La presentazione del Ventesimo Rapporto sulla Legislazione della Regione Emilia-Romagna avrà luogo venerdì 20 maggio 2022, alle ore 10, presso la Sala “Guido Fanti” dell’Assemblea Legislativa della Regione Emilia-Romagna, viale Aldo Moro 50, Bologna.
L’evento sarà fruibile in presenza, previa registrazione al seguente link: https://bit.ly/3LuchYm
Sarà possibile seguire i lavori anche da remoto, collegandosi al seguente link: https://bit.ly/3wrU7lL
Con l’approvazione dei decreti legislativi nn. 36-40 del 2021, il Governo ha attuato, ancorché solo parzialmente, la delega contenuta nella legge 8 agosto 2019, n. 86, avente a oggetto la riforma dello sport. Si è trattato di un percorso accidentato, fortemente condizionato per un verso dall’instabilità politica e per l’altro dall’emergenza sanitaria, che ne hanno dilatato i tempi e, in fine, ridimensionato la portata innovatrice. Questo breve commento ripercorre le principali tappe evolutive della riforma, inserendosi nel dibattito che era stato avviato su questo blog da Leonardo Ferrara (Leonardo Ferrara, Sport Juridification as the Hallmark of a Recent Italian Reform).
Tutto può rimproverarsi alla diciottesima Legislatura, tranne di essere stata noiosa. Sebbene infatti l’esito delle elezioni e la solidità della convergenza politica venutasi a creare tra il Movimento Cinque Stelle e la Lega lasciasse immaginare un’andatura a velocità di crociera, lo scioglimento di ben due esecutivi in trenta mesi ha fatto registrare il record di instabilità politica del nuovo millennio.
Ebbene, tra le vicende che hanno animato tale instabilità, un posto di primo piano lo ha avuto senz’altro la (mancata) riforma dello sport.
Avviata nell’autunno 2018 grazie a una solida intesa tra le forze di maggioranza, questa riforma ha difatti determinato una brusca interruzione dei risalenti rapporti di cordialità (e talvolta quasi di reciproca deferenza) tra i vertici delle istituzioni statali e quelli del movimento olimpico nazionale. Né è da attendersi che il conflitto possa rientrare rapidamente.
Il fatto è che si è trattato di una riforma sbagliata. Ma l’errore, è questo quel maggiormente preme sottolineare, è stato di metodo più che di merito, ché anzi, tutto sommato, il programma del Governo appariva in larga parte lodevole.
Ingenuamente, infatti, si è creduto di poter avviare il più grande riassetto del governo dello sport della storia repubblicana partendo dalla riallocazione delle risorse invece che dalla ridistribuzione delle funzioni. Così, prima ancora di decidere quale sarebbe stata la sorte del Coni, che fino a quel momento aveva nei fatti esercitato le funzioni di un ministero dello sport collocato al di fuori del circuito democratico, si è trasferito circa il novanta per cento del finanziamento pubblico destinato alle politiche sportive a Sport e salute s.p.a., società pubblica a tal fine appositamente istituita e partecipata per intero dal Ministero dell’economia e delle finanze.
Tale scelta si deve probabilmente alla fiducia, finanche eccessiva, che l’Esecutivo aveva riposto nella stabilità degli equilibri politici contingenti e nella possibilità di distendere la propria azione lungo l’intero corso della Legislatura.
Pertanto, sebbene ragioni di logica e di prudenza avrebbero suggerito di invertire l’ordine degli interventi, pensando cioè prima al riassetto istituzionale e poi, solo in seconda battuta, alla ripartizione delle risorse, il Governo preferì utilizzare la prima legge di bilancio a disposizione per mettere al sicuro la parte finanziaria della riforma, rinviando le misure ordinamentali alla legge 8 agosto 2019, n. 86, e ai relativi decreti delegati da approvare a stretto giro.
