L’Amministrazione Regionale

Il giorno 22 novembre 2022, ore 17:00-19:00, in occasione della pubblicazione del volume di Gianluca Gardini e Claudia Tubertini, L’Amministrazione Regionale (Giappichelli 2022), si terrà un incontro nell’ambito del book-forum di CERIDAP (Centro di ricerca Interdisciplinare sul Diritto delle Amministrazioni Pubbliche).

L’evento si svolgerà sulla piattaforma Microsoft Teams.

Si pubblica la locandina, nella quale è indicato il link al quale iscriversi.

G. Gardini, C. Tubertini, “L’amministrazione Regionale”, Torino, Giappichelli, 2022

GIANLUCA GARDINI, CLAUDIA TUBERTINI, L’amministrazione Regionale, Torino, Giappichelli, 2022.

Questo volume nasce anzitutto da una constatazione relativa alla produzione scientifica riguardante il diritto regionale. Sin da quando si è iniziato a riflettere sulla fisionomia e sulle funzioni delle Regioni, ossia ben prima della loro effettiva istituzione, l’attenzione della dottrina italiana si è concentrata, in massima parte, sul profilo costituzionale di questi enti: il potere legislativo regionale, l’autonomia statutaria, i rapporti tra le fonti, la forma di governo, e più in generale i limiti derivanti dall’innesto delle Regioni all’interno di uno Stato che aveva da poco, e faticosamente, raggiunto la propria unità politica. La riprova di ciò si può ottenere da una rapida disamina della letteratura giuridica in tema di Regioni, in massima parte alimentata da studiosi di diritto costituzionale e, per tradizione, delimitata dagli argini robusti – quantomeno nel nostro sistema giuridico e universitario – del relativo settore disciplinare. In quest’ottica, le Regioni sono state percepite principalmente come articolazioni istituzionali della Repubblica, nel loro rapporto di permanente tensione con il centro e con la spinta centripeta che da esso proviene, nell’ambito di una più generale riflessione sulla forma di Stato italiana e sui suoi elementi differenziali rispetto ai più consolidati ordinamenti federali.

Questo approccio ha finito per lasciare parzialmente in ombra un aspetto che ha assunto crescente importanza: la natura di grandi apparati amministrativi delle Regioni, che occupano una parte rilevante, in termini di competenze e mezzi, della vasta galassia delle pubbliche amministrazioni. La crescita costante delle dimensioni dell’apparato amministrativo regionale diretto e indiretto, sintomo evidente di una torsione amministrativa rispetto al modello politico originario, è divenuto un elemento chiave, che non può più essere ignorato né sottovalutato per comprendere a fondo il funzionamento reale del nostro ordinamento. La progressiva affermazione delle Regioni come enti di amministrazione oltre che come centri di produzione legislativa, la loro attitudine a proporsi come rappresentanti degli interessi generali della comunità regionale, il rapporto (non sempre agevole) con gli enti territoriali minori, impongono all’analisi scientifica un diverso approccio. Il difficile equilibrio tra poteri autonomi, la complessità dei livelli di governo compresenti all’interno nel medesimo ambito territoriale, la formazione di nuove organizzazioni per la rappresentanza e la cura degli interessi delle collettività, rappresentano oggi la ricchezza e, al tempo stesso, uno dei principali fattori di complessità dell’ammini­strazione italiana.

Un simile quadro è ben diverso da quello che si offriva ai Costituenti al momento di disegnare la fisionomia delle Regioni. Questa diversità ci ha spinto a proporre un’analisi dell’ordinamento regionale che pone al centro l’amministrazione nelle sue principali declinazioni (principi, organizzazione, attività, relazioni intersoggettive), pur senza trascurare la forma di governo e i tratti costituzionali delle Regioni, tradizionalmente oggetto dell’attenzione dottrinale. L’analisi si è concentrata prioritariamente sul­l’esperienza delle Regioni a statuto ordinario, tenendo però in considerazione anche le principali differenze (e le relative criticità) derivanti dalla loro coesistenza con le Regioni speciali.

La seconda ragione che ha ispirato questo lavoro è legata all’ondata di critiche che, negli ultimi dieci anni, ha investito e continua a investire le Regioni italiane.

A far data dall’inizio della violenta crisi finanziaria che, nel secondo decennio del XXI secolo, ha travolto l’economia globale, tutte le autonomie territoriali, incluse quelle regionali, sono state sottoposte a un ripensamento radicale, e l’intero fenomeno che va sotto il nome di decentramento autonomistico è stato messo in discussione nella propria ragione di esistenza.

Sferzati dalla crisi, gli Stati sono stati costretti a operare drastiche misure di razionalizzazione, che hanno determinato una massiccia fuga di investimenti e fiducia dalle autonomie in direzione del centro, in particolare verso gli esecutivi. Il fenomeno non ha riguardato solo l’Italia, ma l’in­tera Eurozona: osservando le riforme messe in atto in paesi come Grecia, Portogallo, Spagna, Francia, si percepisce in modo evidente il movimento in senso ascensionale del potere pubblico, che risale i diversi livelli di governo nella speranza di incontrare nello Stato un soggetto politico fornito di una visione unitaria, in grado di contenere la frammentazione delle sedi decisionali e di esercitare un controllo più efficace sulla spesa. Il «dilagante neocentralismo della legislazione della crisi» ha trovato in Italia un terreno particolarmente fertile, e il recupero da parte dello Stato di molte politiche, sia congiunturali che strutturali, già devolute alle autonomie territoriali, è divenuta la “ricetta nazionale” per la cura dei problemi economici del Paese. Le Regioni sono uscite fortemente indebolite dalla crisi, sia sul versante finanziario che nella loro capacità di legiferare, al punto che oggi molti sostenitori e promotori del regionalismo teorizzano, se non la riconfigurazione in apparati amministrativi privi di potestà legislativa, quantomeno un forte ridimensionamento del ruolo politico delle Regioni.

