Ancora su PNRR e PA: Il Piano integrato (?) di attività e organizzazione

di Antonella Bianconi

La riforma della pubblica amministrazione, come quella della giustizia, vengono definite “riforme orizzontali” nel PNRR in considerazione del loro impatto generale rispetto alla ripresa nazionale. Con il DL 80/2021 convertito nella L. n. 113/2021, il governo ha previsto delle misure urgenti per il rafforzamento della capacità amministrativa della PA funzionale all’attuazione del PNRR. Tra queste misure è previsto che le pubbliche amministrazioni “per assicurare la qualità e la trasparenza dell’attività amministrativa e migliorare la qualità dei servizi ai cittadini e alle imprese e procedere alla costante e progressiva semplificazione e reingegnerizzazione dei processi anche in materia di diritto di accesso …..adottano il Piano integrato di attività e organizzazione

Si tratta di uno strumento molto articolato e complesso. Un piano di durata triennale, che deve essere aggiornato ogni anno, in cui si definiscono: a) gli obiettivi programmatici e strategici della performance; b) la strategia di gestione del capitale umano e di sviluppo organizzativo, anche mediante il ricorso al lavoro agile, e gli obiettivi formativi annuali e pluriennali; c) gli strumenti e gli obiettivi del reclutamento di nuove risorse e della valorizzazione delle risorse interne; d) gli strumenti e le fasi per giungere alla piena trasparenza dell’attività e dell’organizzazione amministrativa nonché per raggiungere gli obiettivi in materia di contrasto alla corruzione; e) l’elenco delle procedure da semplificare e reingegnerizzare ogni anno; f) le modalità e le azioni finalizzate a realizzare la piena accessibilità alle amministrazioni, fisica e digitale, da parte dei cittadini ultrasessantacinquenni e dei cittadini con disabilità; g) le modalità e le azioni finalizzate al pieno rispetto della parità di genere.

Questo livello di complessità richiederebbe da parte delle pubbliche amministrazioni un impegno concreto per mettere in chiaro i processi decisionali e rendere accessibili gli snodi relazionali che permettono il fluire delle attività amministrative.

Le previsioni astratte, però, devono fare i conti con la realtà della pubblica amministrazione italiana, in cui generalmente le pianificazioni imposte dalla legge vengono scritte in stanze solitarie senza un reale coinvolgimento dei diversi attori dell’organizzazione che dovrebbero intervenire. “La politica” che scrive la norma, è triste a dirsi, in linea di massima non sembra credere negli strumenti di programmazione che vorrebbe mettere in campo, e tanto meno ci credono i diversi organi di indirizzo delle amministrazioni destinatarie, con un effetto a cascata che investe in primo luogo i vertici della PA per poi colpire tutti coloro che ne fanno parte.

La scarsa fiducia nell’utilità della pianificazione, nel caso del PIAO, si mostra in tutta la sua evidenza nelle notizie di questi giorni, in cui il Governo, di fronte ai ritardi nell’emanazione dei provvedimenti attuativi, ha annunciato la proroga del termine del 31 gennaio per l’adozione del PIAO alla fine di aprile dell’anno prossimo. Pensare di adottare una pianificazione da cui fare discendere le azioni concrete per tutti gli ambiti previsti nel Piano (performance, anticorruzione, trasparenza, smartworking, fabbisogno del personale, formazione) praticamente a metà anno manda un messaggio inequivocabile: anche questa volta si tratta di un mero adempimento formale. Meglio sarebbe stato rinviare l’adozione del PIAO di un anno, dando effettivamente il tempo alle amministrazioni di costruire modelli di pianificazione frutto di reali analisi e riflessioni interne e, magari, anche confronti tra amministrazioni diverse, per produrre qualcosa di utile sul fronte della chiarezza, della trasparenza e della consapevolezza organizzativa. La scelta affannosa di inseguire gli adempimenti per dire di avere compiuto la missione non mostra alcun cambio di passo rispetto a quanto siamo abituati ad aspettarci.

Le linee guida per la compilazione del piano integrato, elaborate dal Dipartimento della funzione pubblica, non sembrano aggiungere contenuto rispetto ai titoli delle diverse sezioni del PIAO. Non viene toccato, ad esempio, il nodo centrale di come pianificare in modo integrato, aspetto che avrebbe rappresentato la vera portata innovativa dello strumento. Perché integrare non significa fare la somma di diverse parti, ma rendere coerenti tutte le parti riconducendole ad un comune denominatore. La vera sfida per le amministrazioni dovrebbe essere proprio quella di disegnare strategie di miglioramento sul fronte dell’organizzazione e sul fronte della trasparenza ed integrità, mettendo a sistema progetti di digitalizzazione, di formazione e programmando il turn over del personale cercando di acquisire quelle competenze che mancano nella PA per rispondere alle esigenze della collettività; in una parola, dare senso ad uno strumento dentro il quale dovrebbe potersi ritrovare quasi tutta l’attività amministrativa e gestionale di un ente.

Dalla prima lettura dell’elenco delle sezioni che dovrebbero formare il PIAO siamo presi quasi da una vertigine. La vertigine che potrebbe assalirci se ci venisse dato il compito di infilare tutto il nostro guardaroba invernale, compresi gli stivali, nel bagaglio a mano per un volo aereo. Tutti sappiamo che è molto più difficile preparare un bagaglio piccolo che uno grande. Per contenere in poco spazio ciò che serve occorre un grande sforzo organizzativo: prevedere (cioè vedere prima) cosa ci servirà e cosa invece lasceremo languire nella nostra valigia per tutta la vacanza. Pensare quindi di adottare un documento di programmazione comprimendo in un unico atto i diversi strumenti pianificatori, senza altro che una razionalizzazione formale (limitandosi ad esempio a non ripetere per ogni parte le stesse informazioni o scrivendo una introduzione con l’indice delle diverse parti di cui si compone il piano), non porterà a nessuna reale integrazione. Certo il fatto che il PIAO 2022, secondo la prevista proroga, verrà adottato praticamente in concomitanza con l’approvazione del bilancio consuntivo dell’anno precedente e, quindi, scollegato temporalmente dal bilancio di previsione che si approverà entro il 2021, non aiuta. E’ difficile dare effettività ad obiettivi e misure previste in un paino che per la sua realizzazione ha così poco tempo a disposizione.

Tuttavia, volendo fare un esercizio di ottimismo, si potrebbe immaginare comunque di costruire un documento utile, individuando pochi ma significativi obiettivi strategici in cui le diverse parti immaginate dal legislatore possano integrarsi mediante misure e target, mettendo in chiaro come raggiungere gli obiettivi mediante l’utilizzo delle competenze presenti e delle risorse da acquisire con reclutamento o la formazione. Ma per questo occorre un grande lavoro da parte delle amministrazioni e un esercizio di fiducia sulla possibilità di cambiare, con fatica e con impegno, il modo in cui oggi si pianifica. Del resto, come ha di recente scritto Mario Bertolissi nel suo editoriale “Riformare la pubblica amministrazione”, pubblicato in Federalismi.it, «semplificare è operazione complessa ed è il riflesso non di azioni esteriori, ma di una atteggiamento spirituale, che corrisponde ad una vocazione».

Ciclo di seminari su Green Deal, Next Generation EU, PNNR

Presentazione a cura del Prof. Francesco Bilancia, Ordinario di Diritto Pubblico presso l’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara e coordinatore scientifico, insieme con la Dott.ssa Marta Ferrara, del ciclo di conferenze.


Presso l’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara, nell’ambito del Dipartimento di Scienze giuridiche e sociali, in collaborazione con il Corso di dottorato di ricerca in Business Institutions Markets e con il Dipartimento di Economia, ha preso avvio un Ciclo di Seminari in tema di Green Deal, Next Generation EU, PNRR

Gli incontri, condotti da studiosi di diverse discipline e con competenze scientifiche interdisciplinari, prendono avvio dall’inquadramento tematico mosso dalla crisi climatica e dal riscaldamento globale, per definire significato e valore dei paradigmi dello “Sviluppo sostenibile” e della c.d. Economia circolare, allo scopo di misurare l’impatto di questi obiettivi sull’evoluzione delle politiche pubbliche, compresi i concreti profili applicativi della “transizione ecologica”.

Seguendo il flusso degli argomenti dei numerosi seminari previsti, ci si renderà conto che, lungo le linee degli investimenti e lo sviluppo delle principali riforme imposte quali condizioni dell’intervento finanziario previsto, saranno oggetto di riflessione quasi tutti i complessi paradigmi teorici toccati dal recovery fund

A partire dall’impatto delle nuove “European policies” e delle nuove forme di intervento pubblico nell’economia sul regime della concorrenza. Da qui ci si muoverà lungo l’asse delle riforme della governance economica e degli assetti di governo nazionale, comprendente una visione di impatto sul sistema delle autonomie, sulle fonti del diritto e sull’organizzazione amministrativa. Per procedere con riflessioni in materia di proprietà industriale, processo civile, informatizzazione della pubblica amministrazione e semplificazione dei procedimenti. 

L’articolazione delle competenze coinvolte apre lo sguardo anche sui profili della comunicazione istituzionale e pubblica, sui temi dell’equità e della solidarietà sociale, della parità di genere, della giustizia tributaria, della digitalizzazione dell’economia e delle amministrazioni pubbliche, fino alla riforma delle procedure fallimentari in relazione alle crisi aziendali. 

La questione degli assetti istituzionali e del sistema delle relazioni sociali ed economiche a valle dell’emergenza pandemica – presente in tutti gli ambiti tematici richiamati – nella prospettiva di ipotizzare previsioni su cosa potrà condurre con sé l’auspicato “ritorno alla normalità”, aprirà infine la riflessione sull’intreccio dei mutamenti in atto nel contesto istituzionale con il dibattito relativo al “Futuro dell’Unione europea”. 

NdR: Qui di seguito pubblichiamo le singole locandine ed ogni informazione utile per seguire i seminari.

Le prime polpette avvelenate del PNRR. Verso la definitiva privatizzazione del servizio idrico?

di Stefano Civitarese Matteucci

Il 4 novembre 2021 il Consiglio dei Ministri ha approvato il Disegno di legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021 (ddl concorrenza). Come previsto da una legge del 1999, questo serve a “rimuovere gli ostacoli regolatori, di carattere normativo o amministrativo, all’apertura dei mercati, promuovere lo sviluppo della concorrenza e garantire la tutela dei consumatori”. Tra le numerose misure, l’art. 6 del disegno di legge prevede una “delega in materia di servizi pubblici locali”. Il Governo, vale a dire, chiede al Parlamento, che dovrà trasformare in legge il disegno di legge, di delegarlo a riordinare i servizi pubblici locali, anche tramite l’adozione di un apposito testo unico. Vengono elencati ben ventuno principi e criteri direttivi ai quali il futuro decreto legislativo/testo unico dovrà ispirarsi. Tra questi spiccano quelli di cui alla lettera f) dell’articolo 6, ove si stabilisce che gli enti locali debbano giustificare in modo “anticipato e qualificato” (sic) il mancato ricorso al mercato, ossia le ragioni per cui scelgano o confermino il “modello dell’autoproduzione”. In parole più semplici, se un comune o un gruppo di comuni vogliono continuare a fornire l’acqua potabile, smaltire i rifiuti, gestire i trasporti pubblici e l’igiene urbana attraverso proprie aziende (quelle che vengono chiamate società in house) dovranno darne conto all’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Dovranno, vale a dire, spiegare le ragioni che giustificano la gestione pubblica “sul piano economico e della qualità, degli investimenti e dei costi dei servizi per gli utenti … anche in relazione ai risultati conseguiti nelle pregresse gestioni in autoproduzione”. In termini ancora più espliciti, la regola diventerà quella della concessione ai privati dei servizi pubblici. La gestione pubblica sarà l’eccezione da motivare ‘qualificatamene’.