Sennonché, proprio mentre il Parlamento licenziava la legge delega, inaspettatamente si aprì una violenta crisi politica, dalla quale scaturì nel torno di qualche settimana la migrazione all’opposizione della Lega (la quale, circostanza non irrilevante, era per l’appunto il partito di afferenza dell’on. Giancarlo Giorgetti, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri al quale era stata assegnata pro tempore la delega in materia di sport).
Si era materializzato insomma il peggiore scenario possibile: il Coni era stato spogliato delle risorse ma continuava ad avere, almeno sulla carta, le stesse funzioni del passato; Sport e salute s.p.a. aveva le risorse ma non era chiaro di che cosa si sarebbe dovuta occupare; chi aveva progettato la riforma era transitato nelle fila dell’opposizione; il nuovo Esecutivo era sostenuto da una maggioranza diversa dalla precedente e la delega in materia di sport, affidata all’on. Vincenzo Spadafora, aveva addirittura cambiato colore politico.
Come se non bastasse, in tale contesto di fragilità si è innescata poi l’emergenza sanitaria, che per un verso ha stravolto, anche nell’ambito delle politiche sportive, l’ordine delle priorità e per altro verso ha determinato un’ulteriore dilatazione dei tempi, con il risultato pratico che gli iniziali dodici mesi stimati per l’attuazione della delega sono divenuti diciotto.
Ma il tempo, è noto, è nemico della politica. Così, proprio quando sembrava che la riforma, avendo superato imponderabili difficoltà, potesse finalmente giungere a conclusione, l’arrivo di una seconda crisi di governo ha stravolto nuovamente lo scenario, costringendo alle dimissioni il Ministro per lo sport in carica e mettendo a rischio l’attuazione della legge n. 86 del 2019.
A un metro dal traguardo, il quadro non era dunque dei più promettenti.
Nella nuova maggioranza multicolore, infatti, l’unico partito che aveva sempre sostenuto la riforma era il Movimento Cinque Stelle. Tutti gli altri, per un verso o per l’altro, l’avevano ostacolata: il Partito Democratico, Italia Viva e Leu avevano sostenuto i decreti delegati, ma si erano opposti all’approvazione della legge delega; la Lega, aveva sostenuto la legge delega, ma non i decreti attuativi; Forza Italia era sempre stata contraria, sia all’una che agli altri.
È già un successo quindi che la riforma non sia stata cestinata. Non si può tuttavia fare a meno di rilevare che l’alternativa escogitata sia stata una vera e propria soluzione al ribasso: non soltanto dei sei decreti attesi ne sono stati approvati solamente cinque, con esclusione proprio di quello più atteso, che avrebbe dovuto provvedere al riassetto istituzionale, ma vieppiù la loro entrata in vigore è stata posticipata, sia pur con qualche eccezione, al 2023, quando però si sarà molto vicini al termine naturale della Legislatura.
Una circostanza, quest’ultima, non priva peraltro di un suo autonomo rilievo: considerata la quantità di atti ministeriali che dovranno essere adottati per dare esecuzione ai decreti attuativi, la riforma dello sport potrà vantare il non invidiabile primato delle quattro paternità, corrispondenti ciascuna ai governi che l’avranno realizzata. A farne le spese, è da temere, sarà la coerenza dell’indirizzo politico e, di conseguenza, la bontà del risultato finale.
ABSTRACT: Il Congresso degli Stati Uniti passa dagli annunci ai fatti e presenta sei disegni di legge antitrust destinati a stravolgere il modello di business dei giganti del digitale ed a ridisegnare i tratti distintivi dell’economia di piattaforma. L’intenzione dei Legislatori d’oltreoceano, patria della prima legge antitrust della storia (Sherman Antitrust Act 1890), è chiara: se non possiamo regolarne il crescente e consolidato potere di mercato, non ci resta che procedere allo loro scorporo.