La battuta di arresto subita dal decentramento autonomistico non sfuma con l’attenuarsi del ciclo della crisi economica, ma viene anzi ulteriormente acuita e aggravata dall’emergenza sanitaria che si accende nel 2020, per la diffusione del virus Covid-19. Sin dall’esordio della Pandemia, molti studiosi e commentatori, con la stessa fermezza con cui in passato avevano sostenuto il progetto autonomistico, hanno evidenziato l’inadeguatezza del­l’articolazione dei poteri tra centro e periferia, nonché le eccessive differenziazioni regionali e locali (non solo nella sanità), considerate un intralcio per la guida unitaria del Paese dinanzi alle emergenze.

Tenendo conto di questi elementi, questo volume cerca di riportare il dibattito sulle Regioni e sul regionalismo entro binari più certi, più oggettivi e meno condizionati dall’emotività che inevitabilmente è associata al verificarsi di fasi storiche avverse. Alzando lo sguardo oltre il dato congiunturale, si è provato a ripercorrere la parabola istituzionale di questi enti, mettendo a confronto il progetto originario con l’immagine attuale che le Regioni proiettano nella società. Il giudizio comunemente diffuso sulle Regioni e sulla classe politica regionale, questa è stata la premessa del nostro ragionamento, è spesso acriticamente negativo, e le Regioni vengono solitamente ricordate più come centri di spesa – e di spreco – che come enti cui sono ormai da tempo intestati la regia e lo sviluppo delle politiche territoriali.

In realtà, gli Autori del volume ritengono che non sia possibile immaginare un ritorno al passato, ad uno Stato centralizzato e uniforme che dall’alto governa i territori, amministra le risorse, gestisce i servizi pubblici, cura l’interesse delle persone che abitano le diverse aree del nostro Paese.. I singoli, le collettività, le istituzioni, oggi, non potrebbero più immaginare se stessi senza le Regioni, perché il regionalismo contiene un’intuizione formidabile, vitale, che riempie di significati nuovi il concetto di cittadinanza, intercettando il bisogno di fondo delle comunità di praticare la democrazia rappresentativa nei territori e a partire da essi. Il fatto che il “tipo di Regione” sin qui realizzato, tanto al Nord quanto al Sud del Paese, non abbia corrisposto alle aspettative, non autorizza a scartare questo modello di amministrazione, bollandolo come inutile, ma deve semmai spingere ad avviare un processo di riforma e rifondazione del regionalismo. L’effi­cienza dei servizi pubblici, l’effettività delle prestazioni e la soddisfazione dei diritti dipendono in gran parte dalla capacità delle Regioni di trasformarsi in enti di governo, di assumere la funzione di agenzie per lo sviluppo dei territori, di fornire un indispensabile contributo per l’innova­zione delle regole. Senza le Regioni, questo è il senso ultimo dell’analisi svolta, viene meno la possibilità di realizzare il concetto stesso di democrazia.

All’esito di un lavoro di ricostruzione storica e giuridica, che ripercorre gli ostacoli, esogeni ed endogeni, che l’attuazione delle Regioni ha incontrato in questi cinquant’anni di esistenza, vengono formulate alcune proposte per una possibile rifondazione del regionalismo, inteso come spirito più che come architettura istituzionale. La speranza che anima quest’opera è quella di riaprire un dibattito costruttivo sulle Regioni, che non abbia come obiettivo ultimo quello di assimilarle alle altre autonomie territoriali attraverso un processo di mero downsizing di funzioni e apparati, ma di riportare questi enti al­l’originario ruolo di regia del sistema territoriale, contenendone gli eccessi di burocratizzazione e valorizzandone al contempo il profilo rappresentativo e democratico.

Gli autori

Ripensare l’amministrazione pubblica al servizio del cittadino: problemi e prospettive

di Marco Bevilacqua

ABSTRACT: I recenti interventi del «governo legislatore»[1] testimoniano l’assenza di una vision di come dovrà essere l’amministrazione pubblica del futuro, e certificano invece l’apprensione di garantire l’efficiente gestione dei fondi derivanti dal NgEu. In luogo di una riforma in senso tradizionale, sarebbe opportuno un cambio di prospettiva affinché sia assicurato il diritto al buon governo.

L’esigenza di riformare la pubblica amministrazione costituisce, da almeno mezzo secolo, uno degli argomenti più discussi sia a livello mediatico che sul piano accademico. Ci si deve chiedere, invero, se l’amministrazione pubblica, così come è oggi strutturata, sia idonea a soddisfare i bisogni dei cittadini e soprattutto se, in situazioni emergenziali, sia in grado di fornire risposte celeri e adeguate.