Vi è persino di più. Si intende anche revisionare la “disciplina dei regimi di proprietà e di gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni”. Frase quantomai ambigua, che diventa più chiara continuando a leggere che si prevederà la “cessione dei beni in caso di subentro, anche al fine di assicurare un’adeguata valorizzazione della proprietà pubblica, nonché un’adeguata tutela del gestore uscente”. Insomma, siamo alla politica di ‘valorizzazione’ del patrimonio pubblico dei primi anni Novanta del secolo scorso, la vendita dei gioielli di stato per fare cassa, che qualcuno, meno pudicamente, chiama la svendita dei beni pubblici. In pratica, si apre la strada, per esempio, alla privatizzazione degli acquedotti.

Quali sono le ragioni di questa scelta, che riguardo al servizio idrico è in contrasto sia con il referendum, che nel 2011 vide un successo schiacciante dei promotori dell’acqua come bene comune, sia con il disegno di legge Daga presentato alla Camera all’inizio della legislatura e sottoscritto da 205 deputati? Non ci eravamo lasciati alle spalle la stagione del neoliberismo e dello smantellamento dello stato? Non ci avevano insegnato il Covid e i fallimenti delle privatizzazioni (si pensi alle autostrade) che il settore pubblico è strategico e che gli interessi e i beni pubblici essenziali non devono essere ‘messi a profitto’?

Nessuno può negare che molte amministrazioni e aziende pubbliche non funzionano o che esistono fenomeni di clientelismo e corruzione (come se nel privato non ve ne fossero). Il punto, però, è che i fatti hanno mostrato che la soluzione non è certo quella di ricorrere al mercato per supplire ai ‘fallimenti dello stato’, la faccia nascosta dell’ambigua teoria dei market failures, secondo cui lo stato esisterebbe per rimediare ai problemi lasciati insoluti dal mercato. Come se il ‘mercato’ fosse una sorta di problem solver, un’entità metafisica, con fini suoi propri, cui di tanto in tanto va fatto un ‘tagliando’. E non invece un complesso fatto istituzionale operante in virtù di un insieme di regole sociali, giuridiche, pratiche conflittuali, eccetera. Se si vogliono far funzionare le istituzioni pubbliche, occorrono politiche, azioni e misure – e soldi – in luogo delle vacue riforme degli ultimi trent’anni, dettate dall’agenda della semplificazione e del “meno stato più mercato”.

Italia Domani, ossia il PNRR, enfatizza ripetutamente la necessità di “assicurare la costruzione di una capacità amministrativa stabile all’interno delle PA. Questa deve consentire non solo di realizzare in maniera efficace ed efficiente i progetti di riforma e di investimento previsti dal Piano, ma di fornire strutturalmente beni e servizi pubblici adeguati alle esigenze di cittadini e imprese” (p. 45). Basta scavare un poco, però, per scoprire che il PNRR è in piena continuità con le idee di semplificazione, snellimento, liberalizzazione, figlie dei ruggenti anni Novanta. Non è un caso, tornando all’oggetto di questo articolo, che le disposizioni sui servizi pubblici locali del ddl concorrenza siano tratte di sana pianta dal PNRR stesso. In una sezione intitolata “Concorrenza e valori sociali” leggiamo che “una parte importante del disegno di legge sarà diretta a promuovere dinamiche competitive finalizzate ad assicurare anche la protezione di diritti e interessi non economici dei cittadini, con particolare riguardo ai servizi pubblici, alla sanità e all’ambiente” (pag. 76). Curiosamente, però, per proteggere gli interessi ‘non economici’ dei cittadini si prescrive un “ricorso più responsabile da parte delle amministrazioni al meccanismo dell’in house providing”, cioè al meccanismo del servizio pubblico. E così, “andranno introdotte specifiche norme finalizzate a imporre all’amministrazione una motivazione anticipata e rafforzata che dia conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato”, eccetera, eccetera. A parte qualche vocabolo (“qualificata” ha preso il posto di “rafforzata” nel ddl concorrenza) le specifiche norme sono ora arrivate sugli scranni parlamentari.

Che farà il nutrito pacchetto di parlamentari firmatari della proposta di legge Daga? La proposta si ispira a “una gestione pubblica partecipativa e trasparente del bene comune costituito dall’acqua” (p. 3). Il suo art. 9 prevede che il “servizio idrico integrato è considerato servizio pubblico locale di interesse generale non destinato ad essere collocato sul mercato in regime di concorrenza” e che “la gestione del servizio idrico integrato è realizzata senza finalità lucrative, mediante modelli di gestione pubblica, e persegue finalità istituzionali e di carattere sociale e ambientale”. Basta che votino contro il disegno di legge governativo, si dirà, e Draghi se ne dovrà fare una ragione. Dopo tutto, salve le intoccabili regole sulla concorrenza del mercato interno (per i beni e i servizi che sono offerti dal mercato), nessuna legge europea impone agli stati di mettere sul mercato la somministrazione dell’acqua potabile.

Ma qui scatta un vero e proprio cortocircuito. La preferenza per la gestione privata dei servizi pubblici locali è una ‘riforma’ del PNRR e questo cambia le carte in tavola. Il governo italiano ha approvato il PNRR nell’aprile 2021, poi inviato alla Commissione Europea il 30 aprile 2021. Il Parlamento lo ha visto solo passare. I parlamentari ne discussero una bozza nel gennaio 2021, quella del governo Conte poi riformulata da Draghi, e si limitarono ad alcune generiche linee guida. Il PNRR, quindi, è formalmente una decisione del Consiglio dei Ministri privo di forza di legge. In linea di principio, il Parlamento non è vincolato a seguirne le direttive, che in molti casi consistono nell’approvare atti aventi forza di legge: 53, tra leggi, decreti-legge, decreti legislativi, da portare a termine tra il 2021 e il 2026. Qualunque studente del primo anno di giurisprudenza direbbe che è un nonsenso ipotizzare che il Parlamento sia obbligato ad approvare un disegno di legge elaborato in attuazione di un programma deciso dal Governo, salvo il meccanismo politico della fiducia.

Se, però, consideriamo il problema dal punto di vista dell’Unione Europea le cose cambiano. I piani di ripresa e resilienza sono i capisaldi di una complessa procedura prevista dal Regolamento (UE) 2021/241 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 febbraio 2021 (regolamento RRF), attraverso cui gli Stati membri ricevono gli ingenti finanziamenti del Next Generation EU. Il fulcro di questa procedura è l’accordo tra la Commissione e ciascuno Stato membro beneficiario che suggella il sostegno finanziario dell’UE e sancisce l’obbligo degli Stati membri di realizzare tutti gli obiettivi e le misure previste dai piani. In breve, la natura di tali piani secondo il diritto nazionale (in Italia una decisione del Governo) è irrilevante per l’Unione. Se uno Stato membro desidera accedere (e mantenere nel tempo) i finanziamenti Next Generation UE deve obbligarsi a eseguire quanto contenuto nell’accordo firmato con la Commissione UE.

Secondo il Regolamento europeo i piani nazionali stabiliscono in primo luogo e principalmente un percorso di riforma. Come spiegato nel documento di lavoro della Commissione europea del 22 gennaio 2021, l’elemento principale su cui si impernia un piano di ripresa e resilienza è denominato “componente”: “Ogni componente dovrebbe riflettere le relative priorità di riforma e investimento in un settore o in settori, attività o temi correlati, mirando ad affrontare sfide specifiche, formando un pacchetto coerente”. In breve, investimenti, progetti e riforme sono inestricabilmente legati. Il rispetto di questo ‘pacchetto’, riforme legislative comprese, è monitorato e verificato dalla Commissione. Non attuare una delle riforme promesse nel piano, secondo i tempi indicati, mette in pericolo l’ottenimento dei fondi europei su cui ruota l’intera tenuta del Paese nei prossimi anni.

Il Parlamento sembra, dunque, in un cul de sac, messo nell’angolo dalla decisione presa dal Presidente del Consiglio di inserire nel PNRR la riforma mercatistica dei servizi pubblici locali. Si profila, allora, all’orizzonte una nuova campagna referendaria promossa dal movimento “Acqua bene comune”, quando le nuove disposizioni vedranno la luce? Anche questa, si perdoni la battuta scontata, rischierebbe di produrre un buco nell’acqua. Le nuove regole sui servizi pubblici locali potrebbero essere escluse dal referendum abrogativo se ritenute disposizioni indispensabili per evitare il concretizzarsi di una «responsabilità dello Stato italiano per inadempimento di uno specifico obbligo comunitario, con conseguente violazione dell’art. 75, secondo comma, Cost.» (Corte cost. sent. n. 45/2000).

Il problema qui discusso mostra che la democrazia è un po’ in affanno. A costo di essere tacciato per il solito petulante nostalgico del defunto stato-nazione e della moribonda democrazia rappresentativa, credo che congegni come il PNRR per imporre in modo verticistico decisioni che calpestano la volontà popolare su questioni fondamentali (come l’acqua bene comune) non facciano il bene del Progetto Europeo.

Il modo per uscire dal cul de sac sarebbe per la ‘politica’ di riappropriarsi delle sue prerogative e – invece di appiattirsi sull’Agenda Draghi – decidere se la prospettata riforma dei servizi pubblici locali sia o meno compatibile con la risoluzione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 28 luglio 2010 (GA/ 10967) che dichiara «il diritto all’acqua un diritto umano universale e fondamentale». L’accordo sul PNRR non è inciso nella roccia e non si può credere che un governo munito di un chiaro mandato parlamentare non abbia la possibilità di rinegoziare aspetti di dettaglio di un piano estremamente complesso. Possiamo, però, seriamente pensare che questo Parlamento abbia la forza e l’autorevolezza per assumersi questo compito?

ODP intervista Savino Balzano (Contro lo smart working, Laterza, 2021)

Savino Balzano è un sindacalista del settore bancario, che studia da tempo il mondo del lavoro, con particolare attenzione alle dinamiche collettive e sindacali. Nel 2019 ha esordito con il suo primo saggio Pretendi il lavoro! L’alienazione ai tempi degli algoritmi (GOG Edizioni) e quest’anno, per i Tascabili della Laterza, ha pubblicato Contro lo smart working, un saggio molto critico sul lavoro agile e sulla sua diffusione generalizzata nei rapporti di lavoro dipendente.

