Diritti individuali e “separatismo religioso”: qualche considerazione su una legge francese e un caso giurisprudenziale greco

di Marco Rizzuti

Introduzione

L’approvazione della recentissima legge francese “contro il separatismo religioso”, accompagnata da veementi polemiche, ha riproposto in tutta la sua attualità la dialettica storica e giuridica che contrappone, da un lato, le aspirazioni dello Stato moderno a imporre, anche e soprattutto nell’ambito dei rapporti familiari e successori, il rispetto dei principi di laicità ed eguaglianza, e, dall’altro lato, la resistenza opposta da ordinamenti particolari di comunità minoritarie connotate in senso religioso, oggi soprattutto quelle islamiche. Fino a che punto, dunque, le identità religiose di tali gruppi possono essere tutelate o devono invece soccombere per consentire all’ordinamento statale di proteggere effettivamente i diritti dei loro membri considerati come singoli individui? Una possibile risposta, non priva a sua volta di problematicità, ci può arrivare da un recente intervento della Corte EDU, che, pur essendo riferito a una peculiare vicenda greca, affronta questioni di rilievo molto più generale. Come vedremo, infatti, secondo i giudici europei certe forme di pluralismo giuridico a tutela delle comunità minoritarie sono ammissibili, purché sia però sempre garantito il diritto del singolo individuo di scegliere di non appartenervi.

La legge francese “contro il separatismo religioso”

Nella scorsa estate la vita politica francese è stata segnata dal dibattito, con significative ricadute anche internazionali, relativo all’adozione della Loi n° 2021-1109 du 24 août 2021 confortant le respect des principes de la République, più nota come “legge contro il separatismo religioso”, dibattito che ha probabilmente superato in intensità pure quelli, certo non banali, che nelle stesse settimane riguardavano la prima introduzione del cd. passe sanitaire e la definitiva approvazione della nuova legge sulla bioetica. Il punto è che quello della (mancata) integrazione delle comunità religiose immigrate, ovvero essenzialmente di quelle islamiche, sembra aver assunto un rilievo fondamentale sia nel clima ormai quasi preelettorale in cui versa l’opinione pubblica d’oltralpe, sia ai fini della stessa tenuta geopolitica dello Stato francese e del suo moderno regime repubblicano. E proprio al rispetto dei principi fondamentali della Repubblica è infatti intitolata la nuova legge, formula che parrebbe avere quasi un sapore paracostituzionale in un contesto ordinamentale in cui la Costituzione vigente è molto più concentrata sul versante dello Stato-apparato. Non si tratta però di una dichiarazione di principi, ma di una serie di norme specifiche che mirano al ripristino della concreta osservanza dei valori repubblicani di eguaglianza e laicità in una serie di settori (servizi pubblici, istruzione, sport, rapporti con associazioni e fondazioni, esercizio dei culti), nonché alla repressione anche penale di fenomeni come l’hate speech, le mutilazioni genitali femminili, i matrimoni forzati, le “certificazioni” di verginità, etc. Tra le disposizioni specificamente dedicate all’eguaglianza tra uomo e donna rientrano poi varie norme che prendono di mira i rapporti familiari poligamici, sia impedendo l’immigrazione e soggiorno dei soggetti interessati sia denegando la rilevanza di tali rapporti ai fini previdenziali, ma ci sembra significativo osservare che questo capo della legge è aperto da un articolo che modifica il Code Civil in materia successoria.

Infatti, per i casi in cui a una successione transnazionale si applichi, in forza delle regole di diritto internazionale privato ormai uniformate a livello europeo, una legge straniera che non preveda la tutela dei figli come legittimari, si introduce un meccanismo che consente al figlio pregiudicato, o ai suoi aventi causa, di ottenere un prelievo compensativo sui beni relitti in Francia, mentre viene al contempo previsto un obbligo per il notaio di informare i legittimari lesi sul loro diritto di chiedere la riduzione delle liberalità poste in essere dal defunto. L’obbiettivo della novella, evidenziato dalla sua collocazione nella sistematica della legge, è evidentemente quello di intervenire in quelle situazioni in cui alla successione del de cuius immigrato si applica un diritto di matrice islamica che avvantaggi i figli maschi rispetto alle figlie femmine, e l’intento della riforma è per l’appunto quello di offrire a quest’ultime uno strumento che consenta un riequilibrio patrimoniale per mezzo del prelievo compensativo da realizzare sui beni relitti in Francia.