Nel corso degli ultimi decenni si possono registrare diversi tentativi di apportare un miglioramento alla macchina dello Stato. Tuttavia è con la “riforma Bassanini” (1996-2001) che venne operato un significativo cambiamento dopo oltre cento anni di stazionamento della pubblica amministrazione. La riforma venne attuata in un contesto socio-politico in cui l’azione pubblica era governata dalla principale esigenza di ridurre il debito pubblico – che nel 1994 ammontava al 124,9% del Pil. La situazione drammatica di allora non sembra essere più grave di quella odierna, considerato che il rapporto debito pubblico/Pil per il 2020 si è assestato al 155,6%, mentre per il 2021 si è registrato un lieve calo (154,8%).

Con la riforma in parola si contribuì a gettare le basi per una rivoluzione culturale nella pubblica amministrazione perfomance-oriented, sostituendo all’approccio giuridico- formale, in cui contano solo regole e procedure, il servizio al cittadino-fruitore dell’attività amministrativa. Tuttavia, l’attività di ridefinizione del «dover essere»[1] d’intere organizzazioni pubbliche ha trascurato l’esigenza di accompagnarvi il riordino dei mezzi finanziari e la riqualificazione delle risorse umane.

La più recente “riforma Brunetta” del 2009 non fu così innovativa rispetto al precedente intervento normativo in quanto si limitò a recuperare princìpi già presenti nell’ordinamento, come quelli della performance e del merito, per porli nel prisma della responsabilità dei funzionari pubblici.

In parziale discontinuità con l’intervento normativo del 2009, la “riforma Madia” (2015-2017) confluì nel processo, particolarmente diffuso in Francia, detto di codificazione, di cui se ne rinviene traccia nei decreti di riordino dell’organizzazione amministrativa. Si pensi, ad esempio, al testo unico sulle società a partecipazione pubblica (d.lgs. n. 175 del 2016), al codice dei contratti pubblici (d.lgs. 50 del 2016) e al codice della giustizia contabile (d.lgs. n. 174 del 2016). Tuttavia, a causa dei numerosi dubbi interpretativi, la giurisprudenza amministrativa e contabile è intervenuta, a più riprese, per porvi rimedio.

Con il Next Generation EU e con il conseguente Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, l’impellenza di rafforzare la capacità amministrativa dell’apparato burocratico è divenuta ancora più cogente. In tale ottica, il governo ha adottato il decreto-legge n. 80/2021, convertito nella legge n. 113/2021, su cui si rinvia al contributo pubblicato in questo Blog, di Antonella Bianconi, Ancora su PNRR e PA: Il Piano integrato (?) di attività e organizzazione. Si tratta, tuttavia, di un intervento normativo dettato dall’esigenza di porre fine a un’idea di pubblica amministrazione assente, inerte, lontana dalle esigenze dei cittadini, che non corrisponde interamente al vero. 

Il principale problema che attiene al PNRR, ad avviso di chi scrive, è quello gestionale, non già sotto il profilo delle ingenti risorse derivanti dai fondi europei – che di per sé costituisce un nodo alquanto complesso da sciogliere – bensì soprattutto rispetto ai singoli ambiti delle riforme e investimenti programmati. Permangono, infatti, molteplici dubbi circa l’adeguata separazione della politica dai processi decisionali. Ciò rileva al fine di scongiurare il rischio che i governi del futuro possano “stravolgere” quanto già progettato in precedenza. Purtroppo questo rischio è più concreto di quanto si possa immaginare, per due ordini di motivi: da un lato, l’instabilità politica che caratterizza il nostro Paese da più di un decennio; dall’altro, il disegno del sistema di governance del PNRR, che prevede una cabina di regia politica al centro e due snodi tecnici: la Segreteria tecnica presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, a supporto diretto della cabina di regia politica e il Servizio centrale del PNRR presso il Ministero dell’economia e delle finanze, con un ruolo di coordinamento operativo generale e di punto di contatto unico con la Commissione europea.

In generale, le misure che il governo sta adottando in vista della gestione del PNRR sembrano siano volte a elidere la figura del «funzionario fannullone», in un inquadramento errato e miope dell’apparato burocratico.

Difatti, la burocrazia è una presenza inevitabile in ogni società organizzata. Si pensi all’iniziativa economica dei privati: se non si ponessero limiti e confini all’azione privata si rischierebbe di cadere in uno stato di anarchia in cui l’effettività della tutela dei diritti fondamentali risulterebbe fortemente compressa. Così descritta, la burocrazia assume la forma di controllo essenziale alla garanzia dei diritti fondamentali. 

Orbene, resta il problema, non di poco conto, di come riavvicinare l’amministrazione alle esigenze della collettività e non già a quelle del singolo amministrato.

Di recente, Carlo Cottarelli qualificò la pubblica amministrazione come un coacervo di procedure farraginose e complesse che contribuiscono a disegnare un apparato burocratico elefantiaco e lontano dai bisogni dei cittadini, avanzando alcune proposte di riforma. Ciò è evidentemente vero, ma non si può pretendere di riformare l’ordinamento burocratico con un solo intervento legislativo. La classe politica attuale risulta, in effetti, priva di una visione chiara di come dovrà essere la pubblica amministrazione del futuro. E ciò incide sull’esigenza di rimuovere gli ostacoli, economici e sociali, affinché possa essere garantita l’eguaglianza formale e sostanziale di cui all’art. 3 della Costituzione. 

