III APPUNTAMENTO CON LE INTERVISTE DI ODP SU GUERRA E DIRITTO
Orizzonti del Diritto Pubblico ha intervistato il Professore Claudio De Fiores, ordinario di Diritto Costituzionale presso l’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, sul ruolo del giurista e del diritto in tempo di emergenza bellica.
Per rivedere la prima intervista, realizzata con il Prof. Cesare Pinelli, clicca qui.
Per rivedere la seconda intervista, realizzata con il Prof. Mario Ricciardi, clicca qui.
Conducono l’intervista Carlo Alberto Ciaralli e Matteo Falcone, della Redazione di Orizzonti del Diritto Pubblico.
I APPUNTAMENTO CON LE INTERVISTE DI ODP SU GUERRA E DIRITTO
Orizzonti del Diritto Pubblico ha intervistato il Professore Cesare Pinelli, ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università di Roma “La Sapienza” e Direttore della Rivista “Diritto Pubblico”, sul ruolo del giurista e del diritto in tempo di emergenza bellica.
Conducono l’intervista Carlo Alberto Ciaralli e Matteo Falcone, della Redazione di Orizzonti del Diritto Pubblico.
Claudio Franchini è professore ordinario di diritto amministrativo nell’Università Tor Vergata di Roma. È autore di molteplici contributi scientifici, fra cui si segnalano quelli in tema di diritto pubblico dell’economia, diritto amministrativo europeo, organizzazione e funzionamento dell’amministrazione, giustizia amministrativa e diritto sportivo. Ha collaborato con vari Ministri, è stato componente del Comitato nazionale dei garanti della ricerca e ha rivestito numerosi incarichi istituzionali, fra i quali quelli di Preside della Facoltà di Scienze politiche “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze, di Direttore del Dipartimento di diritto pubblico, di Presidente della Conferenza dei direttori di dipartimento e di Prorettore vicario dell’Università di Roma Tor Vergata, nonché di Presidente del Consorzio per lo sviluppo delle metodologie e delle innovazioni nelle pubbliche amministrazioni.
Prof. Franchini, Lei si è occupato, nel volume di cui discutiamo, dell’intervento pubblico sulla povertà. Si tratta di un tema centrale e di estrema attualità, benché forse non sempre studiato in modo approfondito nella letteratura giuridica. Quali sono le ragioni che l’hanno spinta ad occuparsi di questo tema e qual è il rilievo del fenomeno della povertà?
L’idea mi è venuta assistendo alla presentazione del rapporto della Caritas sulla povertà a Roma. D’altra parte, è un tema che ci tocca da vicino, perché lo si tocca con mano camminando per strada. Si, basta camminare per strada. Ma bisogna farlo con un grande attenzione e sensibilità. E osservare bene le persone. Non solo i mendicanti (che tutti noi siamo capaci di vedere, se non altro perché talvolta ci importunano) e i senza tetto (che quasi tutti noi siamo capaci di vedere), ma le persone comuni: guardandole negli occhi, vedendo come vestono, come fanno la spesa, come si comportano e ascoltando quello che dicono.
Infine, ci sono una serie di dati che attestano la rilevanza e la complessità del fenomeno.
Secondo i dati messi a disposizione da Eurostat, nel 2020 il tasso di rischio di povertà si aggirava intorno al 21,9 per cento della popolazione dell’Unione europea[1]. Ciò significa che più di 95 milioni di persone era a rischio. È un dato significativo. Dagli anni a ridosso della crisi economica del 2008 fino al 2019 è stata misurata una progressiva decrescita del tasso (nel 2019 si aggirava intorno al 21,1 per cento). Ora, anche tenendo conto delle conseguenze della nuova crisi economica connessa alla diffusione del virus Sars-Cov-2, pare attestarsi una tendenza di segno opposto.
I dati messi a disposizione Istat, poi, ci offrono un quadro più dettagliato. Confrontando i dati del 2019 con quelli del 2020[2], ad esempio, si registra una maggiore incidenza delle famiglie in povertà assoluta nel Mezzogiorno (9,4% nel 2020 e 8,6% 2019), anche se il tasso di crescita più elevato si registra nel Nord dove la povertà familiare sale dal 5,8% al 7,6%. Dai medesimi dati si possono ricavare ulteriori indicazioni, come la maggiore incidenza della povertà su minori e stranieri o il ruolo del titolo di studio come fattore di abbattimento del rischio di povertà.
Nel suo libro Lei denuncia l’insufficienza dei provvedimenti con cui, specie negli ultimi anni, si è intervenuti sulla povertà. Essi si traducono spesso in mere erogazioni di denaro, senza essere inserite entro un disegno politico a carattere generale. Nel tempo, come si è evoluto l’approccio del legislatore italiano rispetto al contrasto del fenomeno della povertà?
Dei poveri il legislatore italiano si è occupato sin dall’unificazione del Regno, ma nella prospettiva della carità. Soltanto a partire dagli anni Venti dello scorso secolo, si è passati da un sistema fondato sulla beneficenza a uno fondato sull’assistenza. Con la realizzazione dell’ordinamento costituzionale, poi, viene introdotta una visione globale del problema della povertà, che viene affrontato con i provvedimenti di carattere sia generale, sia specifico. Rientrano tra i primi quelli che incidono, in modo sostanziale ancorché non sempre diretto, sulla condizione di povertà (cioè quelli in materia di sanità, di istruzione, di previdenza e di avviamento al lavoro, nonché di edilizia residenziale pubblica). Sono riconducibili ai secondi quelli che hanno ad oggetto il settore dell’assistenza sociale. Tuttavia, al di là del reddito minimo di inserimento, è solo dal 2015 che sono state introdotte misure particolari, quali il sostegno per l’inclusione attiva (Sia), che si affiancava alla carta acquisti, il reddito di inclusione (Rei), il reddito di cittadinanza (Rdc) e il reddito di emergenza.
Il reddito di cittadinanza è una misura che ha fatto e fa molto discutere. Nel suo libro Lei evidenzia come la misura abbia dato risultati limitati. Come potrebbero essere assicurati in modo più efficace gli obiettivi previsti?