Un confronto con altri ordinamenti

Quello della conformità all’ordine pubblico internazional-privatistico degli effetti dell’applicazione di leggi successorie discriminatorie è un tema già ampiamente dibattuto anche in altri ordinamenti, come può dimostrare la vicenda evolutiva della giurisprudenza tedesca. In un primo e discusso caso, deciso dal Landgericht Hamburg il 12 febbraio 1991, si era ritenuta conforme con l’ordine pubblico l’applicazione della legge iraniana in parte qua lascia al figlio maschio una quota maggiore rispetto a quella della femmina, in quanto l’esito concreto appariva identico a quello che si sarebbe realizzato se il padre avesse lasciato per testamento l’intera disponibile allo stesso figlio maschio, come certamente sarebbe stato possibile sotto la legge tedesca. Sembrava dunque darsi per presupposta una piuttosto convinta adesione del de cuius ai valori dell’ordinamento di provenienza, assunto peraltro discutibile con riferimento a un’iniziale emigrazione spesso di matrice politica, conseguita ad esempio proprio all’avvento in Iran del nuovo regime islamico in luogo della deposta monarchia laicista. Successivamente però la giurisprudenza tedesca si è invece orientata nel senso di distinguere fra il potere del testatore di discriminare, evidentemente ammissibile anche alla stregua del diritto interno e invero di ogni diritto in cui si ammetta la successione testamentaria, istituto che ha senso in quanto consenta di prevedere una ripartizione in una qualche misura differenziata rispetto a quella che deriverebbe dall’applicazione delle quote ereditarie legali, e la diversa ipotesi di una norma straniera che sia essa stessa discriminatoria e come tale insanabilmente contrastante con l’ordine pubblico nazionale. E a questo punto è divenuta meno rilevante pure l’eventuale adesione del padre immigrato al sistema valoriale del Paese d’origine, paradossalmente oggi più probabile nel contesto delle migrazioni di massa di matrice economica e/o connessa a crisi umanitarie. D’altronde, l’inammissibilità della discriminazione successoria di determinate categorie di figli, come i naturali o gli adottivi, era già emersa con tutta la sua rilevanza in vari interventi della Corte EDU su cui non possiamo ora soffermarci.

La novità legislativa francese, con il suo retroterra problematico, non sono certo privi di interesse nemmeno dal punto di vista dell’ordinamento italiano, e non solo con riguardo a problemi specificamente connessi al diritto di famiglia dell’immigrazione quali appunto la questione delle famiglie poligamiche oppure il recente contrasto giurisprudenziale sugli effetti riconoscibili allo scioglimento del matrimonio per ripudio, ma anche con riferimento al nostro annoso dibattito sulla riforma della successione necessaria. Invero, si tende spesso a percepire la tutela dei legittimari come un gravame da ridimensionare, in quanto residuo di una concezione tradizionale della famiglia oppressiva dell’autonomia dei singoli e pregiudizievole per la libera circolazione dei beni. Sono quindi numerose le proposte di revisione legislativa intese a superare l’attuale assetto, ed è ampiamente accettato che le leggi straniere che non prevedano il livello italiano di tutela dei legittimari, ovvero quasi tutte quelle con cui può capitare di confrontarsi, non vadano considerate in quanto tali contrarie all’ordine pubblico. Alla luce della vicenda francese, che, come abbiamo visto, del contrasto all’applicazione di leggi successorie straniere carenti sul piano della tutela dei figli come riservatari ha fatto addirittura un baluardo dell’ordine repubblicano, forse un qualche ripensamento di siffatti assunti può rendersi opportuno. Anzitutto ne emerge rischiarata la stessa origine e ratio dell’istituto, che si imponeva, guarda caso proprio nella Francia rivoluzionaria e napoleonica, non già allo scopo di rafforzare il patriarcato tradizionale e i connessi legami di solidarietà, ma tutt’al contrario per abbatterli in nome dell’eguaglianza successoria di tutti i figli valorizzati come singoli individui, e non più funzionalizzati alle esigenze di continuità del patrimonio familiare dall’operare del maggiorasco e del fedecommesso oppure premiati o puniti a seconda del loro grado di obbedienza ai voleri del pater: è del resto ben noto l’aforisma per cui il partage égal sarebbe stato più efficiente della ghigliottina nel destrutturare le basi patrimoniali del potere delle grandi famiglie feudali. Ed è fondamentalmente alla stessa logica, se vogliamo giacobina, che si ispira la nuova legge repubblicana francese quando si propone di imporre così l’eguaglianza tra figli maschi e figlie femmine nelle successioni delle famiglie islamiche immigrate. Certamente, dunque, si possono nutrire le più ragionevoli perplessità sulla quantificazione delle quote di riserva nel sistema italiano, in particolare su quella abnorme del coniuge per non parlare dell’assurdità del separato che rimane legittimario, ma non riteniamo che ci si possa nascondere il rilievo anche costituzionale, e quindi d’ordine pubblico, della garanzia di un certo grado di eguaglianza successoria tra i figli, né la perdurante attualità di tale esigenza.