Pertanto, quando si parla di riformare l’apparato burocratico in realtà si dovrebbe tenere a mente l’opportunità di garantire il diritto a una buona amministrazione, che implicitamente si ricava dalla lettura combinata tra l’art. 97, terzo comma, della Costituzione, l’art. 1, comma 1 della legge n. 241 del 1990, nonché l’art. 41 della Carta di Nizza. Queste norme debbono essere interpretate nell’ottica di assicurare certezza ed efficienza nei rapporti col cittadino. Più precisamente, la funzione pubblica assume il ruolo di depositaria della fiducia degli amministrati in quanto si ingenera automaticamente, nel rapporto Stato-cittadino, l’affidamento sull’impegno di perseguire l’interesse generale con imparzialità, efficienza, efficacia, economicità, ma soprattutto secondo l’etica ed equità.

Non può dirsi concretamente riuscito il tentativo di Franco Bassanini di portare al centro dell’attività amministrativa le esigenze del cittadino, in un contesto socio-economico-politico, come quello attuale, in cui il ritorno dell’intervento pubblico in taluni settori del mercato si è reso più pressante a fronte dell’inefficienze dei gestori privati.

Prima la crisi economica del 2008, poi quella dovuta all’emergenza epidemiologica da COVID-19, hanno dimostrato che taluni servizi debbono rimanere essenzialmente pubblici e che privatizzare non ne garantisce l’erogazione efficiente. Si pensi, a titolo esemplificativo, agli strumenti di partenariato pubblico-privato disciplinati dal d.lgs. n. 50 del 2016 (c.d. codice dei contratti pubblici): il fatto che gli enti locali possano affidare la gestione di un servizio essenziale a un privato, proponendogli a titolo di corrispettivo degli sconti fiscali (come nel baratto amministrativo) o altri “trattamenti di favore”, non è invero sintomo dell’inefficienza dell’azione amministrativa? 

Alla (rischiosa) tendenza a una massiccia privatizzazione dell’apparato burocratico debbono necessariamente corrispondere controlli più intransigenti sulla funzione pubblica assolta dai privati. Difficilmente si possono ritenere adeguati gli uffici di auto-controllo (o controlli interni) strutturati nell’ambito delle amministrazioni stesse, dato che sono ontologicamente privi di autonomia e indipendenza. 

In conclusione, l’efficienza della pubblica amministrazione non dipende solo da una riorganizzazione degli uffici, bensì anche dei mezzi finanziari. Sicché, per uscire dall’impasse, l’amministrazione non necessita di essere “distrutta” ma di essere riqualificata; non serve sostituire, semplificare o “tagliare”; occorre integrare. Ciò in quanto, le riforme di pubbliche amministrazioni da sole non basteranno: come anticipò Massimo Severo Giannini nel suo Rapporto del 1979, «occorrerà che [le riforme] siano accompagnate da modernizzazione delle leggi regolative dell’azione amministrativa[, affinché sia garantita] la pace tra pubbliche amministrazioni e cittadini. La pace, non la fiducia, perché questa non dipende da leggi».


[1] R. Cavallo Perin, Dalle riforme astratte dell’amministrazione pubblica alla necessità di amministrare le riforme, in Dir. pubbl., 1, 2021, p. 74.


[1] S. Cassese, Il governo legislatore, in Giorn. dir. amm., 5, 2021, p. 557 ss.

L’eccesso di velocità nelle recenti riforme legislative: la legge n. 156/2021 e la predisposizione del decreto sugli autovelox

di Benedetta Vivarelli

Un nuovo tassello va ad aggiungersi nel panorama della legislazione sulla circolazione stradale. Anzi, a dire il vero i tasselli sono due: uno vigente, l’altro ancora potenziale. Il riferimento è, da un lato, alla recente riforma normativa entrata in vigore a novembre del 2021 con la legge n. 156, che ha introdotto rilevanti novità nel Codice della Strada, e dall’altro lato al decreto di riforma degli autovelox, che dovrebbe vedere la luce nei primi mesi di questo nuovo anno.

Molteplici sono i profili di cambiamento introdotti dalla riforma, ma quello che emerge in prima battuta è l’implementazione dei principi ispiratori dell’intera disciplina del Codice della Strada: alla tutela della sicurezza sono adesso equiparate la tutela della salute delle persone e dell’ambiente nella circolazione stradale, quali “finalità primarie di ordine sociale ed economico perseguite dallo Stato” (art. 1 Codice della Strada). Ciò, tuttavia, non costituisce un’asserzione meramente teorica o ideologica, ma trova sfogo concreto in istituti e articoli ben determinati, modificati o riscritti per valorizzare e perseguire le finalità suddette.

Soffermandosi, in questa sede, sugli aspetti collegati al tema dell’eccesso di velocità, si osserva che la novella legislativa ha in parte modificato gli oneri a carico degli enti coinvolti nell’accertamento delle relative violazioni (art. 142, comma 12quater Codice della Strada).
Più nel dettaglio, agli enti locali, al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e al Ministero dell’Interno è adesso imposta la pubblicazione telematica della relazione annuale sui proventi derivanti da sanzioni per violazione di limiti di velocità (oltre che più in generale sui proventi derivanti dall’accertamento di violazioni del Codice della Strada); la stessa relazione deve altresì illustrare gli interventi connessi all’utilizzo di tali risorse.

Nello stesso senso rileva la nuova definizione di utente vulnerabile della strada (art. 3, comma 1, n. 53bis Codice della Strada), comprensiva di categorie di soggetti a cui il Legislatore dedica una tutela particolare dai pericoli connessi alla circolazione stradale.
Come spesso accade in altri settori, le anzidette modifiche derivano, in larga misura, dall’ordinamento europeo, ove il problema della sicurezza stradale assume sempre più rilievo anche in un’ottica di integrazione ed omogeneità tra gli ordinamenti degli Stati membri.