Nel gli ultimi anni vi è stata una serie di interventi legislativi che si sono susseguiti in modo alluvionale e non lineare. Il risultato è che i provvedimenti adottati si sono rivelati poco efficaci per la riduzione della povertà e del tutto inadeguati per gestire una situazione che è divenuta emergenziale. Le ragioni sono diverse. Tra le principali se ne possono indicare sette. Primo: si è ragionato esclusivamente nella prospettiva del sostegno individuale, prevedendo forme di reddito minimo garantito senza inserirle in un disegno complessivo di assistenza fondata su misure non economiche. Secondo: nei recenti provvedimenti legislativi che hanno previsto forme di sostegno economico è cambiata la denominazione delle misure adottate, ma non la loro struttura: si è ripetuto lo stesso schema di attuazione, in quanto sono sempre stati previsti sussidi monetari, di certo in un’ottica di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, ma anche in una prospettiva lavoristica, che emerge principalmente dall’organizzazione e dalla strumentazione previste. Terzo: non vi è stata completa coincidenza tra i beneficiari delle misure adottate e le persone in condizione di povertà assoluta, perché non si è considerato che gli uni e le altre fanno parte di due universi solo parzialmente sovrapponibili. Quarto: è mancata del tutto la fase di controllo, con la conseguenza che l’efficacia e l’efficienza delle misure sono state fortemente limitate. Quinto: il modello fondato sulla suddivisione delle attribuzioni tra Stato ed enti locali non ha prodotto risultati soddisfacenti, perché vi sono molti decisori che si devono confrontare nella ricerca di un equilibrio tra l’esigenza di uniformità tutelata dallo Stato e quella di autonomia rivendicata dagli enti territoriali. Sesto: sul piano finanziario, ci si è avvalsi di molti fondi, spesso appositamente istituiti, creando sovrapposizioni e dispersioni. Settimo: si è registrato un difetto di coinvolgimento del terzo settore e dei privati (ancor più grave se si pensa che di recente è stato approvato il codice del terzo settore). In conclusione, occorre adottare politiche sociali che siano dirette a rimuovere le cause della povertà e non solo a sopperire a situazioni contingenti, con provvedimenti temporanei: politiche tali da consentire il passaggio dallo Stato assistenziale allo Stato innovatore, che utilizza la spesa come moltiplicatore di opportunità, grazie a una valutazione integrata dei bisogni e dei benefici, e che interviene così in tutti i settori necessari all’emancipazione delle persone, dall’assistenza sociale alla sanità, dall’istruzione alla previdenza, dall’avviamento al lavoro all’edilizia residenziale pubblica.
Nel volume Lei richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 131/2020, intervenuta sul rapporto tra enti del terzo settore e pubbliche amministrazioni, enfatizzandone la logica collaborativa. Attraverso strumenti collaborativi come la coprogettazione e la coprogrammazione dei servizi sociali, gli enti del terzo settore possono avere un ruolo significativo, in sinergia con le amministrazioni, nel contrasto alla povertà. Secondo Lei, che spazio può esserci per questo modello all’interno di un disegno politico generale di contrasto alla povertà?
Sino ad oggi, non si è considerato che gli enti del terzo settore e i privati sono centri di osservazione privilegiati, perché sono in grado di valutare e di intercettare le singole necessità del territorio. In una prospettiva di lotta alla povertà, solo attraverso una stretta conoscenza della realtà è possibile individuare i bisogni e facilitare il contatto con i centri comunali dei servizi sociali per l’attivazione delle risorse disponibili. Occorre, dunque, pensare a un nuovo modello di welfare, fondato su un insieme di protezione e di investimenti sociali a finanziamento non pubblico, che deve progressivamente affiancarsi al modello tradizionale di natura pubblica e obbligatoria. E in proposito non possiamo non riflettere su quanto scrisse Alexis de Tocqueville nel saggio sulla povertà presentato alla Società accademica di Cherbourg nel 1835. Il politologo e storico francese affermò che il problema della povertà non poteva essere risolto solo attraverso l’intervento dello Stato: occorreva, invece, ricorrere anche all’azione e all’aggregazione spontanea degli individui, perché questi ultimi possono perseguire l’interesse generale in modo più efficace e meno invadente di quanto non possano farlo le istituzioni pubbliche. Oggi le parole di Tocqueville, a lungo inascoltate, si rivelano profetiche.
Nel suo libro Lei presta attenzione anche alla prospettiva sovranazionale, tenendo contodella necessità di inserire la riflessione relativa all’intervento sulla povertà entro il quadro tracciato dal diritto eurounitario e dal diritto internazionale. Con riguardo al primo, come Lei stesso rileva, emerge uno sbilanciamento a favore delle esigenze di mercato e a scapito dei diritti sociali, anche tenendo conto degli orientamenti della Corte di giustizia. In questa prospettiva, che ruolo possono avere le istituzioni europee per muoversi in modo più marcato nel segno di un’autentica economia sociale di mercato?
Nei rispetti dell’Unione europea per lungo tempo si è contestata una scarsa attenzione, se non proprio un’indifferenza, nei rispetti dei diritti sociali. E, in effetti il quadro attuale risulta deludente, perché la dimensione sociale dell’integrazione europea stenta ad affermarsi. Da ultimo, il Pilastro europeo dei diritti sociali del 2017 ha delineato una serie di principi diretti a rafforzare la dimensione sociale dell’Unione europea e concepiti come diritti sociali degli individui nei confronti degli Stati: si tratta complessivamente di venti principi che riassumono l’aspetto sociale dell’acquis communautaire. Per quanto, purtroppo, l’affermazione di tali principi non determini effetti sostanziali, si può ritenere che essi possano servire almeno come indirizzo e guida nella ricerca di convergenze per quanto riguarda le condizioni di vita e di lavoro, così da attivare un processo virtuoso a dimostrazione dell’importanza sociale dell’Europa.
Il PNRR, nella missione 5, affronta il tema dell’inclusione sociale. Qui sono previste misure di diverso tenore che vanno da investimenti sull’housing sociale (M5C2.1), anche attraverso la rigenerazione urbana (M5C2.2), a interventi socio-educativi per combattere la povertà educativa (M5C3). L’approccio seguito nel PNRR, a suo avviso, riesce a intercettare le varie forme di povertà di cui Lei parla nel volume e può rivelarsi sufficientemente incisivo per fronteggiarle?