È passato poco meno di un anno, da quando ad ottobre 2020, la sottocommissione antitrust del Congresso degli Stati Uniti pubblicava il Rapporto “Investigation of Competition inDigital Markets”, frutto dell’indagine bipartisan durata sedici mesi in cui sono stati esaminati oltre un milione di documenti ed ascoltati gli amministratori delegati di Google, Amazon, Facebook, Apple. I firmatari del Report accusavano le più grandi società del digitale di aver sfruttato la propria posizione di dominanza per creare monopoli digitali in grado di soffocare la concorrenza, a discapito delle imprese concorrenti, dei nuovi entranti e dei consumatori.
Come è stato possibile creare una tale concentrazione di potere?
Queste grandi società, nate come piccole startups, hanno saputo sfruttare, con intelligenza ed astuzia, le possibilità offerte dalla rivoluzione digitale – immensa quantità di dati e crescita esponenziale della capacità di calcolo dei computer – per costruire infrastrutture digitali (le c.d. piattaforme informatiche) in grado di operare come intermediari fra agenti economici al fine di facilitare lo scambio di beni e servizi mediante la rete informatica.
Il vero punto di svolta è stato aver compreso che il potere delle infrastrutture digitali viene alimentato dagli “effetti di rete” che esse sono in grado di generare, ovvero dalla capacità di attrarre sempre maggiori utenti, di fidelizzarli ai propri servizi costruiti in base ai dati raccolti su di essi. Informazione, dunque, che diviene conoscenza perché più la piattaforma è in grado di conoscere gusti e preferenze dell’utente più riuscirà, per il tramite degli algoritmi di apprendimento automatico, ad offrire servizi accurati e sempre più completi, quasi come se, leggendo nella mente del consumatore, ne comprendesse a pieno le esigenze e riuscisse a prevedere ciò di cui ha bisogno.
L’aumento vertiginoso del numero di utenti iscritti vuol dire anche maggiore capacità di attrarre investimenti pubblicitari da parte degli inserzionisti interessati a proporre annunci targettizzati per la vendita di prodotti da pubblicizzare alla platea di potenziali clienti che popolano gli ecosistemi digitali. Maggiori investimenti, significa maggiori risorse per perfezionare gli algoritmi affinché siano in grado di prevedere i comportamenti degli utenti.
Grazie all’immenso quantitativo di dati processati per il tramite di sofisticati sistemi di machine learning, le piattaforme informatiche entrano in possesso di un patrimonio informativo tale da porli senz’altro in una posizione di superiorità non solo rispetto agli utenti, ma anche rispetto ai concorrenti ai quali non resta che “piegarsi” dinanzi ai nuovi imperi privati, che decidono, in sostanza, chi può accedere al mercato o avere una certa visibilità sulla piattaforma mediante la manipolazione dei sistemi di classificazione dei risultati di ricerca (c.d. ranking). Non a caso, ai colossi del tech si riconosce un ruolo regolatorio tanto da essere qualificati come gatekeepers, ossia guardiani dei mercati digitali in quanto assumono il duplice ruolo di arbitri ed allo stesso tempo giocatori. Arbitri, nel momento in cui operano come intermediari online, mettendo in contatto gli utenti presenti in versanti diversi del mercato. In tale ruolo, si vestono da regolatori e dettano “le regole del gioco” stabilendo i prezzi, i protocolli per i motori di ricerca, i servizi di streaming o di video sharing. Sono giocatori quando rivendono beni e servizi a marchio proprio, ponendosi in concorrenza diretta con i fornitori-terzi che si sono registrati sulla piattaforma per offrire i loro prodotti e servizi ad una moltitudine di consumatori che, senza l’intermediazione dell’infrastruttura, non avrebbero mai raggiunto.
La capacità di interpretare questo ruolo duale ha consentito alle società tecnologiche, alcune delle quali nate con un core business differente, di concentrare la loro attività imprenditoriale in altri molteplici settori, finendo così per assumere le sembianze di conglomerati digitali: grandi compagnie capaci di articolare il loro modello di business in settori che si occupano di affari molto differenti fra loro. Si pensi a come Amazon, da mera piattaforma e-commerce sia riuscita ad estendere la sua market leadership mediante altre iniziative imprenditoriali, conquistando anche Hollywood, in veste di produttore televisivo e cinematografico. Si guardi a Google che, sfruttando la sua posizione dominante nei motori di ricerca, ha saputo diversificare la sua attività produttiva principale, investendo nello sviluppo di app e contenuti digitali mediante Google Play Store.