L’inosservanza dell’obbligo suddetto comporta una riduzione del 90% della percentuale dei proventi spettanti agli enti locali.
Si tratta, in linea generale, di una modifica diretta a incrementare gli obblighi di trasparenza delle pubbliche amministrazioni nei confronti dei privati. Tuttavia, nel settore specifico in esame, a tale riforma può essere attribuito un significato ulteriore e più forte: l’accesso da parte di ogni cittadino ai dati sui proventi di violazioni dei limiti di velocità configura una volta per tutte i controlli, specie se derivanti da autovelox, quali strumenti a tutela della sicurezza stradale.

Si tenga conto, in questa prospettiva, che per legge le somme connesse alle sanzioni per violazione dei limiti di velocità devono essere impiegate dagli enti per interventi di manutenzione e messa in sicurezza delle infrastrutture stradali e dei relativi impianti, oltre che al potenziamento delle attività di controllo.

Ognuno, pertanto, con il semplice accesso al sito internet dell’ente (o del Ministero) potrà verificare l’effettivo impiego delle cifre anzidette secondo le destinazioni di utilità pubblica imposte dalla legge.

E veniamo adesso all’altro tassello citato, e quindi alla novità de jure condendo.
Dopo anni di attesa il Governo ha recentemente annunciato l’elaborazione entro i primi mesi del 2022 di un decreto sui sistemi di rilevazione automatica della velocità: la bozza dovrà essere sottoposta alla valutazione della Conferenza stato-città-autonomie locali.
Il testo normativo è ancora in fase di scrittura, ma il Ministero delle Infrastrutture ha anticipato alcuni dei principali profili di intervento.
In via preliminare è prevista una valutazione di adeguatezza dei limiti di velocità vigenti, ad opera degli enti gestori stradali: tale operazione sarebbe prodromica all’installazione dei dispositivi automatici di rilevazione della velocità.
Per quel che attiene, più specificamente, gli autovelox, l’intervento normativo si propone di individuarne in modo chiaro e omogeneo le regole di collocazione e di utilizzo.
Secondo le prime anticipazioni ministeriali, il posizionamento delle postazioni fisse di rilevazione della velocità dovrà essere concertato con il coordinamento tra i diversi organi di polizia preposti al controllo per scongiurare sovrapposizioni, interferenze e pluralità di sanzioni nell’ambito del medesimo tratto stradale.
In quest’ottica, il decreto avrà l’obiettivo di superare le attuali criticità connesse alla collocazione degli autovelox, peraltro oggetto di ampio contenzioso giudiziario.
Ad oggi, queste sono le sole informazioni che sono emerse.

A uno sguardo attento, tuttavia, non può sfuggire che le criticità dei sistemi di rilevazione automatica della velocità non sembrano limitarsi all’installazione degli apparecchi, ma investono, altresì, le procedure di approvazione e omologazione, nonché la disciplina sulla segnalazione degli stessi.

Quanto al primo profilo, l’installazione di nuovi dispositivi di misurazione della velocità segue una procedura eccessivamente complicata: è prevista infatti l’adozione di un decreto prefettizio con cui individuare le strade, diverse dalle autostrade o dalle strade extraurbane principali, in cui installare i dispositivi. E ciò sulla base di parametri quali il tasso di incidentalità, le condizioni strutturali, plano-altimetriche e di traffico per le quali non è possibile il fermo di un veicolo senza arrecare pregiudizio alla sicurezza della circolazione, alla fluidità del traffico o all’incolumità degli agenti operanti e dei soggetti controllati.

Quanto al secondo aspetto, gli apparecchi dedicati alla misurazione della velocità sono solitamente approvati e non omologati dal Ministero e tale circostanza contrasta con la legislazione che sul punto presenta ambiguità interpretative. Sulla distinzione tra omologazione e approvazione si è peraltro formato un ampio contenzioso, fondato sull’invalidità delle sanzioni elevate da dispositivi di misurazione della velocità non omologati, ma semplicemente approvati. Quanto, infine, alla segnalazione, il vigente obbligo di presegnalamento e visibilità delle postazioni di controllo per la misurazione della velocità costituisce una limitazione all’effetto deterrente e preventivo del controllo della velocità. Oltre a ciò, è la stessa formulazione delle previsioni relative alla segnalazione ad aver generato un ampio contenzioso: in esse sono infatti disciplinati nei dettagli le caratteristiche (grafiche, di misura, di collocazione) dei segnali, nonché le distanze tra i segnali e i dispositivi. Ogni minima divergenza da siffatti modelli legali comporterebbe illegittimità della sanzione.

Con la conseguenza che i contenziosi instaurati – e la relativa giurisprudenza che va consolidandosi – finiscono per tutelare chi, pur avendo violato le regole della circolazione stradale, sfrutta a proprio vantaggio i cavilli della legge. Un risultato paradossale e palesemente in frizione con le finalità di sicurezza preventiva a cui è improntato il Codice della Strada.

Emerge, dalle brevi notazioni esposte, che il comune denominatore su cui sarebbe auspicabile un intervento legislativo è soprattutto l’estrema complessità e stratificazione delle discipline e delle procedure attualmente vigenti.
Non resta quindi che attendere l’annunciata emanazione del decreto ministeriale, con l’auspicio che con esso vengano risolte le più gravi problematiche attuali che rendono complesso l’utilizzo degli autovelox per un’effettiva funzione di tutela preventiva.