Il lavoro agile[1], comunemente conosciuto come smart working, è emerso nella discussione pubblica in quanto è stato uno degli strumenti imposti dal governo per garantire il distanziamento sociale e l’effettività dei c.d. lock down generalizzati durante la fase più acuta della pandemia da Covid-19. Dopo questa esperienza di utilizzo dello strumento – che in molti casi è ancora in corso, anche se con modalità differenti rispetto al periodo pandemico – nel dibattito pubblico moltissimi studiosi e commentatori hanno segnalato l’opportunità di valorizzare maggiormente questo strumento, fino a prevedere una sua introduzione “semplificata”[2]. Recentemente, inoltre, alcuni accordi sindacali stipulati dal governo con le parti sociali hanno lasciato intendere che la prospettiva verso cui ci si muove è quella di una sua maggiore diffusione nella contrattazione collettiva[3].

Savino Balzano, quali sono le principali motivazioni che ti hanno spinto a scrivere un saggio critico sul lavoro agile proprio nel momento in cui, almeno apparentemente, sembra avere mostrato la sua utilità?

Discutere di lavoro, dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, dell’evoluzione della materia e degli impatti che questa (l’evoluzione) ha avuto sulle dinamiche di potere nel paese non è evidentemente cosa da poco. La Costituzione riserva molto spazio al lavoro e che spazio! La parola “lavoro” è la nona parola in ordine consecutivo che rinveniamo nella lettura della nostra legge fondamentale, articoli e preposizioni comprese: qualcosa vorrà dire circa la rilevanza che i costituenti volevano riservassimo al tema.

Il lavoro agile ha la capacità di rivoluzionare completamente il mondo del lavoro, di rivoltarlo da cima a fondo. Se c’è infatti un elemento rispetto al quale siamo davvero tutti d’accordo (sostenitori, assoluta maggioranza, e critici, pochi carbonari) è proprio questo.

Dunque sono certo che, per quanto difficile, questo fosse un libro assolutamente necessario.

Difficile perché è innegabile che il lavoro agile produca delle esternalità positive di immediata percezione: l’esempio più ricorrente è quello di non dover affrontare il traffico giornaliero per recarsi a lavoro. Parlo di mere esternalità positive perché i vantaggi che le persone tendono a sottolineare spesso non hanno nulla o quasi a che vedere con il lavoro in quanto tale. Sono semplicemente “scorciatoie” utili ad evitare le inefficienze che come cittadini ogni giorno siamo chiamati a fronteggiare. Io ricorro spesso ad un paradosso: pensate a chi vive di fronte all’azienda, che per recarsi al lavoro non deve fare altro che attraversare una strada. Per questi il grande vantaggio relativo alla mobilità giornaliera è praticamente nullo.

Necessario perché basta ricercare nella sezione immagini Google “smart working” per avere una rappresentazione visiva, quasi plastica, di quanto si cerchi di far passare: lavoratrici e lavoratori a bordo piscina col tablet e gli occhiali da sole, gente sorridente che lavora dal cottage in montagna, persone felici di prestare la propria opera da boschi e da oasi immerse nella natura o persino in crociera. Provare però a passeggiare su qualsiasi spiaggia italiana e a contare i lavoratori incontrati lungo la via può diventare un esercizio piuttosto frustrante.

La stampa si è davvero sbizzarrita: ho persino letto su testate giornalistiche di primo piano (quantomeno in termini di tiratura) della possibilità di prestare la propria opera in regime di smart working dal duomo di Milano[4].

Lo smart working poi è quotidianamente rappresentato come soluzione ad ogni male: inquinamento, traffico, spopolamento dei borghi italiani, emigrazione giovanile dal sud del paese. Resto convinto che questioni di tale portata non possano che essere risolte mediante il ricorso a politiche pubbliche specifiche.

Sono giunto alla conclusione circa l’inderogabile necessità di non abbandonare un tema fondamentale come il lavoro ad un racconto grottesco e lontano dalla realtà e sono felice che un editore importante come Laterza abbia voluto accogliere questo pamphlet: è stata una scelta democratica e plurale.

Quali sono i diritti, attualmente garantiti ai lavoratori dipendenti grazie alla fisicità e alla materialità del luogo di lavoro, che, secondo la tua analisi, potrebbero vedere un possibile ridimensionamento?

Sono molti.

La legge del 22 maggio 2017 n. 81 prescrive che il tetto massimo di ore lavorate a distanza non dovrebbe (condizionale d’obbligo) mutare rispetto al lavoro in presenza. Tutti sanno però che le ore di lavoro aumentano[5] (non foss’altro perché quest’ultimo ti insegue in ogni spazio della tua vita, in ogni stanza della tua stessa abitazione) e che si ponga con ancor maggiore cogenza il tema che inesorabilmente ed insistentemente si pone da anni: quello della necessità di garantire la disconnessione. Senza peraltro riuscire a trovare una soluzione definitiva al problema. È difficile comprimere e semplificare questa mia idea, ma tengo a sottolineare come nel campo del lavoro la distanza tra diritto materiale e formale sia massima. Possiamo prescrivere tutto quello che ci pare, ma se il contesto è avverso alle persone quelle norme saranno difficilmente esigibili. Il modello di capitalismo ormai ampiamente affermatosi, di stampo neoliberale nordamericano[6], impone la precarietà delle persone sui luoghi di lavoro (anche e soprattutto virtuali!) e dunque la loro ricattabilità: nessuno pretende il rispetto delle regole se sa di poter perdere il lavoro da un momento all’altro, figuriamoci se rivendica un miglioramento delle condizioni generali. La conseguenza consiste nel lavorare di più e nel farlo gratuitamente: il lavoro agile alimenta questa dinamica perché pone l’individuo in una dimensione di assoluto isolamento: questo induce scoramento, rassegnazione, arrendevolezza. E pensate che c’è persino chi vede nel limite massimo di tempo lavorato un vincolo eccessivamente stringente[7].

Poi non c’è solo il tema del tempo massimo: nello smart working si supera completamente il concetto di orario di lavoro, ovvero quello della distribuzione preorganizzata dei tempi di lavoro e dei tempi di riposo durante la giornata (sempre nel limite ipotetico del tempo massimo di lavoro). Questo non è un elemento marginale: prevedere e organizzare preventivamente il nostro tempo è condizione essenziale al pieno godimento di esso, soprattutto di quello “libero” (appunto). Senza contare che, se lasciassimo al datore di lavoro la piena libertà di metterci in attività o a riposo a suo piacimento (sempre entro il tetto massimo delle ore lavorabili), questi ci costringerebbe a seguire maniacalmente le esigenze di produzione e i suoi picchi (della produzione), imponendo ritmi serrati oltre i limiti della sopportazione.

La fisicità del luogo di lavoro inoltre comporta tutta una serie di diritti connessi alla salute e alla sicurezza e sono il frutto di anni e anni di lotte sindacali. Lo smart working non prevede che il datore di lavoro sia responsabile delle condizioni fisiche di lavoro, dell’allestimento della postazione di lavoro per dirne una, (a differenza di quanto accade nel telelavoro[8]) ed è tenuto semplicemente ad informare circa i rischi professionali. Obbligo tra l’altro spesso disatteso. Le conseguenze sono notevoli: sia sul piano fisico che mentale e i lavoratori cominciano a lamentarle insistentemente.

Il lavoro agile è poi più povero del lavoro in presenza: sia perché la retribuzione è costante a fronte del citato aumento delle ore lavorate (decremento dunque della paga oraria); sia perché vanno in fumo le indennità (ad esempio quella del lavoro su turni, che comunque i lavoratori continuano a prestare anche in regime di lavoro agile), i buoni pasto (che avranno anche funzione indennitaria e assistenziale come recentemente la Cassazione ha sottolineato[9], ma è notorio vengano utilizzati dalle famiglie per fare la spesa e per l’acquisto di beni di primissima necessità), la retribuzione dello straordinario che quasi sempre non viene riconosciuto (essendo il lavoro agile ancorato al raggiungimento degli obiettivi più che al tempo lavorato).

Ci sarebbero diverse altre questioni: le spese che i lavoratori devono accollarsi per l’allestimento e la gestione della postazione di lavoro (che peraltro costituiscono un investimento sui mezzi di produzione e dunque l’assunzione di parte del rischio di impresa – senza partecipazione ai profitti – che incide sul paradigma del lavoro dipendente); il tema del controllo a distanza e quello della disciplina delle mansioni che in regime di lavoro agile assumono maggiore rilevanza. Tuttavia credo che questi spunti possano già fornire un quadro di massima.

Sia nelle imprese private che nelle amministrazioni pubbliche sono in corso modalità semplificate di lavoro agile. Che cosa si sta “semplificando” rispetto al modello della legge 22 maggio 2017 n. 81? Come valuti queste modalità di semplificazione?

A volte mi sento come il protagonista di Palombella Rossa, il film di Nanni Moretti dell’89. C’è quella scena nella quale perde letteralmente la testa e insiste sul ruolo del linguaggio, delle parole, e urla disperato «le parole sono importanti!».

Il mondo del lavoro ha subito un’aggressione negli ultimi trent’anni di inaudita ferocia ed essa è stata prima di tutto culturale, e poi giuridica. Si evocava (e si evoca) ossessivamente il bisogno di flessibilità (alcuni promettevano la flexicurity), di deregulation, di soft law, di governance. Si propone insistentemente una narrazione che prova ad inculcare l’idea per la quale i diritti delle persone siano intralci, ostacoli alla modernità (che si dipinge come progresso). I capi di governo si sono consegnati la staffetta nel reiterare la proposizione di questo messaggio (da Monti che definiva “noioso” il posto fisso[10], a Renzi che paragonava l’art. 18 al gettone telefonico nello smartphone[11]).

Mi scuso per quella che potrebbe apparire una divagazione, ma credo che la questione sia centrale: non si può pensare di operare una battaglia in difesa della causa del lavoro prescindendo dalla dimensione culturale del fenomeno: anni e anni di mainstream hanno di fatto contribuito a costituire una nuova “coscienza”, evidentemente avversa alla comunità del lavoro, che poi è la comunità nazionale celebrata in Costituzione.

A mio avviso questo è il momento di fermarci e di riflettere prima di tutto sul significato stesso delle parole perché le dinamiche che ci hanno riguardato in passato sono più attive che mai ancora oggi. Il 10 marzo 2021, Governo e parti sociali hanno sottoscritto un importante accordo (Patto per l’inno­vazione del lavoro pubblico e la coesione sociale), nel quale auspicavano «linee di intervento sul lavoro agile (smart working) [che evitino] una iper-regolamentazione legislativa»[12]. Sorge una domanda spontanea: se già l’attuale quadro normativo si presta ai limiti di cui stiamo parlando, quale semplificazione si evoca? Non è un caso che l’accordo insista molto sui temi della produttività e del welfare contrattuale: di sicuro non risponde ad una impostazione pro labour.