La povertà ha un carattere multiforme e pluridimensionale. Per questo, va misurata non solo in termini strettamente economici, ma soprattutto in termini sociali, sanitari, culturali e, in senso più ampio, relazionali e umani. Ogni intervento che incida positivamente su uno di questi aspetti non può che essere bene accetto. Deve essere chiaro, però, che l’azione di contrasto alla povertà non può che essere espressione di una politica pubblica mirata: è una scelta necessaria.
Come Lei evidenzia nel Suo volume, le politiche di contrasto alla povertà soffrono di un sovraccarico di disorganicità e di parcellizzazione. Ritiene di attribuire una qualche responsabilità all’attuale riparto delle competenze costituzionali?
Come ho detto, oggi vi sono molti soggetti che decidono in materia. Questa situazione ha comportato che, nella pratica, regioni e comuni hanno esercitato un ampio margine di discrezionalità negli interventi, con conseguente spiccata disomogeneità di regolazione e di gestione, specie per quel che riguarda il contenuto dei piani e il coinvolgimento del terzo settore.
Il vincolo di bilancio è stato da tempo elevato a valore costituzionale da osservare. Questo nuovo orizzonte giuridico pone nuove sfide ai c.d. diritti di prestazione, che implicano costi anche notevoli a carico dei bilanci pubblici. Qualcuno ha sostenuto che lo scontro tra diritti e compatibilità di bilancio è reale, sicché non può trovare forme armoniche di composizione: in questo scontro qualcuno vincerà e qualcun altro perderà, senza ipotizzare che il risultato finale, per il suo intrinseco equilibrio, soddisfi tutti. In questo scontro, quale ritiene debba essere la sorte da accordare al sistema di contrasto alla povertà?
La Corte costituzionale, pur avendo riconosciuto che i diritti sociali, così come tutti gli altri, sono condizionabili, ha precisato che essi vanno valutati in modo puntuale. Ma attenzione: la circostanza che i diritti sociali siano condizionabili non ha impedito alla Corte di specificare che essi sono comunque incomprimibili e intangibili. Di conseguenza, ne ha delineato il contenuto minimo, giungendo ad affermare che il legislatore deve prescindere dalla disponibilità delle risorse economiche. Dunque, il legislatore deve assoggettarsi a un “autovincolo”, in quanto l’incomprimibilità dei diritti sociali va intesa come limite generale a incidere sul loro nucleo centrale. Ne deriva che la Costituzione impone ai pubblici poteri un “compito promozionale” (uso le parole della Corte), il quale si concretizza in un obbligo, da un lato, di definizione degli interventi da parte del legislatore e, dall’altro, di esercizio della funzione per la pubblica amministrazione in modo da predisporre quella organizzazione e quei servizi idonei a consentire l’emersione dei diritti in un contesto di solidarietà e di uguaglianza.
Marco Bentivogli è un attivista e sindacalista italiano, coordinatore e co-fondatore di BASE ITALIA, già segretario generale della Federazione Italiana Metalmeccanici (FIM CISL) dal 13 novembre 2014 al 13 luglio 2020. In precedenza è stato responsabile nazionale dei Giovani dei metalmeccanici Cisl, tra il 1998 e il 2008 segretario provinciale, prima a Bologna e poi ad Ancona. Dal 2008 è entrato a far parte della Segreteria nazionale. Dal 2018 è componente della Commissione per una strategia Nazionale sull’intelligenza Artificiale presso il Ministero dello Sviluppo Economico e del Gruppo di lavoro sull’intelligenza artificiale presso la Pontificia Accademia per la Vita.
Marco Bentivogli, quali sono le principali motivazioni che l’hanno spinta a scrivere un saggio sullo smart working?
Ho fatto il sindacalista per venticinque anni e mi occupo da sempre dell’impatto della tecnologia sul mondo del lavoro. L’esigenza di scrivere un saggio sullo smart working è nata durante la pandemia (InDipendenti, Rubbettino 2020 e Il lavoro che ci Salverà, San Paolo 2021) durante la quale diversi nodi sono venuti al pettine (parliamo di smart e south working, dei benefici per l’ambiente, per la riqualificazione delle periferie ma anche dell’urgenza di migliorare le infrastrutture ad esempio) ed inevitabilmente alcuni processi sono stati oggetto di una grande accelerazione, un vero e proprio balzo in avanti. L’emergenza Coronavirus è uno spartiacque unico, un punto di non ritorno. Il mondo non sarà più lo stesso e di conseguenza anche il lavoro, crocevia da sempre del cambiamento e delle grandi trasformazioni demografica, climatica e digitale che l’umanità ha davanti. Il dato di fatto reale è che le aziende che già avevano intrapreso un percorso di lavoro agile hanno resistito meglio alla crisi generata dalla pandemia mentre le altre, compresa gran parte della pubblica amministrazione, si sono dovute rapportare alle nuove esigenze con grande difficoltà, potendo ricorrere al massimo a forme di telelavoro piuttosto che di lavoro agile, che invece è il lavoro per obiettivi. Se pensiamo alle aziende più interessanti che assumono giovani talenti, questi chiedono loro un buono stipendio, un buon sistema di welfare ma soprattutto il lavoro per obiettivi e spazi di smart working.
Guardando all’esperienza pratica dell’ultimo biennio, quali sono stati i principali punti di forza e quali, viceversa, di debolezza nell’utilizzo dello smart working?
Come dicevo tra i punti di debolezza deriva il fatto che in numerosi casi si è messo in atto il telelavoro, cioè lo stesso lavoro svolto in ufficio ma a casa quindi in contesti non idonei, in assenza spesso di una postazione o di una connessione adeguate, lavorando persino più ore al giorno o, viceversa, in altri casi si può parlare di “furbetti” e di vere e proprie smart holidays. I vantaggi dello smart working oltre a riguardare l’ambiente, i costi dei trasporti, il risparmio sulle spese degli edifici destinati agli uffici alla “Fantozzi scrivanocentrici”, sono legati all’opportunità di centralizzare le periferie ma riguardano anche lo sviluppo del dipendente che diventa autonomo nella gestione dei propri spazi e dei propri tempi, con maggiore propensione alla creatività della persona ed in favore di una maggiore conciliazione vita-lavoro. La storia fordista è ormai alle nostre spalle. Bisogna guardare al futuro. Pensiamo ad esempio all’azienda Fastweb, ma sono sempre di più le aziende che adottano questo nuovo alfabeto, dove l’unica scrivania “personale” rimasta è quella dell’Amministratore Delegato.