Regoliamoli, prima che sia troppo tardi.
Era piuttosto prevedibile che il “potere di vita o di morte” esercitato dagli ecosistemi digitali sui concorrenti mettesse in allarme le autorità garanti della concorrenza di tutto il mondo ed i rispettivi Parlamenti nazionali, dando inizio ad una vera e propria “guerra” combattuta a colpi di antitrust.
La risposta più lungimirante è stata certamente quella dell’Unione Europea che, con la proposta di regolamento Digital Markets Act (DMA) presentata il 15 dicembre 2020, ha inteso dotarsi di una regolamentazione unica per tutti gli Stati Membri che sia efficace nel governare i gatekeepers e nel fare ciò sappia porsi come modello normativo di riferimento anche per Stati extra-UE al fine di ispirare in questi ultimi lo stesso intento regolatorio.
Un invito accolto, almeno in prima battuta in modo piuttosto timido dagli Stati Uniti, ma che a seguito del cambio di vertice a Capitol Hill e alle prese di posizioni di alcuni studiosi di diritto antitrust, ha guadagnato il favore della maggioranza dei democratici e di una parte cospicua dei repubblicani, sino a concretizzarsi – in continuità con quanto era stato raccomandato al Congresso USA nel Rapporto dell’House of Judiciary Committee – nel pacchetto di proposte di legge antitrust dell’11 giugno 2021 a cui va ad aggiungersi una sesta proposta, già presentata all’inizio di maggio.
Il disegno di legge che, intervenendo su aspetti procedimentali, consente ai pubblici ministeri degli Stati Membri di scegliere il tribunale al quale sottoporre i casi antitrust contro le grandi società del digitale.
In questo disegno di legge il Congresso USA ha previsto di incrementare le commissioni che le grandi aziende sono tenute a versare sia alla Federal Trade Commission (FTC) sia alla divisione antitrust del Dipartimento di Giustizia (DOJ) per le grandi fusioni societarie, così da aumentare il budget a disposizione delle agenzie statunitensi per svolgere le indagini antitrust.
2. “Augmenting Compatibility and Competition by Enabling Service Switching (ACCESS)”.Disponibile qui
La Section 3 e la Section 4 della proposta sono dedicate rispettivamente alla portabilità dei dati ed alla interoperabilità fra le piattaforme in modo tale che gli utenti riescano facilmente a trasferire i propri dati da una piattaforma all’altra in un formato che sia leggibile e comprensibile da interfacce di programmazione concorrenti. L’obiettivo del Congresso USA è di arginare il cosiddetto effetto lock-in, ossia l’abilità delle piattaforme online di rendere i propri utenti sempre più dipendenti dai propri servizi tanto che il passaggio ad un’altra piattaforma viene reso di fatto impossibile, non consentendo la portabilità e l’interoperabilità.
In tal caso, l’attenzione dei Legislatori si sposta sulle “killer acquisitions”, ossia le acquisizioni di potenziali futuri concorrenti da parte dei tech giants con finalità sostanzialmente anticoncorrenziali, per stroncare sul nascere la possibile concorrenza di nuove startups. Come a dire, acquisiamole ora, prima che possano costituire un serio pericolo per la nostra strategia di business. Per tale motivo, la Section 2 prevede una presunzione di illegalità di tali operazioni, salvo la prova – si badi bene – in capo ai colossi del web, che le loro acquisizioni sono legali, senza che debba essere il governo a dover dimostrare il contrario.