La domanda ad ogni modo resta centrale, dal momento che tutte le parole adoperate esprimono pressappoco lo stesso significato conclusivo: erosione dei diritti dei lavoratori. E nel modello capitalistico che ci governa significa erosione dei diritti dei più fragili, degli ultimi, delle periferie sociali.

La crisi sanitaria ha imposto iter semplificati di ricorso generalizzato al lavoro agile, ma non possiamo considerare quel contesto come la nuova normalità: la normalizzazione dell’emergenza è un obiettivo del grande capitale finanziario che ambisce alla massima libertà[13].

Il Ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta ha deciso di interrompere l’esperienza del lavoro agile semplificato del periodo pandemico nelle pubbliche amministrazioni, in attesa di una migliore attuazione della legislazione vigente. Secondo il Ministro è stata una modalità di lavoro a domicilio “senza contratto, senza obiettivi e senza tecnologia” che non ha garantito i servizi pubblici essenziali ai cittadini italiani[14]. Che cosa ne pensi?

Penso che in questo ambito le espressioni vadano adoperate pertinentemente. Il lavoro a domicilio è tecnicamente regolato dalla legge 877/1973 (“Nuove norme per la tutela del lavoro a domicilio”) e col lavoro agile non c’entra assolutamente nulla. Viene retribuito a cottimo, tanto per dirne una: non vorrei si fosse trattato di un lapsus freudiano. C’è già tanta confusione: non è il caso di alimentarne di altra.

Qualcuno ha anche pensato di ironizzare sostenendo che il ministro abbia fatto marcia indietro dopo aver letto il mio libro. Sarebbe stato gratificante, anche e soprattutto perché avrebbe dimostrato il grande potenziale della cultura, ma tendo ad escludere l’ipotesi. A cambiare è il punto di partenza e la finalità perseguita: io sono ostile allo smart working inteso come nuovo paradigma ordinario e generalizzato di prestazione lavorativa perché per me al centro c’è la persona, le sue esigenze individuali e collettive. L’ossessione del ministro è la produttività.

Per carità, la produttività è importante, ma è una questione di priorità.

Vorrei ricordare che Brunetta ha già guidato il suo attuale dicastero nell’ultimo governo Berlusconi ed era famoso per la personale lotta ai fannulloni a colpi di tornello[15]. La produttività è tuttavia da capitale, prima ancora che da lavoro. Se nel paese parte della pubblica amministrazione non funziona non credo sia per colpa delle lavoratrici e dei lavoratori: abbiamo assistito a anni e anni di tagli, molti dei quali imposti dall’UE, e la produttività da capitale è crollata. Si pensi banalmente a quanto accaduto di recente al sistema informatico di Regione Lazio. Penso sia davvero emblematico[16].

La marcia indietro è dovuta all’inadeguatezza delle infrastrutture, principalmente: se ne prenda atto e si agisca conseguentemente. Se poi qualcuno fa il furbo, ci sono tutti gli strumenti per poter agire con determinazione: ma resta un tema marginale rispetto all’immane necessità di investimenti.

Nel tuo saggio confronti spesso il modello di lavoro agile presente nella legge sul telelavoro (legge 16 giugno 1998, n. 191) con la legge sul lavoro agile del 2017. Questa comparazione fa emergere come tu non sia del tutto contrario all’utilizzo di forme di lavoro a distanza. È così? E se sì quali sono gli elementi irrinunciabili che qualsiasi tipo di modello di lavoro agile deve avere per essere uno strumento utile a migliorare la vita dei lavoratori e delle lavoratrici?

Non possiamo consentire la normalizzazione del quadro emergenziale. Il lavoro da remoto deve rappresentare una componente residuale della prestazione lavorativa e non può costituire la nuova modalità ordinaria e generalizzata di lavoro.

Chi eleva lo smart working a innovazione del secolo, non deve omettere di evidenziare due aspetti, che poi in realtà indichi tu stesso nella domanda: primo, che la possibilità di lavorare da remoto non nasce oggi (esistono esperienze aziendali risalenti, come pure la previsione di lavorare a distanza nella pubblica amministrazione già dalla fine degli anni ’90, senza tralasciare ovviamente l’accordo italiano sul telelavoro del 2004 che recepiva quello europeo del 2002); secondo, che lo smart working non nasce con la crisi sanitaria, dal momento che la legge che lo introduce è del 2017.

E allora c’è da domandarsi come mai tale ineluttabile opportunità non sia stata colta prima, perché si sia atteso il 2020: insomma, convince poco la risposta per la quale l’attuale crisi abbia in realtà costituito in via contingente l’occasione per rendersi conto che tale opportunità potesse essere colta. È tutto qui, oppure durante la crisi abbiamo visto e stiamo vedendo qualcosa di diverso rispetto al passato?

Questa è la partita: lo smart working diventa conveniente per la grande azienda e per le multinazionali solo nel momento in cui costituisce la nuova modalità ordinaria e generalizzata di prestazione lavorativa. Banalmente, sul piano dei meri risparmi, i vantaggi sono avvertiti solo se è possibile dismettere gli immobili: se il datore di lavoro è tenuto comunque ad ospitare la forza lavoro alcuni giorni a settimana, perde il grande vantaggio che lo smart working può apportargli. I veri vantaggi si consolidano solo se quest’ultimo diventa il nuovo paradigma del lavoro tout court.

E qui vengo alla tua domanda: prima di tutto il lavoro a distanza non deve avere la capacità di recidere le maglie del tessuto sociale del lavoro e dunque deve mantenere la sua dimensione residuale, di mediazione in ottica di migliore conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (perché per questo nasceva e non a caso, mi verrebbe maliziosamente da sottolineare, non è immediatamente esploso come fenomeno). In secondo luogo, pur restando residuale, necessita di interventi volti a tutelare le persone: in materia di salute e sicurezza, retribuzioni, eccetera.

E qui casca l’asino perché non è di questo che si parla ossessivamente: l’obiettivo è quello di normalizzare l’emergenza e dunque la difficoltà non è trovare un’intesa nel tavolo della trattativa. La difficoltà consiste proprio nella costituzione stessa del tavolo, dal momento che le ambizioni (espresse tutto sommato strettamente tra i denti) sono altre rispetto all’idea originaria: un nuovo paradigma del lavoro, perfettamente in linea col processo annoso di erosione dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori italiani (e non solo).

Savino, il tuo è evidentemente un saggio militante, nel senso che assume una prospettiva valoriale e ideologica molto precisa, ispirata dalle disposizioni costituzionali, che spiega la tua contrarietà al lavoro agile, soprattutto in quanto strumento che indebolisce la comunità del lavoro. Ci spieghi cosa significa per te comunità del lavoro e perché il lavoro agile rischia di indebolirla?

La Costituzione affida al lavoro il compito di animare la vocazione democratica del paese. Lo fa all’articolo 1, certamente, ma anche e soprattutto al comma secondo dell’articolo 3. I lavoratori hanno una missione sacra, letteralmente, che è quella di presidiare (attraverso la loro partecipazione) la nostra democrazia.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli alla partecipazione dei lavoratori e tale rimozione avviene attraverso la promozione di un preciso modello di lavoro: tutelato, garantito, prospettico. Un modello, insomma, che metta al riparo la persona dalla ritorsione rivoltagli da chi ha da perdere dalla partecipazione della comunità del lavoro.

Abbiamo assistito negli ultimi trent’anni al moto corrosivo di una pletora di interventi volti unicamente ad erodere i diritti dei lavoratori[17]: è esplosa la precarietà del rapporto di lavoro nella sua forma, come pure la precarietà nel rapporto di lavoro e nella sua declinazione quotidiana. Tutto questo ha indotto la ritrazione del lavoro e la rinuncia alla resistenza, al contrasto, alla lotta, alla rivendicazione. Abbiamo assistito ad una sterilizzazione del conflitto che non era indirizzata alla pacificazione ed alla solidarietà sociali. Piuttosto si voleva e si è ottenuta la più completa subalternità della comunità del lavoro.

Il diritto del lavoro svolge per me infatti una funzione prioritariamente didascalica: insegna ai lavoratori, mediante i diritti che gli riconosce, quali margini di partecipazione possono essere raggiunti, quali spazi siano a disposizione e possano essere occupati. Se ci pensate è davvero curioso (solo a prima vista) che la partecipazione di tanti lavoratori si sia contratta senza toccare i diritti strettamente sindacali (eccezion fatta per gli interventi in materia di sciopero nei servizi pubblici essenziali). È chiaro a chi ha operato determinate scelte come incidendo sui diritti individuali della persona sui luoghi di lavoro si inducano delle conseguenze specifiche, collettive e politiche[18], in seno alle dinamiche sindacali.

E la partecipazione dei lavoratori non è, come abbiamo sottolineato all’inizio, una prerogativa esercitabile solo entro i confini della fabbrica: costituisce un interesse pubblico, politico, costituzionale.

Lo smart working è il tassello conclusivo e, se inteso come nuovo paradigma ordinario e generalizzato di prestazione lavorativa, ha la capacità di infliggere il colpo di grazia alla comunità del lavoro.

La realtà delle cose è lontana anni luce da quanto ci viene raccontato dalle voci mag­gioritarie della politica, dell’informazione e della cul­tura: a fronte di un racconto mainstream che dipinge un lavoratore a bordo piscina, in Ray-Ban, con i piedi nell’acqua e il tablet in mano, si contrappone quella decisamente più realistica di un lavoratore solo, cur­vo nella piccola stanza semibuia di un monolocale di periferia, rassegnato alla subalternità, all’accettazione di una realtà su cui sa di non poter incidere, lontano da tutti e da ogni forma di consapevolezza circa il ruolo che la Costituzione aveva immaginato per lui.


[1] L’art. 18 della legge 22 maggio 2017 n. 81 definisce il lavoro agile come «modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa».

[2] Si v. D. De Masi, Smart working. La rivoluzione del lavoro intelligente, Venezia, Marsilio Editori, 2020.

[3] Nel Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale siglato il 10 marzo scorso dal governo e dalle parti sociali si legge che: «Nell’ambito dei contratti collettivi nazionali di lavoro del triennio 2019-21, saranno quindi disciplinati, in relazione al lavoro svolto a distanza (lavoro agile), aspetti di tutela dei diritti sindacali, delle relazioni sindacali e del rapporto di lavoro (quali il diritto alla disconnessione, le fasce di contattabilità, il diritto alla formazione specifica, il diritto alla protezione dei dati personali, il regime dei permessi e delle assenze ed ogni altro istituto del rapporto di lavoro e previsione contrattuale)».