Nel suo saggio lei evidenza come lo smart working possa consentire anche un’evoluzione nel rapporto tra datore di lavoro e lavoratore dipendente, passando dalla c.d. “cultura del controllo”, in termini di presenza fisica e numero di ore-lavoro, a quella della verifica dei risultati conseguiti: quali sono i principali ostacoli al cambiamento culturale nell’approccio alle nuove modalità di lavoro?
Il cambiamento culturale è appunto più difficile da apportare in quanto la mentalità, devo dire piuttosto italiana, del dipendente “sotto controllo” è difficile da cambiare prima di tutto nei manager che spesso non sono formati al mutamento. Tuttavia, non bisogna lasciarli soli in questa fase di transizione in cui ci troviamo. La mentalità di chi governa l’impresa va cambiata anche perché le nuove tecnologie rendono sempre più complesso misurare la produttività in termini di ore di presenza e di pezzi prodotti dalla singola persona. Per gran parte delle funzioni aziendali questo tipo di calcolo si è fatto praticamente impossibile. I vecchi modelli, quindi, si dimostrano superati. Ma per diffondere nuovi concetti ritengo essenziale la creazione di ecosistemi 4.0, che favoriscano l’incrocio e la crescita dei vari fattori abilitanti, compresa una nuova cultura di gestione delle imprese e di formazione dei lavoratori. Quando parlo di ecosistemi 4.0 penso a realtà capaci di attirare investimenti, perché habitat positivi per l’innovazione, e di favorire l’integrazione delle nuove tecnologie nelle imprese italiane, come invece non è avvenuto con altre iniziative che avrebbero dovuto facilitare questo processo. Mi riferisco, per esempio, ai Competence Center del ministero dello Sviluppo Economico, il cui sviluppo è in forte ritardo rispetto ai tempi previsti, oppure ai Digital Innovation Hub, che sono realtà scarsamente integrate nei territori in cui sono state create. Strutture di questo tipo dovrebbero favorire la sedimentazione delle competenze nel territorio e non essere soltanto interfacce propedeutiche all’innovazione. Cambia l’impresa, la mentalità, le gerarchie, le culture organizzative. Perché la finalità principale della maggior parte delle organizzazioni economiche non è quella di creare valore condiviso attraverso l’azione coordinata e cooperativa di diversi soggetti, ma piuttosto indurre i lavoratori ad agire nell’interesse dei loro datori di lavoro. Questa è l’immagine predominante dei lavoratori, sia nell’ambito di molta ricerca economica, sia, soprattutto, in molte di quelle business school che formano le leve del management del futuro.
Naturalmente questo modello non solo è fattualmente falso, ma soprattutto improduttivo, in particolare, rispetto soprattutto a quei lavori nei quali creatività e iniziativa sono elementi essenziali, lavori che oggi caratterizzano gran parte dell’economia mondiale. Addirittura, le organizzazioni a finalità sociale, i partiti sono spesso intrisi dalla cultura del controllo per l’eterno timore della libertà. E così che non si riesce a capire che accanto alla responsabilità, la libertà e l’autonomia sono le uniche leve di generatività, di creazione di ricchezza umana, sociale ed economica. Lo smart working era una opportunità, ora è una necessità urgente. Dunque, urge “un salto di qualità dei processi di apprendimento: le organizzazioni e le imprese che creano ‘dipendenze’ sono nocive, ingabbiano le energie migliori degli esseri umani. Per questo avere lavoratori in-dipendenti, responsabili e felici deve diventare un obiettivo generale. Certamente non vanno sottovalutati i problemi etici, sociali e di salvaguardia dei diritti dei cittadini, che alcune innovazioni tecnologiche recano con sé. Ma sono problemi che vanno gestiti, mentre abbandonarsi al tecnodisfattismo serve solo a far perdere di vista le opportunità.
Il Ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta ha deciso di interrompere l’esperienza del lavoro agile semplificato del periodo pandemico nelle pubbliche amministrazioni, in attesa di una migliore attuazione della legislazione vigente. Secondo il Ministro è stata una modalità di lavoro a domicilio “senza contratto, senza obiettivi e senza tecnologia” che non ha garantito i servizi pubblici essenziali ai cittadini italiani. Cosa ne pensa?
Penso che tornare indietro è sbagliato e che significa gettare via l’esperienza raccolta in tutti questi mesi. Frasi del tipo “la crescita del Pil é dovuta alla fine dello smartworking” non hanno alcun senso. Certo non dovrà più accadere di vedere cartelli con scritto ‘chiuso per smart working’. Al contrario, bisogna semmai dire: ‘Grazie allo smart working potrai fare tutto online, avere i servizi più celermente, anche quelli per i quali ti rivolgi allo sportello’. Molti servizi della Pa sono in presenza dal decreto di aprile 2021 e i ritardi sono spesso gli stessi. Ecco, servirebbe un osservatorio indipendente sulla Pa e la capacità di individuare e distinguere le cause vere delle diverse problematiche. Durante la pandemia, lo smart working è stato esteso a circa la metà dei lavoratori pubblici e ha consentito alle amministrazioni di continuare a operare evitando la paralisi dei servizi, tutelando al tempo stesso la salute dei lavoratori. Si è trattato di un’esperienza preziosa che ha dimostrato come, anche nella Pa, sia possibile riorganizzare i processi all’insegna della flessibilità e della digitalizzazione, creando servizi più resilienti, sostenibili ed efficienti.
Ciò che serve è un’analisi dei servizi pubblici che identifichi le aree nelle quali la produttività e i livelli di servizio sono scesi per effetto dello smart working e possono essere aumentati con un ritorno al lavoro in presenza; le aree, viceversa, nelle quali produttività e livelli di servizio sono migliorati grazie allo smart working, e nelle quali quindi occorre premiare e consolidare i risultati; le aree, infine, dove un ricorso allo smart working si è dimostrato possibile e potenzialmente efficace, ma che richiedono preventivamente investimenti in termini tecnologici, formativi e di ridisegno di processi e servizi. Solo così sarà possibile esprimere giudizi non affrettati.
Quali sono a suo avviso gli elementi indispensabili per rendere lo smart working una risposta credibile alle sfide della sostenibilità e, per numerosi ambiti e settori, un nuovo modo di svolgere il lavoro dipendente?