Ad ogni modo, il richiamo al nesso storico fra tali regole successorie e l’affermazione rivoluzionaria dello Stato moderno vale a porne ulteriormente in evidenza il rilievo nell’odierna dialettica francese, che vede scontrarsi la riaffermazione dell’ordine repubblicano laico e unitario con le istanze di pluralismo giuridico delle comunità religiose separate. La problematica travalica evidentemente i confini dei singoli sistemi giuridici e si pone oggi come uno dei grandi temi a livello globale. Può essere interessante considerare le recenti vicende di ordinamenti extraeuropei che avevano conservato una maggior dose di particolarismo premoderno a livello interno ma oggi avvertono l’esigenza di contrastarne alcune manifestazioni, sul piano anzitutto simbolico come nel caso della controversa legge israeliana sullo Stato-Nazione, che mira a costituzionalizzare l’identità ebraica, ovvero al livello concreto dell’operatività di certi istituti nel campo assai sensibile del diritto delle relazioni familiari, come nel caso della sentenza della Supreme Court of India del 22 agosto 2017, Shayara Bano vs. Union of India & Others, che ha dichiarato illegittimo lo statuto personale della minoranza musulmana in parte qua consente il ripudio per triplo talaq. In ambito europeo è invece, come si è visto, soprattutto il radicamento di comunità di origine migrante a dare risalto a queste tematiche, ma può essere interessante considerare come la Corte EDU, con la sentenza del 19 dicembre 2018, Molla Sali vs. Greece, abbia invece avuto occasione di intervenire per la prima volta ex professo in materia con riferimento a un frammento di particolarismo premoderno, estraneo alle vicende migratorie ma portato alla ribalta da un caso giudiziario greco che, ancora una volta, ci riconduce all’ambito del diritto successorio.

La posizione della Corte EDU

La peculiare vicenda riguardava un de cuius che aveva nominato sua erede universale la vedova, con un testamento in forma notarile conforme al Codice Civile greco, impugnato però dalle di lui sorelle in base alle regole islamiche che riservano loro i tre quarti dell’eredità. I giudici nazionali avevano finito per accogliere l’impugnativa in ragione dell’appartenenza degli interessati alla minoranza turca della Tracia Occidentale, cui risalenti Trattati internazionali avevano garantito la possibilità di continuare a vivere in Grecia soggetti, quanto alla materia familiare e successoria, non al diritto civile comune ma a quello musulmano, quasi come una sorta di fossile del pluralismo giuridico ottomano dei millet, per il resto spazzato via dalla pulizia etnica con lo “scambio dei popoli” e dall’affermazione dei moderni Stati nazionali con il loro monismo giuridico territoriale. La vedova adiva dunque la Corte di Strasburgo, facendo valere il carattere discriminatorio della lesione dei suoi diritti patrimoniali determinata dalla decisione dei giudici greci. Nel procedimento intervenivano anche alcune organizzazioni non governative, preoccupate non solo dalla peculiare vicenda greca ma soprattutto dai suoi riflessi ulteriori, specie con riguardo allo sviluppo dei tribunali arbitrali islamici nell’ambito di ormai radicate comunità immigrate nel Regno Unito (cioè in un contesto storicamente propenso, a suo tempo nella gestione delle colonie e oggi in territorio metropolitano, molto più verso il multiculturalismo comunitario che non verso l’assimilazione alla francese), e quindi essenzialmente interessate a ottenere una generale dichiarazione di incompatibilità dell’applicazione della sharia rispetto ai diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione EDU.