[4] https://milano.repubblica.it/cronaca/2021/06/19/news/tiqets_smart_working_guglie_duomo-306765359/

[5] Ho provato ad argomentarlo, contestando i risultati di uno studio condotto in Banckitalia, in https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2021/01/25/smart-working-rischi-lavoro/

[6] Si veda diffusamente A. Somma, Introduzione al diritto comparato, Giappichelli 2019, che evidenzia come – più che parlare di un avvicinamento tra i due modelli di capitalismo (renano e nordamericano) individuati da Michel Albert (Capitalismo contro capitalismo, il Mulino, 1993) – sia probabilmente più corretto parlare di una complessiva prevalenza del secondo.

[7] Basta leggere il recente piano Co­lao, elaborato dalla task force nominata dal secondo governo Conte per il rilancio post-pandemia del paese, che suggeriva di «massimizzare la flessibilità del lavoro individuale» e di «adottare sistemi trasparenti di misurazione degli obiettivi e della produttività al fine di valutare la performance sui risultati e non sul tempo impiegato (meno misurabile e non rilevante nel lavoro agile)». Emblematico, per fare un altro esempio, è il titolo dell’intervista rilasciata il 23 agosto da Francesco Rotondi a La Stampa: “Bisogna adattare i contratti di lavoro e slegare gli stipendi dalle ore lavorate“.

[8] Disciplinato dall’accordo-quadro europeo sul telelavoro stipulato il 16 luglio 2002 tra Unice/Ueapme, Ceep e Ces e recepito con l’accordo del 9 giugno 2004 siglato da Confindustria, Confartigianato, Confesercenti, Cna, Confapi, Confservizi, Abi, Agci, Ania, Apla, Casartigiani, Cia, Claai, Coldiretti, Confagricoltura, Confcooperative, Confcommercio, Confinterim, Legacoop, Unci, e i sindacati Cgil, Cisl e Uil

[9] Cass. sent. n. 31137/2019.

[10] https://www.repubblica.it/politica/2012/02/01/news/monti_spread_scender_ancora-29171588/

[11]https://firenze.repubblica.it/cronaca/2014/10/26/news/leopolda_serracchiani_lavoro_dignit_uguaglianza_sono_anche_le_nostre_parole-99041202/

[12] Un tema che ho affrontato sul blog della rivista La Fionda, reperibile qui https://www.lafionda.org/2021/03/26/anche-il-sindacato-alla-corte-di-draghi-i-lavoratori-sempre-piu-soli/.

[13] Per un ulteriore approfondimento rimando a S. Balzano, Sulle insidie dello smart working e sul futuro del lavoro, in La Fionda, n. 2, 2021, p. 203-211.

[14] Per approfondire si v. R. Brunetta, M. Tiraboschi, Il lavoro agile o smart working nella pubblica amministrazione: prospettive e criticità, Working Paper n. 10, ADAPT University Press, 2021 https://moodle.adaptland.it/pluginfile.php/60594/mod_resource/content/0/wp_2021_10_brunetta_tiraboschi.pdf.

[15] https://www.ilgiornale.it/news/palazzo-chigi-spuntano-i-tornelli-anti-fannulloni.html

[16] https://www.regione.lazio.it/notizie/attacco-hacker

[17] Per un approfondimento rinvio a Pretendi il lavoro! L’alienazione al tempo degli algoritmi, GOG 2019.

[18] Mutuando l’efficace immagine di G. Preterossi a proposito del cosmopolitismo neoliberale, credo si possa affermare anche del capitalismo neoliberale come «pretende di fare a meno delle identità collettive» oppure «di fare dell’individualismo competitivo l’unica identità collettiva possibile» (G. Preterossi, Residui, persistenze, illusioni: il fallimento politico del globalismo, in Scienza e politica, V. 29, n. 57, 2017, reperibile in https://scienzaepolitica.unibo.it/article/view/7579).

Green New Deal, transizione energetica e gasdotti

Perché la sopravvivenza dell’orso bruno marsicano passa anche di qui

di Stefano Civitarese Matteucci

Premessa

Questo post prende le mosse dalla vicenda del gasdotto “linea Adriatica”, in particolare del suo tratto appenninico Sulmona-Foligno, che dovrebbe essere realizzato dalla SNAM nei prossimi mesi e anni per entrare in esercizio nel 2028. La vicenda si presta a vari piani di lettura ed è istruttiva per diverse ragioni. Le decisioni su queste infrastrutture sono il risultato dell’attività di una complessa rete di attori pubblici e privati su scala europea e nazionale di cui è estremamente difficile venire a capo per i non addetti ai lavori. Tale rete è caratterizzata da un’elevata commistione tra dimensione tecnica, spinte del mercato, lobbying, ruolo (rarefatto) dei decisori politici e partecipazione dei cittadini. Il settore del gas deve oggi misurarsi con la sfida epocale della transizione ecologica. Scendendo di livello – alla dimensione domestica – il piano di lettura diviene soprattutto quello del modo come certi interessi si misurano tra loro nel momento in cui devono essere tramutati in fatti (opere). Il procedimento per la valutazione di impatto ambientale (VIA) dovrebbe essere per antonomasia la sede in cui questo avviene. I fatti – almeno quelli che racconterò qui – mostrano che non è così.

Il racconto che segue comincia con alcune informazioni sulla “Linea Adriatica”. Da qui risale al quadro più ampio delle politiche energetiche e ambientali dell’Unione Europea, per tornare poi al rapporto tra la realizzazione di questa infrastruttura e gli “impegni” assunti dal Governo Italiano con il PNRR e suoi annessi e connessi. Bisognerà avere la pazienza di seguire tutto il filo per scoprire che c’entrano gli orsi con tutto questo.

La Linea Adriatica

Il progetto della “Linea Adriatica” (LA) vede la luce nel 2004. Nel Piano decennale di sviluppo della rete di trasporto di gas naturale 2021-2030 della SNAM si legge che

“il progetto comprende la costruzione di circa 430 km di nuova linea di diametro DN1200 lungo la direttrice Sud – Nord e il potenziamento dell’impianto di compressione di Sulmona per circa 33 MW. La Linea Adriatica è funzionale al trasporto di quantitativi di gas provenienti da eventuali nuove iniziative di approvvigionamento dalla Sicilia e dal medio Adriatico. La Linea Adriatica può essere vista come uno sviluppo che ha carattere di generalità e che consente di potenziare le capacità della direttrice di importazione da Sud, favorendo l’interconnessione di nuove iniziative di importazione che insistono sul Corridoio ad alta priorità delle reti energetiche “Southern Gas Corridor”. Gli interventi di potenziamento della rete (metanodotti) necessari per il trasporto dei nuovi quantitativi di gas sono al momento in corso di acquisizione dei permessi” (p. 68).

LA è una porzione di ciò che all’inizio si chiamava “Rete Adriatica” (RA).  Questa include sei tratti divisi in cinque “fasi funzionali”. Le prime due fasi, comprendenti i tre tratti Massafra-Biccari-Campochiaro-Sulmona – per 363 km –, sono state completate e il gasdotto è entrato in funzione dal 2012 sino a Biccari e dal 2016 sino a Sulmona. Quella che viene chiamata Linea Adriatica coincide con le altre tre fasi corrispondenti ai tratti Sulmona-Foligno-Sestino-Minerbio, quindi dall’Abruzzo all’Emilia-Romagna, passando per Lazio, Umbria e Marche.

La cartina mostra il tratto Sulmona-Foligno, lungo 167 Km, che attraversa la dorsale appenninica centrale e lambisce o attraversa vari parchi nazionali e regionali e aree protette di interesse comunitario. 

Tratto Sulmona Foligno del Gasdotto Adriatico

Nei pressi di Sulmona è anche prevista una centrale di compressione. Le centrali di compressione servono a “spingere” il metano lungo la rete. In Italia ve ne sono già 13, come si vede nella cartina qui sotto (pallini scuri). Nella cartina sono mostrati anche i centri di stoccaggio, il più grande dei quali si trova in Abruzzo, presso il fiume Treste.

La rete per il trasporto e la distribuzione del metano è gestita in netta prevalenza da SNAM, e in parte minore da Gasdotti Italia. La Snam possiede 32.643 km di metanodotti tra nazionali e regionali. La rete, stante la quasi totale dipendenza dell’Italia da fonti esterne, trasporta il metano importato da Norvegia e Russia, da una parte, e da Algeria e Libia, dall’altra. Nella rete circola inoltre il gas prodotto nei tre rigassificatori di Livorno, Panigaglia e Rovigo che convertono il metano liquido trasportato dalle navi.

Si tratta di un sistema che ha una capacità di distribuzione superiore alla domanda. Lo si deduce dai dati riportati nel piano decennale SNAM sulla “capacità massima di importazione (continua e interrompibile)” e la produzione nazionale in relazione alla domanda complessiva di metano al netto delle ulteriori quantità immagazzinate negli impianti di stoccaggio. 

Nella tabelle sottostanti (p. 28 Piano decennale) sono rappresentate, rispettivamente, la capacità continua d’importazione dai metanodotti in ingresso da estero e dagli impianti GNL (rigassificatori) e la produzione nazionale.

La più alta domanda di metano registrata negli ultimi anni, quella del 2017, è pari a 206,63 M Smc/g. Il quadro non cambia considerando le differenze nei consumi giornalieri tra inverno ed estate. I dati MISE registrano nel 2016-2017 un consumo medio giornaliero invernale di 317 milioni di mc., laddove quello medio estivo è di 139 milioni di mc.  Anche d’inverno rimaniamo ben al di sotto della “capacità portante” del sistema.

Se poi si allarga lo sguardo all’andamento della domanda di gas in un arco temporale più ampio, si nota una costante e decisa tendenza alla decrescita dal 2000 a oggi.

Questa tabella – tratta dai Bilanci Energetici Nazionali (Ben) del Ministero dello Sviluppo Economico (MISE) – indica i consumi interni lordi espressi in Miliardi di Smc (ove S sta per Standard e mc per metri cubi). 

Si comprende, pertanto, come non sia esercizio semplice giustificare programmi di espansione della rete, ancor più in considerazione – come si vedrà – dell’obiettivo della decarbonizzazione che investe il metano in quanto combustibile fossile.

Tornando a LA, la strategia della SNAM è stata sin dall’inizio quella di considerare ogni tratto della RA a sé stante dal punto di vista del procedimento di autorizzazione e dell’impatto ambientale, nonostante fossero stati sollevati dubbi sulla legittimità di questa sorta di “spacchettamento”. Ogni tratto è stato quindi sottoposto a distinti permessi e VIA. Un analogo approccio è stato in parte seguito anche per l’autorizzazione della centrale di Sulmona progettata come parte del gasdotto Sulmona-Foligno. Il progetto nel suo complesso è stato assoggettata a VIA (nel 2011), ma in seguito il procedimento per l’autorizzazione della centrale e quello per il gasdotto hanno seguito strade diverse. Al punto che la centrale di compressione è stata assentita nel marzo 2021 con autorizzazione integrata ambientale del MITE, che ha fatto seguito all’autorizzazione unica rilasciata dal MISE nel 2018. Il procedimento relativo al gasdotto Sulmona-Foligno è invece ancora pendente.