Come scrivo anche nel saggio libertà, autonomia e responsabilità sono le grandi chiavi di volta del cambiamento. Si tratta di sfide fondamentali previste dal Pnrr alle quali lo smart working può dare un contributo sostanziale, ma che, sull’altare di un preteso stimolo ai consumi, questo nuovo indirizzo del governo sembra ignorare. Per questo è importante che la trasformazione coinvolga tutti senza lasciare indietro nessuno, per approdare insieme ad un cambiamento culturale prima che organizzativo. Il saggio vuole essere una guida pratica che offre un percorso per realizzarlo nelle organizzazioni e indicazioni utili per regolare meglio diritti e doveri dello smart worker. Il messaggio che vorrei passasse è che lo smart working è un lavoro “intelligente” perchè valorizza la reciprocità e trasferisce quote di responsabilità e libertà alle persone, favorendo il loro benessere e la produttività.
Savino Balzano è un sindacalista del settore bancario, che studia da tempo il mondo del lavoro, con particolare attenzione alle dinamiche collettive e sindacali. Nel 2019 ha esordito con il suo primo saggio Pretendi il lavoro! L’alienazione ai tempi degli algoritmi (GOG Edizioni) e quest’anno, per i Tascabili della Laterza, ha pubblicato Contro lo smart working, un saggio molto critico sul lavoro agile e sulla sua diffusione generalizzata nei rapporti di lavoro dipendente.
Il lavoro agile[1], comunemente conosciuto come smart working, è emerso nella discussione pubblica in quanto è stato uno degli strumenti imposti dal governo per garantire il distanziamento sociale e l’effettività dei c.d. lock down generalizzati durante la fase più acuta della pandemia da Covid-19. Dopo questa esperienza di utilizzo dello strumento – che in molti casi è ancora in corso, anche se con modalità differenti rispetto al periodo pandemico – nel dibattito pubblico moltissimi studiosi e commentatori hanno segnalato l’opportunità di valorizzare maggiormente questo strumento, fino a prevedere una sua introduzione “semplificata”[2]. Recentemente, inoltre, alcuni accordi sindacali stipulati dal governo con le parti sociali hanno lasciato intendere che la prospettiva verso cui ci si muove è quella di una sua maggiore diffusione nella contrattazione collettiva[3].
Savino Balzano, quali sono le principali motivazioni che ti hanno spinto a scrivere un saggio critico sul lavoro agile proprio nel momento in cui, almeno apparentemente, sembra avere mostrato la sua utilità?
Discutere di lavoro, dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, dell’evoluzione della materia e degli impatti che questa (l’evoluzione) ha avuto sulle dinamiche di potere nel paese non è evidentemente cosa da poco. La Costituzione riserva molto spazio al lavoro e che spazio! La parola “lavoro” è la nona parola in ordine consecutivo che rinveniamo nella lettura della nostra legge fondamentale, articoli e preposizioni comprese: qualcosa vorrà dire circa la rilevanza che i costituenti volevano riservassimo al tema.
Il lavoro agile ha la capacità di rivoluzionare completamente il mondo del lavoro, di rivoltarlo da cima a fondo. Se c’è infatti un elemento rispetto al quale siamo davvero tutti d’accordo (sostenitori, assoluta maggioranza, e critici, pochi carbonari) è proprio questo.
Dunque sono certo che, per quanto difficile, questo fosse un libro assolutamente necessario.
Difficile perché è innegabile che il lavoro agile produca delle esternalità positive di immediata percezione: l’esempio più ricorrente è quello di non dover affrontare il traffico giornaliero per recarsi a lavoro. Parlo di mere esternalità positive perché i vantaggi che le persone tendono a sottolineare spesso non hanno nulla o quasi a che vedere con il lavoro in quanto tale. Sono semplicemente “scorciatoie” utili ad evitare le inefficienze che come cittadini ogni giorno siamo chiamati a fronteggiare. Io ricorro spesso ad un paradosso: pensate a chi vive di fronte all’azienda, che per recarsi al lavoro non deve fare altro che attraversare una strada. Per questi il grande vantaggio relativo alla mobilità giornaliera è praticamente nullo.
Necessario perché basta ricercare nella sezione immagini Google “smart working” per avere una rappresentazione visiva, quasi plastica, di quanto si cerchi di far passare: lavoratrici e lavoratori a bordo piscina col tablet e gli occhiali da sole, gente sorridente che lavora dal cottage in montagna, persone felici di prestare la propria opera da boschi e da oasi immerse nella natura o persino in crociera. Provare però a passeggiare su qualsiasi spiaggia italiana e a contare i lavoratori incontrati lungo la via può diventare un esercizio piuttosto frustrante.
La stampa si è davvero sbizzarrita: ho persino letto su testate giornalistiche di primo piano (quantomeno in termini di tiratura) della possibilità di prestare la propria opera in regime di smart working dal duomo di Milano[4].
Lo smart working poi è quotidianamente rappresentato come soluzione ad ogni male: inquinamento, traffico, spopolamento dei borghi italiani, emigrazione giovanile dal sud del paese. Resto convinto che questioni di tale portata non possano che essere risolte mediante il ricorso a politiche pubbliche specifiche.
Sono giunto alla conclusione circa l’inderogabile necessità di non abbandonare un tema fondamentale come il lavoro ad un racconto grottesco e lontano dalla realtà e sono felice che un editore importante come Laterza abbia voluto accogliere questo pamphlet: è stata una scelta democratica e plurale.
Quali sono i diritti, attualmente garantiti ai lavoratori dipendenti grazie alla fisicità e alla materialità del luogo di lavoro, che, secondo la tua analisi, potrebbero vedere un possibile ridimensionamento?
Sono molti.