In questa prospettiva, dunque, il profilo più interessante della sentenza ha finito per essere rappresentato da ciò che la Corte non dice. I giudici europei, infatti, dopo aver atteso anni prima di pronunziarsi, non si sono espressi nel senso propugnato dagli intervenienti ma hanno condannato la Grecia per aver reso l’applicazione del diritto islamico necessaria a prescindere dalla sussistenza di una “voluntary basis”. Invero, nella prospettazione della vedova ricorrente il de cuius non era un musulmano osservante e redigendo un ordinario testamento secondo il diritto civile greco avrebbe implicitamente manifestato una volontà contraria all’applicazione della sharia nella vicenda ereditaria. La sentenza non pone dunque particolari problemi allo Stato greco condannato, in quanto poco prima della sua emissione l’ordinamento interno era stato riformato in maniera tale da rendere l’applicazione del diritto islamico per i musulmani traci solo opzionale, e attribuendo quindi alla connessa giurisdizione dei muftì un carattere sostanzialmente arbitrale. Da un punto di vista europeo però l’impatto è notevole, in quanto, come è stato evidenziato dai commentatori più critici, la sentenza sembrerebbe aver così indirettamente legittimato l’applicazione della sharia in Europa laddove quella “voluntary basis” ci sia, come può appunto accadere in ipotesi di rilevanza internazional-privatistica, a seguito poniamo di un atto di optio legis in favore di un ordinamento straniero, oppure anche in situazioni puramente interne, a seguito dell’elaborazione nel seno delle comunità immigrate di autonomi ordinamenti non statuali, come nel caso dei tribunali arbitrali islamici britannici. Beninteso, nel caso di specie la Corte non aveva ragione di porsi problemi ulteriori a quello affrontato, anche perché il contenzioso che aveva dinanzi non poneva evidentemente problemi di eguaglianza di genere, essendo tutte donne le litiganti, né chiamava in causa altri principi di fondo, in quanto il conflitto culturale era semmai tra una prevalente rilevanza successoria del parentado d’origine, tipica di società premoderne, e la valorizzazione occidentale della libertà testamentaria e della famiglia nucleare, profili che per l’appunto possono non apparire attinenti alla sfera dei valori irrinunziabili. Peraltro, in una successiva risoluzione dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa emergeva invece un ben diverso approccio, nel senso di un dichiarato contrasto fra la Convenzione EDU e le regole islamiche in materia familiare e successoria, ma il rilievo meramente politico di tale atto beninteso nulla toglie alla rilevanza giuridica della posizione della Corte, anzi per certi aspetti la mette ancor più in risalto. Secondo l’argomentazione dei giudici europei, dunque, uno Stato può legittimamente prevedere l’applicazione di un diritto particolare a una minoranza religiosa allo scopo di meglio proteggerla, ma dovrà allora riconoscere agli individui che ad essa appartengano il diritto di optare invece per l’applicazione del diritto comune, onde evitare che risultino violati i loro fondamentali diritti alla libera autoidentificazione e alla non-discriminazione. In altri termini, e per richiamare il dibattito francese da cui abbiamo preso le mosse, nella prospettiva che parrebbe essere stata fatta propria da Strasburgo un “separatismo religioso” potrebbe pure avere una valenza positiva, anche come strumento di mediazione culturale, ma il punto essenziale diventa il diritto del singolo individuo di scegliere di non appartenere alla “comunità separata” in questione, e l’effettiva garanzia di questo diritto da parte dello Stato, specie con riguardo ai soggetti più vulnerabili. E non è affatto detto che tale garanzia non possa passare proprio per un certo grado di riconoscimento di determinati istituti alieni all’ordinamento statuale, come nel caso della recentissima pronunzia, non a caso francese (Cass. Civ. 1re, 17 novembre 2021, n° 20-19.420), che apre al riconoscimento di una qualche efficacia del matrimonio poligamico celebrato all’estero, allo scopo di consentire alla seconda moglie di agire per il divorzio e le connesse tutele.