Nel suddetto Piano decennale si specifica che LA è inclusa nel TYNDP 2018 di ENTSOG, nella lista dei progetti che sono stati inseriti nel TYNDP 2020 e nei GRIP “Southern Corridor” e “South-North Corridor”. Inoltre, il progetto è nella lista PIC della Commissione Europea del 31 ottobre 2019, “con l’obiettivo di portare in Europa nuovo gas dalle riserve del Mediterraneo Orientale”. Di seguito cercherò di decifrare questa selva di sigle per il lettore non esperto. Esse si riferiscono alla dimensione europea dei metanodotti. Dimensione che gioca un ruolo determinante nelle decisioni nazionali. Basti notare il modo come il Consiglio dei Ministri, nella seduta del 22 dicembre 2017, effettui l’esame comparativo degli interessi a giustificazione della decisione di autorizzare la centrale di compressione di Sulmona nonostante l’avviso contrario di regione e comune. La tutela dell’ambiente viene contrapposta alla “rilevanza energetica e al carattere strategico dell’opera in quanto necessaria per la sicurezza degli approvvigionamenti a livello italiano ed europeo, essendo stata inclusa dalla Commissione Europea nella lista dei progetti di interesse comunitario”.

Il sistema del Regolamento UE TEN-E e le liste dei Progetti di Interesse Comune

Il Regolamento 347/2013 sul Trans-European Networks-Energy (TEN-E) determina come le istituzioni dell’Unione Europea scelgano i progetti relativi all’elettricità e ai combustibili fossili che beneficiano del supporto finanziario dell’Unione. 

Il principale obiettivo del TEN-E risiede nell’accelerazione dello sviluppo di infrastrutture a rete strategicamente prioritarie per l’interconnessione energetica tra i paesi europei. I relativi progetti sono chiamati Progetti di Interesse Comune (PIC), le cui liste sono aggiornate con cadenza biennale. Una volta presenti nella lista i progetti godono di una corsia accelerata e preferenziale di pianificazione e autorizzazione e possono beneficiare dei fondi stanziati nell’ambito del Connecting Europe Facility (CEF). In Italia questa disciplina di favore è prevista all’interno del testo unico sull’espropriazione per pubblica utilità in un capo apposito intitolato “disposizioni in materia di infrastrutture lineari energetiche”. Vi è un articolo che riguarda espressamente la rete nazionale dei gasdotti e che indica un tempo massimo di nove mesi per ottenere il permesso da parte del Ministero per lo sviluppo economico. Occorre, però, l’intesa con le regioni e gli enti locali. Se questa non si raggiunge, il potere risolutivo è attribuito al Consiglio dei ministri, integrato con il Presidente della Regione interessata, la cui decisione dovrebbe intervenire entro i successivi nove mesi.

Per essere classificati PIC, e beneficiare della corsia preferenziale, i progetti devono essere stati inclusi nel più recente Ten-Year Network Development Plan (TYNDP), piano decennale di sviluppo della rete. Dall’entrata in vigore del TEN-E la Commissione ha adottato quattro liste di PIC, l’ultima il 31 ottobre 2019. Ad aprile 2021 si è conclusa la fase di consultazione del pubblico relativa alla quinta lista, che sarà adottata dalla Commissione entro il 2021. Quest’ultima non differisce molto dalla lista del 2019. Dei ben 77 progetti su 162 riguardanti il gas, cinque interessano l’Italia. Tra questi, oltre all’interconnessione Malta-Italia e al gasdotto Poseidon tra Grecia e Italia di Edison e Depa, troviamo la Direttrice Sud. Si tratta del Southern Corridor di cui parla la SNAM nel suo piano decennale, vale a dire il potenziamento del TAP (Trans Adriatic Pipeline), i gasdotti Matagiola-Massafra e la Linea Adriatica. Il Southern Corridor è oggetto, a sua volta, di un GRIP (Gas Regional Investment Plan) attraverso cui il TYNDP viene articolato su base regionale. La sostanza è che LA continua a essere riproposta, praticamente dall’inizio, in ogni lista PIC.

Il ruolo chiave delle compagnie nel governo del sistema

È interessante guardare un po’ meglio a come effettivamente un progetto arrivi a conquistare lo status di PIC nell’ambito del TEN-E. Il punto focale consiste nella governance del sistema. Prima dell’entrata in vigore del TEN-E nel 2013, la scelta dei progetti di infrastrutture energetiche da sovvenzionare era frutto di pure decisioni politiche ispirate da singoli Stati membri. Il Regolamento puntava a rendere più obiettivo il processo di identificazione dei progetti strategici. Per farlo si decise di conferire allo European Network of Transmission System Operators for Gas (ENTSOG), Rete europea di gestori del sistema di trasporto del gas, un ruolo chiave in questo processo. Questa rete di operatori era stata istituita con il terzo “pacchetto energetico” del 2009. L’art. 5 del Regolamento (CE) n. 715/2009 prevede che “entro il 3 marzo 2011, i gestori del sistema di trasporto del gas presentano alla Commissione e all’Agenzia un progetto di statuto, un elenco dei membri e un progetto di regolamento interno, comprese le norme procedurali per la consultazione di altre parti interessate, della REGST del gas”.

Nell’ambito di TEN-E, a ENTSOG è affidato il compito di redigere, ogni due anni, il piano decennale di sviluppo della rete, il suddetto TYNDP. Questo piano contiene la visione della rete metanifera europea, con una serie di modelli e scenari in un arco ventennale. Abbiamo già visto che l’inserimento nel TYNDP è condizione perché un progetto divenga di interesse comunitario. ENTSOG ha natura ambigua. Secondo le categorie degli studiosi italiani di diritto amministrativo potrebbe, forse, essere classificato come ente pubblico associativo. In fin dei conti è, però, un’associazione di industrie del settore i cui interessi sono direttamente legati ai profitti del mercato del gas. Di ENTSOG fanno parte 45 società, tre sono italiane, tra cui la SNAM. Molte di queste società sono a loro volta parte di holding più ampie, con forti interessi sui mercati europei e internazionali. Nel consiglio direttivo siedono i rappresentanti di 12 delle società aderenti. È, pertanto, poco credibile la rappresentazione che ENTSOG fornisce di sé come un soggetto indipendente e distante dagli interessi finanziari dei propri membri. È curioso notare che nel registro UE sulla trasparenza ENTSOG è registrata come “organizzazione non-governativa che non svolge azione di lobbying”. ENTSOE, l’organizzazione corrispondente nel settore elettrico, viceversa, si è registrata tra gli “in-house lobbyists” e le associazioni nel campo del commercio, degli affari e delle professioni.

Del resto, circa l’80% dei progetti che vengono inclusi nella lista PIC appartengono a società aderenti a ENTSOG. Non è difficile comprendere perché molti dubitano della correttezza di un sistema di governo edificato su un caso quasi scolastico di conflitto di interessi. Il che diviene ancora più evidente nel momento in cui la politica generale dell’Unione, con il Green New Deal, punta all’abbandono delle fonti fossili. Diversi studi mostrano, peraltro, come, anche in passato, le proiezioni sui fabbisogni per giustificare la necessità di nuove infrastrutture fossero sovrastimate.

Nello stesso processo di approvazione dei PIC, ENTSOG mantiene un ruolo di primo piano. I progetti sono sottoposti dagli interessati a degli organismi compositi chiamati “Gruppi regionali”, istituiti per corridoi e aree prioritari. Di questi organismi fanno parte rappresentanti degli Stati membri, delle autorità di regolamentazione nazionali, degli operatori di trasmissione energetica, oltre che della Commissione, dell’Agenzia per la cooperazione fra i regolatori nazionali dell’energia (ACER) e di ENTSOG. È vero che il TEN-E precisa che i poteri decisionali all’interno dei gruppi sono riservati agli Stati membri e alla Commissione. Le alternative decisionali si basano, però, sulla visione e gli scenari elaborati – e presentati all’inizio delle riunioni del Gruppo – da ENTSOG. I progetti potenzialmente ammissibili alla selezione devono essere, d’altronde, sottoposti a un’analisi dei costi-benefici (CBA) basata su metodologie che sono elaborate, ancora una volta, da ENTSOG. La decisione finale sui progetti da includere è assunta dall’organo decisionale del Gruppo su proposta dei componenti del Gruppo, dopo avere acquisito il parere dell’ACER. La Commissione alla fine, esercitando il potere delegatole nel Regolamento ai sensi dell’art. 172.2 TFUE, si limita a ratificare le decisioni prese dai Gruppi. I relativi regolamenti biennali contenenti la lista dei PIC entrano in vigore se né il Parlamento europeo né il Consiglio sollevano obiezioni entro il termine di due mesi dalla data in cui essi sono stati loro notificati.

Verso la riforma del TEN-E …

Nel dicembre 2020 la Commissione ha adottato una proposta per un nuovo regolamento sulle infrastrutture energetiche transeuropee, sospinta dal fatto che TEN-E deve essere reso compatibile con il Green New Deal, ma anche probabilmente dalla necessità di affrontare i nodi del sistema. In un rapporto indipendente del gennaio 2020 il ThinkTank francese Artelys aveva concluso che le 32 infrastrutture metanifere incluse nella quarta lista PCI del 2019 non erano necessarie per la sicurezza degli approvvigionamenti. Rappresenterebbero, quindi, un potenziale spreco di risorse pubbliche nell’ordine di decine di miliardi di euro. Le infrastrutture esistenti sono, infatti, sufficienti per fronteggiare un’ampia varietà di scenari quanto alla domanda di gas nell’Unione Europea persino nel caso di estremi eventi avversi. Altri studi, come il policy paper elaborato da un gruppo di studiosi della Florence School of Regulation presso l’Istituto Universitario Europeo, evidenziano l’opportunità di rivedere significativamente i meccanismi di adozione e l’impostazione dei piani decennali, le metodologie dell’analisi costi-benefici e i poteri assegnati ai vari attori nel sistema. Per esempio, il fatto che vi sia un TYNDP per ogni tipologica di infrastruttura tende a massimizzare gli interessi di ciascun settore (gas, elettricità, etc.) ma non agevola certo la razionalizzazione del sistema in vista della riduzione del fossile. Secondo questi studiosi, comunque, i gasdotti dovrebbero ancora poter essere inclusi nelle liste PIC, sebbene la priorità dei finanziamenti dovrebbe essere assicurata ai progetti più in linea con l’obiettivo della decarbonizzazione. Questa posizione è condivisa dall’ACER – il regolatore europeo –, che però ritiene necessarie riforme più incisive della governance e delle procedure, per assicurare una valutazione tecnica neutrale e indipendente dei progetti. A tal fine propone un sostanziale trasferimento dei relativi poteri all’Agenzia e alla rete dei regolatori nazionali dell’energia a scapito del ruolo dei Gruppi regionali, di cui propone l’abolizione.