La legge del 22 maggio 2017 n. 81 prescrive che il tetto massimo di ore lavorate a distanza non dovrebbe (condizionale d’obbligo) mutare rispetto al lavoro in presenza. Tutti sanno però che le ore di lavoro aumentano[5] (non foss’altro perché quest’ultimo ti insegue in ogni spazio della tua vita, in ogni stanza della tua stessa abitazione) e che si ponga con ancor maggiore cogenza il tema che inesorabilmente ed insistentemente si pone da anni: quello della necessità di garantire la disconnessione. Senza peraltro riuscire a trovare una soluzione definitiva al problema. È difficile comprimere e semplificare questa mia idea, ma tengo a sottolineare come nel campo del lavoro la distanza tra diritto materiale e formale sia massima. Possiamo prescrivere tutto quello che ci pare, ma se il contesto è avverso alle persone quelle norme saranno difficilmente esigibili. Il modello di capitalismo ormai ampiamente affermatosi, di stampo neoliberale nordamericano[6], impone la precarietà delle persone sui luoghi di lavoro (anche e soprattutto virtuali!) e dunque la loro ricattabilità: nessuno pretende il rispetto delle regole se sa di poter perdere il lavoro da un momento all’altro, figuriamoci se rivendica un miglioramento delle condizioni generali. La conseguenza consiste nel lavorare di più e nel farlo gratuitamente: il lavoro agile alimenta questa dinamica perché pone l’individuo in una dimensione di assoluto isolamento: questo induce scoramento, rassegnazione, arrendevolezza. E pensate che c’è persino chi vede nel limite massimo di tempo lavorato un vincolo eccessivamente stringente[7].
Poi non c’è solo il tema del tempo massimo: nello smart working si supera completamente il concetto di orario di lavoro, ovvero quello della distribuzione preorganizzata dei tempi di lavoro e dei tempi di riposo durante la giornata (sempre nel limite ipotetico del tempo massimo di lavoro). Questo non è un elemento marginale: prevedere e organizzare preventivamente il nostro tempo è condizione essenziale al pieno godimento di esso, soprattutto di quello “libero” (appunto). Senza contare che, se lasciassimo al datore di lavoro la piena libertà di metterci in attività o a riposo a suo piacimento (sempre entro il tetto massimo delle ore lavorabili), questi ci costringerebbe a seguire maniacalmente le esigenze di produzione e i suoi picchi (della produzione), imponendo ritmi serrati oltre i limiti della sopportazione.
La fisicità del luogo di lavoro inoltre comporta tutta una serie di diritti connessi alla salute e alla sicurezza e sono il frutto di anni e anni di lotte sindacali. Lo smart working non prevede che il datore di lavoro sia responsabile delle condizioni fisiche di lavoro, dell’allestimento della postazione di lavoro per dirne una, (a differenza di quanto accade nel telelavoro[8]) ed è tenuto semplicemente ad informare circa i rischi professionali. Obbligo tra l’altro spesso disatteso. Le conseguenze sono notevoli: sia sul piano fisico che mentale e i lavoratori cominciano a lamentarle insistentemente.
Il lavoro agile è poi più povero del lavoro in presenza: sia perché la retribuzione è costante a fronte del citato aumento delle ore lavorate (decremento dunque della paga oraria); sia perché vanno in fumo le indennità (ad esempio quella del lavoro su turni, che comunque i lavoratori continuano a prestare anche in regime di lavoro agile), i buoni pasto (che avranno anche funzione indennitaria e assistenziale come recentemente la Cassazione ha sottolineato[9], ma è notorio vengano utilizzati dalle famiglie per fare la spesa e per l’acquisto di beni di primissima necessità), la retribuzione dello straordinario che quasi sempre non viene riconosciuto (essendo il lavoro agile ancorato al raggiungimento degli obiettivi più che al tempo lavorato).
Ci sarebbero diverse altre questioni: le spese che i lavoratori devono accollarsi per l’allestimento e la gestione della postazione di lavoro (che peraltro costituiscono un investimento sui mezzi di produzione e dunque l’assunzione di parte del rischio di impresa – senza partecipazione ai profitti – che incide sul paradigma del lavoro dipendente); il tema del controllo a distanza e quello della disciplina delle mansioni che in regime di lavoro agile assumono maggiore rilevanza. Tuttavia credo che questi spunti possano già fornire un quadro di massima.
Sia nelle imprese private che nelle amministrazioni pubbliche sono in corso modalità semplificate di lavoro agile. Che cosa si sta “semplificando” rispetto al modello dellalegge 22 maggio 2017 n. 81? Come valuti queste modalità di semplificazione?
A volte mi sento come il protagonista di Palombella Rossa, il film di Nanni Moretti dell’89. C’è quella scena nella quale perde letteralmente la testa e insiste sul ruolo del linguaggio, delle parole, e urla disperato «le parole sono importanti!».
Il mondo del lavoro ha subito un’aggressione negli ultimi trent’anni di inaudita ferocia ed essa è stata prima di tutto culturale, e poi giuridica. Si evocava (e si evoca) ossessivamente il bisogno di flessibilità (alcuni promettevano la flexicurity), di deregulation, di soft law, di governance. Si propone insistentemente una narrazione che prova ad inculcare l’idea per la quale i diritti delle persone siano intralci, ostacoli alla modernità (che si dipinge come progresso). I capi di governo si sono consegnati la staffetta nel reiterare la proposizione di questo messaggio (da Monti che definiva “noioso” il posto fisso[10], a Renzi che paragonava l’art. 18 al gettone telefonico nello smartphone[11]).
Mi scuso per quella che potrebbe apparire una divagazione, ma credo che la questione sia centrale: non si può pensare di operare una battaglia in difesa della causa del lavoro prescindendo dalla dimensione culturale del fenomeno: anni e anni di mainstream hanno di fatto contribuito a costituire una nuova “coscienza”, evidentemente avversa alla comunità del lavoro, che poi è la comunità nazionale celebrata in Costituzione.
A mio avviso questo è il momento di fermarci e di riflettere prima di tutto sul significato stesso delle parole perché le dinamiche che ci hanno riguardato in passato sono più attive che mai ancora oggi. Il 10 marzo 2021, Governo e parti sociali hanno sottoscritto un importante accordo (Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale), nel quale auspicavano «linee di intervento sul lavoro agile (smart working) [che evitino] una iper-regolamentazione legislativa»[12]. Sorge una domanda spontanea: se già l’attuale quadro normativo si presta ai limiti di cui stiamo parlando, quale semplificazione si evoca? Non è un caso che l’accordo insista molto sui temi della produttività e del welfare contrattuale: di sicuro non risponde ad una impostazione pro labour.
La domanda ad ogni modo resta centrale, dal momento che tutte le parole adoperate esprimono pressappoco lo stesso significato conclusivo: erosione dei diritti dei lavoratori. E nel modello capitalistico che ci governa significa erosione dei diritti dei più fragili, degli ultimi, delle periferie sociali.