Le immagini dei beni culturali: niente di nuovo sul fronte dell’uso dopo il recepimento delle direttive sul diritto d’autore e sul riuso dei dati pubblici

di Ilde Forgione

Il tema dell’uso delle immagini dei beni culturali è stato oggetto di un recente e vivace dibattito, che ha visto contrapporsi due diverse impostazioni teoriche, le cui ricadute pratiche risultano piuttosto significative in punto di libertà economiche, diritto alla cultura e gestione economica dei beni. Secondo una prima impostazione l’immagine digitale dei beni culturali costituisce essenzialmente una proiezione ideale dei beni oggetto di proprietà pubblica, ragione per la quale anche l’immagine appartiene all’ente titolare della collezione e, come tale, è sottoposta alle medesime regole sia di tutela, rispetto a potenziali usi inappropriati e abusivi, sia di gestione e valorizzazione. In quest’ottica il museo è visto come un operatore economico che soggiace ad obblighi di gestione in equilibrio del bilancio e che si pone anche lo scopo di valorizzare l’immateriale economico dei beni. Il corrispettivo, in particolare, rappresenta una forma di contribuzione alla copertura dei costi, ma anche di funzionamento degli Istituti, tutela dei beni e ampliamento dell’offerta di fruizione. In quest’ottica, i costi sostenuti dal privato che intenda sfruttare l’immagine del bene pubblico rimangono all’interno del sistema Paese, contribuendo in modo indiretto alle essenziali funzioni attribuite dall’art. 9 della Costituzione ai beni culturali.

La seconda impostazione, invece, rivendica l’esistenza di un diritto soggettivo al patrimonio culturale, ponendo l’accento sull’accesso gratuito dei cittadini, anche quello virtuale da remoto. Stando a questa visione, l’uso delle immagini digitali dei beni sarebbe in grado di favorire lo sviluppo economico, stimolando la creatività, ragione per la quale non dovrebbe soggiacere ad alcun prelievo economico.

Recentemente, il recepimento della direttiva 2019/790, sul diritto d’autore, e della direttiva 2019/1024, sull’apertura dei dati e riutilizzo dell’informazione del settore pubblico, ha offerto al legislatore nazionale l’occasione per fare il punto sulla dibattuta questione circa l’opportunità di liberalizzare tout court l’uso delle immagini del patrimonio culturale. In tali occasioni il legislatore ha confermato il sistema del Codice dei beni culturali e del paesaggio, il quale differenzia il regime a seconda della finalità dell’uso. Le disposizioni codicistiche in punto di riproduzione e divulgazione delle immagini di beni culturali si pongono in linea con l’orizzonte tracciato dalle direttive europee, ragione per la quale il legislatore ha ritenuto di mantenerle ferme.

Per quanto riguarda il recepimento della direttiva “copyright”, il d.lgs. n. 177/2021 inserisce nella legge sul diritto d’autore, n. 633/1941, l’art. 32 quater, il quale dispone che, per i beni culturali, restano ferme le disposizioni del Codice in materia di riproduzione. Per tale via, si conferma in modo indiretto l’impianto precedente, rimandando alla disciplina di settore per le norme in materia di uso delle immagini dei beni culturali. Introducendo l’art. 32 quater si è ritenuto opportuno mantenere un doppio binario per l’uso delle immagini dei beni culturali, seguendo la ripartizione prevista dall’art. 108 del Codice, che distingue a seconda della finalità.

Il recepimento si pone pienamente in linea con l’approccio europeo; è sufficiente un rapido riscontro per verificarlo. L’art. 14 della Direttiva 2019/790, prevede che alla scadenza della durata di protezione di un’opera delle arte visive, la riproduzione di tale opera non sia soggetta al diritto d’autore, senza differenziare tra gli scopi delle riproduzioni, potendo includere sia attività a scopo di lucro che prive di esso. Tuttavia, lascia al decisore politico nazionale la rimozione dei limiti alla riproduzione dei beni culturali, poiché le norme interne di tutela di tali beni non sono poste a salvaguardia del diritto d’autore, bensì dei beni culturali quali beni pubblici.

La tesi che spinge per la liberalizzazione totale fa leva sulla formulazione dell’art. 14, che appunto non distingue tra le finalità dell’uso, ma anche sul Considerando n. 53, secondo il quale la circolazione di riproduzioni di opere di pubblico dominio favorisce l’accesso alla cultura e al patrimonio culturale. La previsione viene letta in modo coordinato con il Considerando n. 49 della Direttiva 2019/1024, il quale afferma il principio per cui i materiali in pubblico dominio rimangono tali una volta digitalizzati. Tuttavia, come dichiarato espressamente dall’art. 107 comma 1 del Codice, la disciplina codicistica è autonoma rispetto a quella in materia di diritto d’autore; la ragione di tale reciproca autonomia sta nella diversa natura degli interessi protetti: privati nel caso della normativa autoriale, e pubblici nel caso dei beni culturali.