Nella proposta di nuovo regolamento della Commissione – che pure conferma in buona misura l’impianto esistente – si trovano comunque misure innovative proprio rispetto al gas. Nella relazione leggiamo che, sebbene l’infrastruttura energetica sia uno strumento chiave per la transizione energetica, “il regolamento RTE-E nella sua versione attuale non è … adeguato a sostenere il raggiungimento dell’obiettivo della neutralità climatica”. Infatti, “l’infrastruttura è un bene a lungo termine e pertanto deve essere coerente con la neutralità climatica e altri obiettivi ambientali, come il principio del “non nuocere” che informa il Green Deal, per consentire una decarbonizzazione rapida ed efficace in termini di costi del sistema energetico e, più in generale, dell’economia”. I metanodotti sono bocciati senza appello: sulla “questione cruciale … se mantenere o meno l’infrastruttura del gas naturale come categoria di infrastruttura ammissibile … l’esclusione … appare l’approccio più efficace e coerente”.

… con il Green Deal in standby? 

Il problema è che, nonostante il Green Deal e l’urgenza che ne connota gli obiettivi,  il nuovo approccio sembrerebbe rinviato al prossimo esercizio biennale. Come abbiamo visto, la proposta della quinta lista contiene una quantità di infrastrutture metanifere. Difficile non condividere a questo riguardo quanto osserva, tra gli altri, il Climate Action Network Europe sull’incoerenza politica tra l’approvare allo stesso tempo progetti che rendono più difficile la transizione verso la neutralità energetica e un nuovo assetto legislativo che bandisce tali progetti. Inoltre, molti di questi progetti erano stati già respinti in precedenti esercizi biennali e sono finanziariamente sostenibili soltanto grazie a ingenti sussidi pubblici.

In una lettera del 30 giugno 2021 sottoscritta da 71 parlamentari europei appartenenti ai gruppi dei Verdi, della Sinistra, dei Socialisti e Democratici, di Renew Europe e dei Popolari (uno), si chiede alla Commissione di assicurare che il processo decisionale relativo alla quinta lista PCI sia condotto alla luce degli obiettivi climatici fissati dall’Unione. A questo proposito i parlamentari richiamano l’art. 5.4 della c.d. European Climate Law, adottato dal Parlamento Europeo il 24 giugno 2021 e ora in attesa di essere definitivamente approvato dal Consiglio presumibilmente entro il 2021. Questo obbliga la Commissione a compiere una verifica sulla compatibilità di ogni nuova misura con l’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050. Nella lettera si osserva che nonostante le rassicurazioni della Commissione, la metodologia proposta per la valutazione dei progetti continui a non contemplare la sostenibilità come criterio obbligatorio. Pertanto, infrastrutture inquinanti possono essere incluse se ritenute necessarie per altre ragioni, tipicamente la “sicurezza degli approvvigionamenti”. Il medesimo problema si pone per i progetti inclusi nella quarta lista, neanche questi assoggettati obbligatoriamente a una valutazione della loro sostenibilità. Questi ultimi, tra cui LA, possono ora avanzare richiesta di finanziamento a valere sul fondo CEF che dispone di quasi 1 miliardo di euro.

La questione è stata anche oggetto di una decisione della Mediatrice Europea Emily O’Reilly del novembre 2020 in cui si deplora che che “progetti nel settore del gas siano stati inclusi in precedenti elenchi dei PIC senza che ne fosse stata adeguatamente valutata la sostenibilità”. La Mediatrice non ritiene comunque necessarie ulteriori indagini sulla base del fatto che la Commissione abbia

riconosciuto che la valutazione della sostenibilità dei progetti nel settore del gas candidati era stata meno che ottimale a causa della mancanza di dati e dell’inadeguatezza dei metodi. Nel corso dell’indagine, la Commissione ha comunicato alla Mediatrice che stava aggiornando il criterio applicato per valutare la sostenibilità dei progetti candidati all’inclusione nel prossimo elenco dei PIC, che la Commissione stilerà nel 2021. Tra l’altro, detto aggiornamento dovrebbe tenere conto, ai fini della valutazione dei progetti, del bilancio del metano e dell’anidride carbonica nonché degli impatti in termini di efficienza. Si prevede che il relativo indicatore esprima l’impatto previsto dell’infrastruttura sull’intensità complessiva dei gas serra derivanti dalla produzione energetica in un dato Stato membro dell’UE, nonché le emissioni correlate al funzionamento dell’infrastruttura stessa”. La suddetta “metodologia” smentisce, però, questa risoluzione.

Non essendo il European Climate Act vigente, la Commissione non è tecnicamente obbligata a utilizzare lo strumento della valutazione di impatto climatico. La mia sensazione è, quindi, che non seguirà l’invito contenuto nella lettera dei parlamentari. Rimane la questione politica. In teoria il Parlamento – e anche il Consiglio, quindi i governi – avrebbero la possibilità di imporre alla Commissione una soluzione coerente con il Green Deal. Staremo a vedere, ma temo che si tratti di vicenda troppo complessa e ancora distante dall’opinione pubblica per mobilitare una maggioranza anti-gas. Utilizzando le categorie di Bruno Dente nello studio delle politiche pubbliche, è improbabile che una scelta avversa alle potenti lobby del gas possa assicurare agli attori politici del complesso contesto decisionale una risorsa di consenso tale da favorire una decisione non meramente incrementale.

Il gasdotto Sulmona-Foligno

Scendendo per li rami al nostro gasdotto, molto di quanto sopra osservato serve a comprendere quanto accade alla scala “micro” dei tratti di rete nazionali. Ciò non toglie che si resti sorpresi del fatto che il gasdotto appenninico e la centrale di Sulmona siano stati progettati più di dieci anni fa e abbiano ricevuto una valutazione ambientale favorevole nel 2011, cioè in un’altra era. L’inclusione nelle liste PIC dovrebbe assicurare la rapidità di realizzazione, trattandosi di progetti strategici e prioritari. In realtà, anche per questo aspetto il gioco tra la dimensione europea e quella nazionale non è lineare. Molti dei progetti, abbiamo visto, sono riproposti di biennio in biennio, probabilmente in attesa di un’occasione favorevole. Il che risponde assai poco all’idea di un sistema disegnato per assicurare efficienza del servizio, concorrenza e tutela degli utenti.

LA è inclusa nel TYNDP con un non-FID status. Cosa significa? Che è un progetto per il quale a oggi non è stata assunta una decisione di investimento finale e che non risulta neanche prossimo a questo stadio. Nonostante questo, la Centrale di compressione di Sulmona ha ottenuto pochi mesi fa l’autorizzazione definitiva. Il gasdotto, per quanto si sappia, potrebbe seguire a breve, visto che la pratica giace nei cassetti del Consiglio dei Ministri da ben più dei nove mesi previsti dalla legge per la decisione finale. A questo proposito rientra in gioco, tuttavia, il suddetto elemento tattico. Si tratterà pure di progetti essenziali per la sicurezza degli approvvigionamenti e (a leggere i piani recenti di ENTSOG) persino per favorire la transizione ecologica, ma, se le condizioni di mercato e i sussidi pubblici non garantiscono un investimento profittevole, possono attendere.

Gli stessi documenti SNAM più recenti, in particolare il piano decennale, offrono giustificazioni generiche sulla necessità dell’opera. LA sarebbe

abilitante per più opportunità di nuove importazioni: l’Adriatica è infatti funzionale a importazioni dal Sud da differenti origini. A tal proposito, come descritto nel paragrafo “Procedura di capacità incrementale”, si segnala che è in corso una procedura, in coordinamento con i trasportatori a monte, per creare nuova capacità di trasporto nel punto di entrata di TAP”.

L’obiettivo originario del progetto era quello di “incrementare la capacità di importazione del gas metano dal Sud Italia”, in particolare per fronteggiare eventuali congestionamenti della rete esistente. Sempre nel piano decennale si legge che

la situazione più critica sulla rete di trasporto nazionale si ha in relazione al trasporto dei flussi di gas provenienti dallo stoccaggio del Fiume Treste. L’infrastruttura attuale non è infatti in grado di trasportare i flussi provenienti dallo stoccaggio nel caso in cui vengano erogate le capacità di punta, limitando di fatto un’importante fonte di flessibilità del sistema italiano”.

Si tratta di affermazioni che sfidano i fatti. Come sopra visto, gli stessi dati reperibili nei piani della SNAM mostrano che la rete è già oggi sovradimensionata. Si ripete sul piano domestico la tendenza riscontrata sul piano sovranazionale a gonfiare i fabbisogni. Ma la riportata giustificazione è ancora più sorprendente se si considera che il gasdotto, lo abbiamo notato all’inizio, entrerebbe in esercizio nel 2028, quando ormai dovremmo essere prossimi al primo “tagliando” del Green Deal nel 2030, la riduzione del diossido di carbonio del 55% rispetto ai livelli del 1990.

La notata incoerenza a livello europeo tra il consentire nuove infrastrutture metanifere e avviare l’attuazione del Green Deal, si ritrova tal quale a livello nazionale. 

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza

Nel PNRR, approvato dal Parlamento a fine aprile, troviamo, naturalmente, un ampio capitolo sulla transizione energetica. Il regolamento del NGEU (Next Generation EU), il fondo europeo da 750 miliardi approvato dall’UE in risposta alla crisi economica innescata dalla pandemia nel 2020, prevede che almeno il 37% del budget dei piani nazionali debba sostenere gli obiettivi climatici fissati dall’European Green Deal. Tra le sei missioni del PNRR alla “transizione ecologica” sono destinati quasi70 miliardi di eurodei circa 235 miliardi totali. La fetta più grande di questi soldi è finalizzata a favorire la transizione energetica verso fonti di energia rinnovabile e a rendere sostenibile la mobilità.

Consideriamo che tra il 1990 e il 2019 le emissioni di gas serra in Italia sono diminuite del 19%, passando da 519 Mt CO2eq (milioni di tonnellate di diossido di carbonio equivalente) a 418 Mt CO2eq. Negli ultimi anni l’Italia non è, però, riuscita a scendere al di sotto del livello raggiunto nel 2014. Per raggiungere l’obiettivo al 2030 di ridurre le emissioni del 55% rispetto al 1990 occorre arrivare a quasi 230 Mt CO2eq. Uno sforzo titanico considerando che negli ultimi 30 anni abbiamo registrato una riduzione di sole 100 Mt CO2eq circa. Per provarci è stata elaborata una strategia di decarbonizzazione, su cui si fonda il PNRR, contenuta neldocumento intitolato “Strategia nazionale di lungo termine sulla riduzione delle emissioni di gas a effetto serra” redatto a gennaio 2021 a cura di Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (oggi MITE), dello Sviluppo Economico, delle Infrastrutture e dei Trasporti e delle Politiche agricole, Alimentari e Forestali.

La tabella qui sotto, tratta dalla “Strategia”, nel rappresentare lo status quo e il bilancio energetico al 2050, non ha bisogno di commenti quanto al contributo che il gas naturale (in rosso nelle colonne) potrà ancora fornire.