Ddl Zan: alcune note su un dibattito aperto

di Carla Maria Reale

ABSTRACT: Il Ddl Zan, mira a contrastare violenze e discriminazioni sulla base del sesso, genere, orientamento sessuale e disabilità, tramite una estensione della fattispecie incriminatrici (c.d. “crimini d’odio” di matrice razziale e religiosa) contenute all’interno dell’art. 604-bis c.p e dell’aggravante dell’art. 604-ter c.p. agli ambiti sopra citati.
Il disegno di legge è ad oggi nuovamente al centro del dibattito pubblico, preso atto della potenziale rottura della coalizione che aveva portato il testo all’approvazione in Camera dei Deputati e dell’avvenuta calendarizzazione in Senato, con l’avvio dell’esame del testo previsto per il 13 luglio. Il presente contributo ha l’obiettivo di collocare, in chiave critica, il disegno di legge all’interno di un quadro giuridico nazionale e sovranazionale più ampio, per discutere brevemente alcuni nodi principali oggetto di critica, fra cui l’inserimento dell’espressione identità di genere nel testo.

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Il Ddl Zan si inscrive all’interno di una sensibilità giuridica europea che sanziona, tramite norme penali ad hoc, i crimini d’odio nei confronti delle persone lgbti*.
In particolare, ad oggi, sono 17 gli Stati che hanno legiferato in materia di crimini d’odio basati sull’orientamento sessuale, mentre sono 11 i Paesi UE ad aver adottato il medesimo approccio per i crimini motivati dall’identità di genere della vittima. Questo numero negli ultimi dieci anni è in costante crescita, passando dai 10 ai 15 Stati dal 2008 al 2015, per esempio, come emerge dal rapporto della FRA (European Union Agency for Fundamental Rights) “Protection against discrimination on grounds of sexual orientation, gender identity and sex characteristics in the EU – Comparative legal analysis (2015)”. Ciò, è peraltro in linea con l’approccio dell’UE, che stabilisce il principio per cui per contrastare i c.d. “crimini d’odio” servano delle norme penali ad hoc (Decisione Quadro 2008/913/Gai Del Consiglio 28 novembre 2008 sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e  xenofobia mediante il diritto penale) , approccio che è auspicabile estendere, come evidenziato da una Risoluzione del Parlamento Europeo del 2014,  anche ad altri fattori, fra cui l’orientamento sessuale e l’identità di genere. Analogamente, nella Raccomandazione del 2010 CM/Rec(2010)5  del Consiglio d’Europa per combattere le discriminazioni sull’orientamento sessuale e l’identità di genere si domandava ai Paesi membri del Consiglio d’Europa di adottare misure legislative per contrastare i crimini d’odio basati sull’orientamento sessuale e l’identità di genere della vittima. Allo stesso modo, la Commissione Europea contro l’intolleranza ed il razzismo del Consiglio d’Europa, a partire dalla General Policy Recommendation n. 7, come poi ribadito nel recente rapporto “Factsheet on LGBTI issues” del 2021, ha raccomandato agli Stati di includere gli ambiti dell’orientamento sessuale, identità di genere e caratteristiche sessuali all’interno della legislazione per contrastare il razzismo e l’intolleranza.
Affianco a questi atti di soft law, ad oggi la Direttiva europea sulle vittime di reato (direttiva 2012/29/UE), che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato per tutti i paesi UE, esplicitamente include e menziona l’identità di genere, l’orientamento sessuale, l’espressione di genere, il genere e la disabilità quali fattori da tenere in conto nell’apprestare piene tutele per chi ha subito un reato. 