La crisi sanitaria ha imposto iter semplificati di ricorso generalizzato al lavoro agile, ma non possiamo considerare quel contesto come la nuova normalità: la normalizzazione dell’emergenza è un obiettivo del grande capitale finanziario che ambisce alla massima libertà[13].
Il Ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta ha deciso di interrompere l’esperienza del lavoro agile semplificato del periodo pandemico nelle pubbliche amministrazioni, in attesa di una migliore attuazione della legislazione vigente. Secondo il Ministro è stata una modalità di lavoro a domicilio “senza contratto, senza obiettivi e senza tecnologia” che non ha garantito i servizi pubblici essenziali ai cittadini italiani[14]. Che cosa ne pensi?
Penso che in questo ambito le espressioni vadano adoperate pertinentemente. Il lavoro a domicilio è tecnicamente regolato dalla legge 877/1973 (“Nuove norme per la tutela del lavoro a domicilio”) e col lavoro agile non c’entra assolutamente nulla. Viene retribuito a cottimo, tanto per dirne una: non vorrei si fosse trattato di un lapsus freudiano. C’è già tanta confusione: non è il caso di alimentarne di altra.
Qualcuno ha anche pensato di ironizzare sostenendo che il ministro abbia fatto marcia indietro dopo aver letto il mio libro. Sarebbe stato gratificante, anche e soprattutto perché avrebbe dimostrato il grande potenziale della cultura, ma tendo ad escludere l’ipotesi. A cambiare è il punto di partenza e la finalità perseguita: io sono ostile allo smart working inteso come nuovo paradigma ordinario e generalizzato di prestazione lavorativa perché per me al centro c’è la persona, le sue esigenze individuali e collettive. L’ossessione del ministro è la produttività.
Per carità, la produttività è importante, ma è una questione di priorità.
Vorrei ricordare che Brunetta ha già guidato il suo attuale dicastero nell’ultimo governo Berlusconi ed era famoso per la personale lotta ai fannulloni a colpi di tornello[15]. La produttività è tuttavia da capitale, prima ancora che da lavoro. Se nel paese parte della pubblica amministrazione non funziona non credo sia per colpa delle lavoratrici e dei lavoratori: abbiamo assistito a anni e anni di tagli, molti dei quali imposti dall’UE, e la produttività da capitale è crollata. Si pensi banalmente a quanto accaduto di recente al sistema informatico di Regione Lazio. Penso sia davvero emblematico[16].
La marcia indietro è dovuta all’inadeguatezza delle infrastrutture, principalmente: se ne prenda atto e si agisca conseguentemente. Se poi qualcuno fa il furbo, ci sono tutti gli strumenti per poter agire con determinazione: ma resta un tema marginale rispetto all’immane necessità di investimenti.
Nel tuo saggio confronti spesso il modello di lavoro agile presente nella legge sul telelavoro (legge 16 giugno 1998, n. 191) con la legge sul lavoro agile del 2017. Questa comparazione fa emergere come tu non sia del tutto contrario all’utilizzo di forme di lavoro a distanza. È così? E se sì quali sono gli elementi irrinunciabili che qualsiasi tipo di modello di lavoro agile deve avere per essere uno strumento utile a migliorare la vita dei lavoratori e delle lavoratrici?
Non possiamo consentire la normalizzazione del quadro emergenziale. Il lavoro da remoto deve rappresentare una componente residuale della prestazione lavorativa e non può costituire la nuova modalità ordinaria e generalizzata di lavoro.
Chi eleva lo smart working a innovazione del secolo, non deve omettere di evidenziare due aspetti, che poi in realtà indichi tu stesso nella domanda: primo, che la possibilità di lavorare da remoto non nasce oggi (esistono esperienze aziendali risalenti, come pure la previsione di lavorare a distanza nella pubblica amministrazione già dalla fine degli anni ’90, senza tralasciare ovviamente l’accordo italiano sul telelavoro del 2004 che recepiva quello europeo del 2002); secondo, che lo smart working non nasce con la crisi sanitaria, dal momento che la legge che lo introduce è del 2017.
E allora c’è da domandarsi come mai tale ineluttabile opportunità non sia stata colta prima, perché si sia atteso il 2020: insomma, convince poco la risposta per la quale l’attuale crisi abbia in realtà costituito in via contingente l’occasione per rendersi conto che tale opportunità potesse essere colta. È tutto qui, oppure durante la crisi abbiamo visto e stiamo vedendo qualcosa di diverso rispetto al passato?
Questa è la partita: lo smart working diventa conveniente per la grande azienda e per le multinazionali solo nel momento in cui costituisce la nuova modalità ordinaria e generalizzata di prestazione lavorativa. Banalmente, sul piano dei meri risparmi, i vantaggi sono avvertiti solo se è possibile dismettere gli immobili: se il datore di lavoro è tenuto comunque ad ospitare la forza lavoro alcuni giorni a settimana, perde il grande vantaggio che lo smart working può apportargli. I veri vantaggi si consolidano solo se quest’ultimo diventa il nuovo paradigma del lavoro tout court.
E qui vengo alla tua domanda: prima di tutto il lavoro a distanza non deve avere la capacità di recidere le maglie del tessuto sociale del lavoro e dunque deve mantenere la sua dimensione residuale, di mediazione in ottica di migliore conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (perché per questo nasceva e non a caso, mi verrebbe maliziosamente da sottolineare, non è immediatamente esploso come fenomeno). In secondo luogo, pur restando residuale, necessita di interventi volti a tutelare le persone: in materia di salute e sicurezza, retribuzioni, eccetera.
E qui casca l’asino perché non è di questo che si parla ossessivamente: l’obiettivo è quello di normalizzare l’emergenza e dunque la difficoltà non è trovare un’intesa nel tavolo della trattativa. La difficoltà consiste proprio nella costituzione stessa del tavolo, dal momento che le ambizioni (espresse tutto sommato strettamente tra i denti) sono altre rispetto all’idea originaria: un nuovo paradigma del lavoro, perfettamente in linea col processo annoso di erosione dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori italiani (e non solo).
Savino, il tuo è evidentemente un saggio militante, nel senso che assume una prospettiva valoriale e ideologica molto precisa, ispirata dalle disposizioni costituzionali, che spiega la tua contrarietà al lavoro agile, soprattutto in quanto strumento che indebolisce la comunità del lavoro. Ci spieghi cosa significa per te comunità del lavoro e perché il lavoro agile rischia di indebolirla?