Considerata dalla prospettiva odierna, la decisione prima ricordata del Consiglio dei Ministri assunta nel 2017 per approvare la centrale di compressione di Sulmona assume un tono parossisticamente anacronistico. Il CdM individuava l’interesse pubblico preminente nella sicurezza degli approvvigionamenti di gas a livello italiano ed europeo.  Lo sconcerto cresce se si considera che la SNAM aveva presentato, nel 2011, una richiesta di autorizzazione distinta per la costruzione della centrale per “assicurare la tempestività dell’aumento di capacità di trasporto”.  La centrale, dunque, i cui lavori potrebbero iniziare nelle prossime settimane, si giustificherebbe (oggi) per la necessità di assicurare, tempestivamente (l’altro ieri), un aumento della capacità di trasporto – che (forse) nel 2011 poteva sembrare plausibile, ma i dati smentivano già tale scenario – di una quantità di gas che diminuisce.

Insomma, una considerazione obiettiva dello stato dell’arte dovrebbe indurre le autorità italiane a porsi il problema di rivedere decisioni assunte in un contesto completamente mutato. Gli studiosi di diritto amministrativo sanno che la legge prevede espressamente la possibilità di tornare sui propri passi per “sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel  caso di mutamento della situazione di fatto  non  prevedibile  al  momento dell’adozione del provvedimento”.

Nel caso specifico della tratta appenninica centrale una fase di revisione riguarderebbe tecnicamente la sola centrale di compressione, visto che per il gasdotto non vi è un provvedimento finale. Al di là dei profili tecnici, però, vi è una dimensione di indirizzo politico riguardante le scelte di fondo di politica energetica, ecologica ed economica.

L’opportunità di una più comprensiva revisione si lega, peraltro, alla attendibilità di una VIA effettuata nel lontano 2011. A questo aspetto dedicherò l’ultima parte di questo racconto. La VIA – a differenza dell’intera filiera decisionale del gas, che dal centro europeo alle diramazioni nazionali suona una piatta melodia in cui il metano è il protagonista indiscusso – dovrebbe immettere nello spartito armonia e contrappunto. Fuor di metafora, il procedimento dovrebbe arricchirsi della fantomatica comparazione tra molteplici interessi pubblici, con quelli ambientali in prima fila.

Che la VIA sia importante è riconosciuto anche dall’ultimo atto della Commissione che approva la lista PCI nel 2019, in cui si trova un “considerando” assente nelle precedenti versioni: “l’inserimento dei progetti nell’elenco unionale non pregiudica l’esito dei pertinenti procedimenti di valutazione d’impatto ambientale e di rilascio delle autorizzazioni”. 

La valutazione di impatto ambientale del gasdotto e della centrale e l’orso come specie bandiera

La centrale e il gasdotto sono previste in aree sensibili da molteplici punti di vista. In un recente convegno tenutosi all’Università di Pescara sono stati messi in luce gli aspetti paesaggistici, archeologici, geologici, di rischio sismico (assai elevato), botanici e faunistici del sito e del lungo tracciato attraverso la dorsale appenninica. Basti pensare ai milioni di alberi che bisognerebbe abbattere e alle strade di penetrazione per portare i mezzi di scavo, i camion, etc.

Secondo i giudici amministrativi e la letteratura specialistica la sostanza della VIA risiede in un “attento e puntuale bilanciamento dei delicati e rilevanti interessi in gioco al fine di privilegiare la soluzione maggiormente funzionale al perseguimento del pubblico interesse e maggiormente idonea a non ledere inutilmente, o in maniera sproporzionata, gli altri interessi, pubblici e privati”. Nell’effettuare tale bilanciamento si ritiene vi sia un vero e proprio obbligo per l’amministrazione di considerare l’alternativa di non realizzare l’intervento in quanto inutile o poco utile o comunque utile in maniera insufficiente a renderlo prevalente sugli interessi contrapposti. Compulsando il corposo fascicolo del procedimento, nel parere istruttorio (pag. 9) si rinviene il passaggio relativo alla cosiddetta opzione zero. Vi si legge a cosa servirebbe il gasdotto, cioè quanto si trova nel piani SNAM, ma di bilanciamenti non v’è traccia. Per fare bilanciamenti, del resto, bisognerebbe conoscere approfonditamente gli oggetti cui i “delicati e rilevanti interessi” si riferiscono. Fatto questo, occorrerebbe poi dare un peso a tali interessi. Questo comporta inevitabilmente una scelta politica o, se si preferisce, di “valori”. Nella relazione istruttoria ci si limita a descrizioni generiche di vincoli e loro confini. Prevale l’approccio ‘legalistico’ tipico della nostra burocrazia.

Uno dei valori primari che questo tratto di montagne esprime è la presenza dell’orso bruno marsicano. Una presenza sporadica, che però va intensificandosi negli ultimi anni.

Due giovani orsi nel PNALM (foto S. Civitarese)

Anni fa il MITE – lo stesso che oggi ha rilasciato l’autorizzazione per la centrale vicino Sulmona nell’area di “Case Pente” – ha promosso un Piano d’Azione Nazionale per la Tutela dell’Orso bruno Marsicano (PATOM) per apprestare politiche di tutela di questa specie oltre gli storici confini del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise (PNALM). Il PATOM mira a coordinare tutte le amministrazioni comunque coinvolte nella gestione dell’orso, compresi gli enti parco e le regioni. Un piano di azione è un insieme di misure per assicurare la tutela e il ripristino della biodiversità mediante la gestione integrata delle specie e dei loro habitat. Adottare un approccio cosiddetto specie-specifico rappresenta in molte circostanze la soluzione più idonea per perseguire obiettivi più ampi di tutela degli ambienti naturali. Concentrare gli sforzi di conservazione su alcune specie a rischio di estinzione innesca un effetto a cascata su altre specie e sull’ambiente in cui vivono e, quindi, sulla biodiversità. Questo è l’approccio raccomandato dal Consiglio d’Europa per conservare le specie a più elevato rischio di estinzione. Le campagne di conservazione di alcune specie dotate di particolare carisma – c.d. specie bandiera – possono, inoltre, esercitare un impatto tale sull’opinione pubblica da facilitare l’avvio di azioni di sensibilizzazione per la tutela di interi ecosistemi.

La popolazione relitta di orso marsicano è ridotta a poco più di 50 esemplari. Gli studi su cui il PATOM si fonda dicono due cose fondamentali. Una popolazione di quelle dimensioni può sopravvivere solo se cresce numericamente. La soglia di 50 individui è considerata quella critica al di sotto della quale si verifica la cosiddetta depressione da incrocio. La popolazione di orsi può, però, crescere solo a condizione che il suo areale si espanda. La loro densità nei territori del PNALM, che costituisce il nucleo storico di presenza dell’orso marsicano, è infatti già satura. In uno studio del 2016 Paolo Ciucci & Altri hanno dimostrato che esistono nell’Appennino Centrale – in un areale che ricalca in buona parte quello della Linea Adriatica – le condizioni ecologiche per ospitare da 157 a 208 orsi. A condizione, naturalmente, che si adottino alcune misure. La prima è di evitare l’impoverimento o la distruzione dei biotopi, per esempio delle faggete, e poi di garantire che vi siano sufficienti “corridoi” che gli orsi possano usare per spostarsi, in particolare alla ricerca di nuovi territori. Negli ultimi anni sono stati registrati segnali che possono far pensare a una tendenza all’espansione dell’areale. Giovani esemplari sono stati, per esempio, segnalati nell’area del Gran Sasso a nord dell’Abruzzo e persino dei Sibillini, nelle Marche. Uno dei corridoi ecologici che gli orsi usano nei loro movimenti verso il Massicio della Majella passa nell’area di Case Pente, quella della centrale SNAM.

L’area di “Case Pente”

Come ha sostenuto Paolo Ciucci nel convegno sopra ricordato, una valutazione di impatto scientificamente corretta dovrebbe fondarsi su cartografie paesaggistiche specificamente elaborate per consentire di misurare gli effetti degli interventi umani sull’ecosistema. Cartografie di cui oggi il MITE dispone, nell’ambito del PATOM. Non va, inoltre, dimenticato che le infrastrutture che incidono sul paesaggio dell’orso (preso qui come specie ombrello nel senso suddetto) hanno effetti cumulativi, se non esponenziali. Mentre si decide, mediante il suddetto approccio legalistico, che il gasdotto non ha impatti negativi sull’ambiente, altre decine di progetti di strade, impianti sciistici, etc. continuano a deturpare il territorio, ricevendo singolarmente i loro bravi “nulla osta” ambientali.

Se il fondamento tecnico-scientifico delle valutazioni è essenziale, esso non dovrebbe servire a nascondere le scelte politiche. Sono queste, in ultima analisi, che stabiliscono se preferiamo che il nostro “sviluppo” si basi sulla tutela di un animale “bandiera” come l’orso o sulla realizzazione di una ennesima infrastruttura doppiamente impattante: una volta perché favorisce l’impiego di energia clima-alterante in contrasto con l’obiettivo della decarbonizzazione; una seconda volta perché deturpa territori naturalisticamente pregiati, che al punto in cui siamo dovremmo custodire come oro.

Un’ultima notazione. Al di là dell‘opportunità di un riesame di tutta la vicenda, è davvero possibile che si avvii la realizzazione di un’opera così importante sulla base di una VIA vecchia di 10 anni? La risposta è no. La disciplina applicabile alla procedura di valutazione del gasdotto LA nel 2011 prevedeva che

i progetti sottoposti alla fase di valutazione devono essere realizzati entro cinque anni dalla pubblicazione del provvedimento di valutazione dell’impatto ambientale. Tenuto conto delle caratteristiche del progetto il provvedimento può stabilire un  periodo più lungo. Trascorso detto periodo, salvo proroga concessa, su istanza del proponente, dall’autorità che ha emanato il provvedimento, la procedura di valutazione dell’impatto ambientale deve essere reiterata”.

Ebbene sì. La centrale è stata autorizzata quest’anno in base a una VIA scaduta. Gli studiosi di diritto amministrativo parlano in questi casi di illegittimità derivata. Erano tutti distratti a bilanciare gli interessi e non si sono accorti di questo dettaglio. In sostanza, è tutto da rifare. L’orso ci conta e le next generations pure. 

Registrazione del Seminario telematico “Le riforme orizzontali previste dal PNRR”

E’ disponibile la registrazione del seminario telematico Le riforme orizzontali previste dal PNRR, organizzato da Orizzonti del Diritto Pubblico e tenutosi il 16 giugno 2021 sulla piattaforma Zoom.

Hanno partecipato: Luisa Torchia (Università Roma Tre); Margherita Ramajoli (Università degli Studi di Milano); Antonella Bianconi (Dirigente Università di Perugia, già segretaria generale ANAC); Stefano Civitarese Matteucci (Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara); Alessandra Pioggia (Università di Perugia); Gianluca Gardini (Università di Ferrara); Leonardo Ferrara (Università di Firenze).