Il disegno di legge si muoverebbe dunque in questo solco tracciato a livello internazionale ed europeo, prevedendo di estendere l’aggravante all’art. 604-ter c.p, e le fattispecie di discriminazione e istigazione alla discriminazione, violenza, istigazione alla violenza e provocazione alla violenza, promozione, direzione o partecipazione ad organizzazioni aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza, anche ai motivi connessi al genere, all’identità di genere, al sesso, all’ orientamento sessuale e alla disabilità. Non rientrerebbe in queste modifiche previste agli articoli 2 e 3 del Ddl la fattispecie di propaganda di idee, che rimane ancorata esclusivamente all’odio razziale o etnico, come previsto dalla Legge Reale. Questa mera constatazione basterebbe già a fugare ogni dubbio circa una reale sussistenza di un potenziale conflitto fra il diritto alla libera manifestazione del pensiero e una legge così formulata, considerando anche come le fattispecie sopramenzionate siano oggetto di vasta e pacifica interpretazione giurisprudenziale, che ha escluso il contrasto con l’art. 21 della Costituzione (per es: Cass. n. 31655/2001 sulla fattispecie di istigazione). Da qui deriva la posizione critica circa la clausola c.d. “salva-idee” contenuta all’interno dell’art. 4 del Ddl, che risponde maggiormente ad una funzione compromissoria all’interno del dialogo politico, che ad una tecnico-giuridica, ove si limita a ribadire quanto già ricavato dalla giurisprudenza nazionale e sovranazionale al riguardo.  

Il merito della proposta avanzata nel Ddl, così come approvata alla Camera, è quella di tracciare un chiaro continuum fra le discriminazioni basate sui diversi fattori elencati: razza, religione, sesso, genere, identità di genere, orientamento sessuale e disabilità. 
Sebbene infatti questi fattori possano apparire ed essere differenti, hanno in comune il fatto di essere fortemente identitari.  Il merito di questa proposta di legge che racchiude in una unica norma la tutela dell’identità delle persone da violenze e discriminazioni è quella di abbracciare una visione intersezionale di questi fenomeni, l’unica in grado di sradicare le violenze strutturali come quelle che la norma vorrebbe contrastare. 
L’approccio intersezionale, promosso dalla giurista e avvocata statunitense Crenshaw a cavallo fra gli anni ’80 e ‘90, infatti ricorda come le discriminazioni e violenze non agiscano in maniera isolata sui singoli fattori, ma che al contrario colpiscano il peculiare intreccio risultante dalle condizioni e caratteristiche delle singole persone che ne sono oggetto. La violenza e la discriminazione agiscono in maniera pervasiva su tutto ciò che diverge dalla norma e che sfida la norma, creando delle identità socialmente marginalizzate. Donne, persone con disabilità, persone lgb, persone trans* e persone razzializzate sono spesso vittime di violenze e discriminazioni proprio per questo essere percepite come “altro”. 

Il portato simbolico di una norma penale che unisce questi fattori potenziali di discriminazione e violenza è elevato perché capace di riconoscere la matrice comune dei fenomeni del sessismo, razzismo, omolesbobitransfobia e abilismo (introdotto grazie l’emendamento Noja) e le loro connessioni, evidenziando come questi siano fenomeni strutturali delle nostre società, presupposto essenziale per un contrasto efficace agli stessi.
Proprio per questo, ognuno degli ambiti sopra elencati è fondamentale per il raggiungimento dello scopo della norma, nel cammino verso il raggiungimento di una piena eguaglianza sostanziale tracciato dalla nostra Costituzione. 
Al contrario, molti dei dibattiti ad oggi in corso vertono sull’opportunità dell’inserimento della dicitura “identità di genere” all’interno degli ambiti protetti dell’art. 604-bis e dell’aggravante al 604-ter. Le critiche rispetto a tale proposta provengono da alcune forze politiche, da alcune voci della società civile come anche da alcune fazioni dei movimenti femministi. Per i fini di questo breve contributo non sarà possibile riassumere le posizioni critiche emerse fino ad ora nel dibattito, ma ci si limiterà a fornire alcuni argomenti in risposta i punti che più frequentemente vengono sollevati.

