sanitaria, meno diffuse sono le indagini di taglio socio-giuridico.

La survey Attitudine al rispetto delle norme durante l’emergenza sanitaria, promossa dal Dipartimento di scienze Giuridiche e Sociali dell’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara dai professori Stefano Civitarese, Lara Fontanella e Mara Maretti trae spunto da un’iniziativa di ricerca dell’Università di York, e ha come obiettivo l’analisi di come i cittadini abbiano compreso e sperimentato il lockdown e quale sia il significato individuale e dunque collettivo del “conformarsi” alle regole di restrizione. Comprendere il ruolo del diritto nella società, e non solo in termini rigorosamente “legali” ma sociologici, risulta oggi estremamente importante, specialmente in vista di possibili nuove misure di contenimento in caso di nuove ondate o di una condizione endemica.

Primo rapporto Public Attitudes on Compliance with COVID