La presa di posizione del legislatore è confermata anche dal d.lgs. n. 200/2021, di recepimento della direttiva 2019/1024 sul riuso dell’informazione del settore pubblico. In particolare, seppure dalle disposizioni della Direttiva emerge l’importanza rivestita dai contenuti digitali per l’evoluzione verso una società basata sui dati (Considerando nn. 11 e 12), con la specificazione che raccolte del patrimonio culturale, con i relativi metadati, possono rappresentare “una base per i prodotti e servizi a contenuto digitale e hanno un enorme potenziale per il riutilizzo innovativo in settori quali la formazione e il turismo” (Considerando n. 65), ancora una volta, simile impostazione non si traduce in un vincolo per gli Stati membri a rendere libero e aperto ogni tipo di dato e per ogni finalità. Infatti, lo stesso legislatore europeo prevede la possibilità che il riutilizzo sia sottoposto a condizioni, purché esse siano “obiettive, proporzionate, non discriminatorie e giustificate sulla base di un obiettivo di interesse pubblico” (art. 8).

Quanto alla tariffazione, la regola generale della gratuità del riutilizzo (art. 6, par. 1) viene esplicitamente ribaltata nel caso di musei, biblioteche e archivi pubblici (art. 6, par. 2 lett. b)), con un impianto che rimanda a quella del Considerando n. 53 della Direttiva 2019/790, nella parte in cui si afferma che il venir meno del diritto d’autore “non dovrebbe impedire agli istituti di tutela del patrimonio culturale di vendere riproduzioni”. Qualora sia richiesto il pagamento di un corrispettivo per il riuso, questo non può superare nel corso di un periodo contabile adeguato i costi di raccolta, produzione e in genere di gestione, “maggiorati di un utile ragionevole sugli investimenti”, “per non ostacolare il proprio normale funzionamento” (art. 6, par. 5 e Considerando n. 38 della direttiva 2019/1024). In sostanza, le direttive confermano che per il riuso da parte dei terzi delle risorse culturali non vale la regola generale della gratuità e, anzi, oltre a comprendere la copertura dei costi, può essere prevista una remunerazione dell’investimento a tali fini effettuato. A rafforzare tale convinzione contribuisce pure il Considerando n. 46, il quale prevede significativamente la possibilità di adottare “tariffe differenziate per il riutilizzo a fini commerciali e non commerciali”.

Tale approccio è stato pienamente condiviso dal legislatore nazionale; quest’ultimo ha inserito nel corpo del d.lgs. n. 36/2006, sulle modalità di riutilizzo dei dati pubblici, l’art. 12 bis, dedicato ai “dati di elevato valore”, tra i quali rientrano quelli delle Istituzioni culturali. L’art. 12 bis, riprendendo la formulazione dell’art. 6 della direttiva, conferma il ribaltamento del paradigma della gratuità quando si tratta di dati detenuti da biblioteche, musei o archivi, proprio riconoscendone l’elevato valore, anche economico, e la conseguente necessità di valorizzazione dell’immateriale economico.

Nel recepire la direttiva, dunque, il legislatore si è mosso in modo coerente con il resto del panorama nazionale ed europeo, in particolare con il d.lgs. n. 177/2021, mostrando di seguire un filo conduttore unitario, da individuarsi nel rinvio al Codice per quanto riguarda la disciplina dei beni culturali in quanto normativa di settore e, in particolare, nella possibilità di adottare tariffe differenziate a seconda della finalità dell’uso.

Nel percorso seguito dai decreti nn. 177 e 200 si può cogliere sia un’attenzione verso i cittadini e gli studiosi, inclusi gli editori scientifici, che possono utilizzare liberamente o gratuitamente le immagini; sia l’attenzione alla necessità di un’azione amministrativa “in attivo”, attenta alle esigenze di bilancio e di sostenibilità del debito pubblico, connesse allo sfruttamento del valore immateriale economico dei beni culturali. D’altra parte, ben potendo la messa a disposizione delle immagini dei beni ricondotta alla prestazione di servizio di valorizzazione, anche economica, questa partecipa del medesimo regime, improntato a onerosità o corrispettività.

L’aver lasciato inalterata la disciplina codicistica costituisce dunque una scelta di politica legislativa che mira a bilanciare due opposti interessi: quello alla diffusione della conoscenza del patrimonio e quello alla gestione economica delle utilità derivanti dai beni, la quale consente di reinvestire i proventi nella più efficiente ed efficace gestione della cultura e nel miglioramento dei servizi all’utenza; la liberalizzazione totale, al contrario, finirebbe unicamente per creare un privatissimo lucro. Per tali ragioni, la lettura coordinata delle disposizioni esaminate deve interpretarsi nel senso che il venir meno della tutela autoriale per le opere o la necessità di favorire il riuso dei dati pubblici non impongono agli Istituti culturali la gratuità dell’uso delle immagini da parte di esterni. In definitiva, la soluzione prospettata dal legislatore nazionale nel recepimento delle direttive citate non solo è valida giuridicamente, ma risponde ai dettami dell’Unione europea, anche sul piano della necessità di attuare una gestione attenta e oculata delle risorse pubbliche, incluse quelle culturali.

Un divertente viaggio nella burocrazia nazional-popolare che non farò mai più

di Gianluca Gardini

Alla Cortese attenzione del Direttore Generale

per la formazione universitaria, l’inclusione e il diritto allo studio,

Dott.ssa M. G.

MIUR – Ministero dell’università e della ricerca

Oggetto: Ricorso in via gerarchica contro il silenzio-inadempimento dell’Ufficio VI– EX DGSINFS, Direzione generale degli ordinamenti della formazione superiore e del diritto allo studio.