Si cominci con l’osservare che, la nozione di identità di genere non farebbe per la prima volta capolino nell’ordinamento italiano con l’approvazione del Ddl in oggetto, ma che al contrario si tratta di un concetto consolidato nella giurisprudenza italiana, con una matrice costituzionale espressa. Con il d.lgs. n. 18/2014 infatti, la dicitura “identità di genere” contenuta nella Direttiva 2011/95 UE sullo status di rifugiato, ha fatto ingresso nell’ordinamento italiano. La dicitura è presente anche nella già citata Direttiva 2021/29 UE sulle vittime di reato ed anche all’interno della Convenzione di Istanbul. Sebbene non vi sia traccia di tale terminologia nella l. 104/1982, la Corte costituzionale stessa ha mutato il proprio linguaggio, non solo avallando l’uso della dicitura “identità di genere” nel lessico costituzionale, nel lessico dei diritti, ma esplicitamente definendola come elemento costitutivo dell’identità della persona, tutelata all’art. 2 della Costituzione (sent. 221/2015). L’identità di genere costituzionalmente tutelata, dunque, fa riferimento alla percezione soggettiva, intima e insondabile della propria identità da parte del soggetto, nella valorizzazione di quella che è stata definita dalla Corte “l’irriducibile varietà delle singole situazioni”.

Il Ddl Zan si pone in una linea di continuità rispetto a quanto tracciato dalla Corte costituzionale, non interferendo con l’applicazione e interpretazione della l. 164/1982 (come invece paventato da alcune/i) – che pur necessiterebbe di essere riformata- ma ponendo in essere una piena tutela a tutte le persone transgender, non binarie e di genere non conforme che subiscono violenza a causa della propria espressione di genere e del proprio essere, a prescindere dal proprio genere legale. Oltre ad essere una scelta costituzionalmente orientata e sostenibile, quella di inserire la dicitura “identità di genere” è una necessità contingente considerando come siano proprio le persone trans* ad essere maggiormente esposte, fra tutta la comunità lgbt* a violenze, discriminazioni e odio, come emerge chiaramente da diverse ricerche (es. quella realizzata nel 2019 dalla Fundamental Rights Agency dell’UE, sul tema delle discriminazioni subite e percepite, che ha coinvolto più di 140.000 partecipanti in Europa, Macedonia del nord e Serbia). Si pensi per esempio che, in base ai dati raccolti dall’associazione europea Transgender Europe (Trans Murder Monitor Project, TGEU), fra l’anno 2008 e l’anno 2020, l’Italia risulta il Paese con il più alto numero di omicidi nei confronti di persone trans* in Europa.

Queste evidenze suggeriscono come, in Italia, il lavoro più grande da fare per contrastare l’abilismo, il sessimo, l’omolesbobitransfobia, il razzismo, in tutte le loro espressioni, sia chiaramente di matrice culturale, funzioni a cui lo strumento penalistico – che in tal senso si presterebbe ad alcune note critiche – non può e non deve pienamente assolvere. Sono dunque da salutare con grande favore quegli articoli del Ddl che hanno lo scopo di attuare prevenzione e sensibilizzazione istituzionale e culturale (artt. 7-10). Di fondamentale rilevanza, non meramente simbolica, è l’istituzione della giornata nazionale contro l’omofobia, la bifobia, la lesbofobia e la transfobia, che consentirà alle istituzioni di farsi carico di iniziative di sensibilizzazione culturale e allo stesso tempo porterà, garantendo il rispetto dell’autonomia scolastica, le tematiche all’interno degli istituti scolastici. Non è un caso che un approccio simile sia adottato dalla Convenzione di Istanbul, che prevede interventi educativi rispetto alla relazione di genere, che rappresentano la matrice fondante del contrasto al fenomeno del femminicidio e della violenza di genere, ben oltre le misure di stampo repressivo e punitivo.

Per concludere, il Ddl Zan, così come approvato alla Camera e nell’attuale contesto italiano, rappresenta uno strumento necessario- ma non certamente risolutivo – per il contrasto ai fenomeni dell’abilismo, del sessismo, dell’omo-lesbo-bi-transfobia. Questa conclusione non potrebbe essere mantenuta qualora venisse eliminato il riferimento all’identità di genere, o qualora si rinunciasse ad approvare, insieme alle norme penali, la parte riguardante sensibilizzazione e prevenzione.  Al contrario è auspicabile che, lasciato alle spalle il dibattito parlamentare di questi mesi, talvolta immemore della posta realmente in gioco – la garanzia dei diritti fondamentali di una fetta della popolazione – gli sforzi futuri si concentrino proprio sull’attuazione di un profondo cambiamento culturale e sociale, che deve passare anche dall’analisi e dalla presa in carico di tutte quelle discriminazioni e forme di violenza istituzionalizzate, proprio per questo meno visibili.