In questo caso, la proposta di legge obbliga i conglomerati digitali a non adottare comportamenti discriminatori nei riguardi dei propri competitors, vietando di fatto la pratica del self-preferencing. L’assunzione del doppio ruolo di intermediari ed allo stesso tempo di rivenditori di prodotti e servizi con proprio marchio consente alle società digitali di favorire sulla piattaforma i propri prodotti e servizi mediante la manipolazione dei sistemi di classificazione. Grazie a questa particolare abilità, Google è in grado di mettere in risalto, nei primi risultati delle pagine del motore di ricerca, i contenuti delle piattaforme di cui è proprietaria, come i video YouTube (piattaforma di video sharing acquisita nel 2006 dall’azienda statunitense), facendo retrocedere, nella visualizzazione, i risultati simili di piattaforme concorrenti. Nel settore dell’e-commerce, Amazon, favorisce illecitamente sul marketplace quei rivenditori che si avvalgono del servizio di logistica di sua proprietà, Fulfillment by Amazon (FBA), a detrimento di quei venditori che, scegliendo di avere il controllo sull’intero processo di vendita, optano per servizi di spedizione esterni alla società, seppur a costo di venire retrocessi e non avere la stessa visibilità sulla piattaforma di cui godono i primi.
Dulcis in fundo, il disegno di legge che, prevedendo il break-up (scorporo) dei conglomerati digitali è destinata a cambiare il volto dell’economia di piattaforma ed a penalizzare pesantemente Amazon, tanto da essere già ribattezzata da primi commentatori “Amazon Bill”. La Section 2 sancisce che è illegale possedere una piattaforma e contemporaneamente offrire servizi e prodotti con proprio marchio sulla medesima, ponendosi in competizione diretta con aziende in grado di offrire prodotti equivalenti. La pratica è evidente in Amazon che, oltre ad essere una “vetrina virtuale” per venditori-terzi, vende anche prodotti con il proprio logo, noti come Amazon Basics. Ora, i venditori, iscritti al marketplace, non hanno modo di sapere quali dati Amazon stia raccogliendo su di loro e che ruolo questi abbiano nel favorire le attività della piattaforma e nel migliorare i suoi prodotti, soprattutto quelli più ricercati e popolari. È chiaro che le informazioni che la società e-commerce raccoglie sui concorrenti, le consentano di guadagnare un vantaggio competitivo illegale perché potrà offrire un prodotto identico a quello di un altro rivenditore, ma ad un prezzo inferiore. Sono i dati di vendita che ha raccolto che le consentono di sapere in anticipo se concentrarsi su quel prodotto, piuttosto che su un altro, meno richiesto. Come se in una partita a poker l’avversario già conoscesse le carte dello sfidante. È logico che userebbe tali informazioni a proprio vantaggio.
Se la proposta divenisse legge, la società di Seattle verrebbe costretta a separare l’attività della piattaforma e-commerce in due distinti linee di business: una, per i propri prodotti e l’altra per i prodotti di marchi terzi.
Che cosa dobbiamo aspettarci?
Le proposte hanno allarmato gli amministratori delegati dei Big Tech che sono sul piede di guerra. Nancy Pelosi, Speaker della Camera dei Rappresentanti, ha confermato di essere stata chiamata da Tim Cook, CEO Apple che, insieme agli altri, starebbe tentando di convincere membri del Congresso, a non approvare le proposte di legge che, guarda caso, a detta dei Big Tech, rallenterebbero l’innovazione e danneggerebbero i consumatori.
L’iter parlamentare appare piuttosto complicato. Al momento, la Commissione di Giustizia ha approvato i sei disegni di legge. Spetta ora alla Camera dei Rappresentanti ed al Senato pronunciarsi in via definitiva. Nel primo caso, l’approvazione appare scontata, i Democratici sanno di poter contare su di una solida maggioranza, mentre è al Senato che si giocherà la vera partita; in quel caso ottenere una maggioranza elevata (almeno 60 voti su 100) sarà vitale. Per tale ragione, i firmatari delle proposte dovranno appellarsi anche ai voti dei Repubblicani che, in misura piuttosto consistente, sembrano condividerle; sempre che i “tentacoli” delle lobby del tech, non “manipolino”, come già fanno con le scelte dei consumatori, anche le loro coscienze.