La Costituzione affida al lavoro il compito di animare la vocazione democratica del paese. Lo fa all’articolo 1, certamente, ma anche e soprattutto al comma secondo dell’articolo 3. I lavoratori hanno una missione sacra, letteralmente, che è quella di presidiare (attraverso la loro partecipazione) la nostra democrazia.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli alla partecipazione dei lavoratori e tale rimozione avviene attraverso la promozione di un preciso modello di lavoro: tutelato, garantito, prospettico. Un modello, insomma, che metta al riparo la persona dalla ritorsione rivoltagli da chi ha da perdere dalla partecipazione della comunità del lavoro.
Abbiamo assistito negli ultimi trent’anni al moto corrosivo di una pletora di interventi volti unicamente ad erodere i diritti dei lavoratori[17]: è esplosa la precarietà del rapporto di lavoro nella sua forma, come pure la precarietà nel rapporto di lavoro e nella sua declinazione quotidiana. Tutto questo ha indotto la ritrazione del lavoro e la rinuncia alla resistenza, al contrasto, alla lotta, alla rivendicazione. Abbiamo assistito ad una sterilizzazione del conflitto che non era indirizzata alla pacificazione ed alla solidarietà sociali. Piuttosto si voleva e si è ottenuta la più completa subalternità della comunità del lavoro.
Il diritto del lavoro svolge per me infatti una funzione prioritariamente didascalica: insegna ai lavoratori, mediante i diritti che gli riconosce, quali margini di partecipazione possono essere raggiunti, quali spazi siano a disposizione e possano essere occupati. Se ci pensate è davvero curioso (solo a prima vista) che la partecipazione di tanti lavoratori si sia contratta senza toccare i diritti strettamente sindacali (eccezion fatta per gli interventi in materia di sciopero nei servizi pubblici essenziali). È chiaro a chi ha operato determinate scelte come incidendo sui diritti individuali della persona sui luoghi di lavoro si inducano delle conseguenze specifiche, collettive e politiche[18], in seno alle dinamiche sindacali.
E la partecipazione dei lavoratori non è, come abbiamo sottolineato all’inizio, una prerogativa esercitabile solo entro i confini della fabbrica: costituisce un interesse pubblico, politico, costituzionale.
Lo smart working è il tassello conclusivo e, se inteso come nuovo paradigma ordinario e generalizzato di prestazione lavorativa, ha la capacità di infliggere il colpo di grazia alla comunità del lavoro.
La realtà delle cose è lontana anni luce da quanto ci viene raccontato dalle voci maggioritarie della politica, dell’informazione e della cultura: a fronte di un racconto mainstream che dipinge un lavoratore a bordo piscina, in Ray-Ban, con i piedi nell’acqua e il tablet in mano, si contrappone quella decisamente più realistica di un lavoratore solo, curvo nella piccola stanza semibuia di un monolocale di periferia, rassegnato alla subalternità, all’accettazione di una realtà su cui sa di non poter incidere, lontano da tutti e da ogni forma di consapevolezza circa il ruolo che la Costituzione aveva immaginato per lui.
[1] L’art. 18 della legge 22 maggio 2017 n. 81 definisce il lavoro agile come «modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa».
[2] Si v. D. De Masi, Smart working. La rivoluzione del lavoro intelligente, Venezia, Marsilio Editori, 2020.
[3] Nel Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale siglato il 10 marzo scorso dal governo e dalle parti sociali si legge che: «Nell’ambito dei contratti collettivi nazionali di lavoro del triennio 2019-21, saranno quindi disciplinati, in relazione al lavoro svolto a distanza (lavoro agile), aspetti di tutela dei diritti sindacali, delle relazioni sindacali e del rapporto di lavoro (quali il diritto alla disconnessione, le fasce di contattabilità, il diritto alla formazione specifica, il diritto alla protezione dei dati personali, il regime dei permessi e delle assenze ed ogni altro istituto del rapporto di lavoro e previsione contrattuale)».
[6] Si veda diffusamente A. Somma, Introduzione al diritto comparato, Giappichelli 2019, che evidenzia come – più che parlare di un avvicinamento tra i due modelli di capitalismo (renano e nordamericano) individuati da Michel Albert (Capitalismo contro capitalismo, il Mulino, 1993) – sia probabilmente più corretto parlare di una complessiva prevalenza del secondo.
[7] Basta leggere il recente piano Colao, elaborato dalla task force nominata dal secondo governo Conte per il rilancio post-pandemia del paese, che suggeriva di «massimizzare la flessibilità del lavoro individuale» e di «adottare sistemi trasparenti di misurazione degli obiettivi e della produttività al fine di valutare la performance sui risultati e non sul tempo impiegato (meno misurabile e non rilevante nel lavoro agile)». Emblematico, per fare un altro esempio, è il titolo dell’intervista rilasciata il 23 agosto da Francesco Rotondi a La Stampa: “Bisogna adattare i contratti di lavoro e slegare gli stipendi dalle ore lavorate“.
[8] Disciplinato dall’accordo-quadro europeo sul telelavoro stipulato il 16 luglio 2002 tra Unice/Ueapme, Ceep e Ces e recepito con l’accordo del 9 giugno 2004 siglato da Confindustria, Confartigianato, Confesercenti, Cna, Confapi, Confservizi, Abi, Agci, Ania, Apla, Casartigiani, Cia, Claai, Coldiretti, Confagricoltura, Confcooperative, Confcommercio, Confinterim, Legacoop, Unci, e i sindacati Cgil, Cisl e Uil
[13] Per un ulteriore approfondimento rimando a S. Balzano, Sulle insidie dello smart working e sul futuro del lavoro, in La Fionda, n. 2, 2021, p. 203-211.
[17] Per un approfondimento rinvio a Pretendi il lavoro! L’alienazione al tempo degli algoritmi, GOG 2019.
[18] Mutuando l’efficace immagine di G. Preterossi a proposito del cosmopolitismo neoliberale, credo si possa affermare anche del capitalismo neoliberale come «pretende di fare a meno delle identità collettive» oppure «di fare dell’individualismo competitivo l’unica identità collettiva possibile» (G. Preterossi, Residui, persistenze, illusioni: il fallimento politico del globalismo, in Scienza e politica, V. 29, n. 57, 2017, reperibile in https://scienzaepolitica.unibo.it/article/view/7579).