Gentile Direttore,

mi permetto di rivolgermi a lei dopo aver sperimentato, a più riprese e in un arco temporale ormai prossimo ai sei mesi, il contatto diretto con il “regime burocratico”, caratterizzato da insondabilità e opacità dell’agire pubblico.

La sensazione che ne ho riportato è quella tipica di chi si trova a vivere, in prima persona, i topoi della letteratura anti-utopica, universalmente noti (dal Castello di Kafka al Grande fratello di Orwell). Novello Joseph K., dopo aver insegnato per decenni a studenti e funzionari i pericoli di una burocrazia nascosta, incomprensibile, alienante e disumanizzante, ho potuto toccare con mano – quasi che la sorte mi volesse concedere, dopo tante prediche, l’opportunità di arricchire l’analisi teorica con l’esperienza pratica – lo stretto legame che unisce segretezza e potere, di fronte al quale il cittadino torna ad essere suddito e precipita, d’un sol colpo, indietro di due secoli.  Un potere minore, sia chiaro, poco più che borgataro, esercitato in virtù di una conoscenza “propria” di qualche funzionario che male accetta la condivisione delle informazioni ed è spinto ad operare in un ambiente “opaco”, dove il segreto non è più segreto di Stato di massonica memoria ma, più banalmente, segreto di ufficio.

Purtroppo mi rincresce doverle dire, giunto a questo punto della narrazione, che i funzionari al centro di questa anacronistica e odiosa vicenda di arcana imperii sono incardinati in una delle strutture da lei dirette (Direzione generale degli ordinamenti della formazione superiore e del diritto allo studio, Ufficio VI – EX DGSINFS), e sono quindi posti alle sue dirette dipendenze. Di qui la mia richiesta accorata affinché lei si attivi per risolvere, grazie al suo ruolo e soprattutto al buon senso, quello che non è solo mio problema, ma di tutti i cittadini italiani.

Il punto di fondo di questa missiva, infatti, non è tanto sbrigare una questione personale, quanto mondare l’immagine di inutilità che il Ministero dell’Università (a causa di alcuni elementi che, sono sicuro, essere in via di estinzione in una pubblica amministrazione che si appresta alla sfida europea del PNRR) proietta attualmente all’esterno: presso la comunità dei docenti che rappresenta e presso la società tutta, che pretende oggi un’amministrazione efficiente, trasparente, collaborativa e persino digitale. Un’immagine davvero inaccettabile in periodi di transizione come quello che stiamo attraversando, dove tutte le energie sane – soprattutto quelle pubbliche – devono essere rivolte al cambiamento e nessun sospetto dovrebbe scalfire l’ottimismo necessario alla ripresa.

La vicenda è piuttosto semplice, ma non per questo meno spiacevole. In data 5 agosto 2021 scrissi all’ Ufficio sopra menzionato per richiedere certificazione o copia del mio titolo di Dottore di ricerca (in Diritto pubblico, VI ciclo), ottenuto nel lontano 1995 presso la sede amministrativa dell’Università di Bologna, con esame finale sostenuto presso l’Università di Pisa. La richiesta traeva origine da un invito dell’Università Cattolica di Lima, Perù, che mi proponeva di insegnare ad un master online da essa organizzato, e per formalizzare la mia nomina a docente richiedeva – pena impossibilità di procedere – un attestato ufficiale della mia qualifica di Dottore di ricerca. Un bell’esempio di complessità sudamericana, parente stretta del realismo magico, che rende meravigliosamente intricata la vita sotto l’equatore, visto che il titolo di professore ordinario supera e contiene quello di Dottore di ricerca. Ma tant’è, avevo promesso da tempo ai colleghi la mia disponibilità ad insegnare nel Master.

Avendo smarrito, nel corso degli anni e dei numerosi traslochi fatti, il certificato sostitutivo a suo tempo ritirato presso la biblioteca di Firenze, a fine agosto 2021 mi decisi a scrivere all’Ufficio postlaurea del MIUR per sapere se, cortesemente, fosse possibile spedire via posta la pergamena ufficiale (previo pagamento dei bolli e spese di spedizione, naturalmente) o una attestazione di qualunque genere dalla quale risultasse il mio titolo di dottore di ricerca. “Spedire”, ricordo bene che scrissi, non forgiare nell’acciaio degli altiforni di Arcelor.

Da quel momento inizia il mio viaggio surreale nei recessi della burocrazia ministeriale, un’esperienza kafkiana d.o.c. di alienazione e frustrazione dove l’uomo medio, normodotato, prova a confrontarsi con un apparato che mentre lo invita, contemporaneamente lo allontana, fino ad annichilirlo. La riporto, di qui in avanti, utilizzando il tempo presente, in spregio alla consecutio, perché le sensazioni spiacevoli che ne ho tratto sono ancora vivide nella mia memoria.

Non è esagerato parlare di annichilimento di fronte alla prima reazione dell’“Ufficio VI” (sic! senza alcuna firma o responsabile del procedimento indicati in calce) che, a fronte della mia richiesta di certificare in qualche modo l’esistenza del mio diploma di Dottorato, risponde a stretto giro quanto segue:

“Gent. prof. Gardini,

per il ritiro del diploma di dottorato ma anche per il rilascio di un certificato da parte di questo ufficio, è necessario presentare il certificato sostitutivo rilasciato dall’università sede dell’esame finale. In caso di smarrimento del documento può essere richiesta una copia o l’emissione di un nuovo certificato da parte dell’università”.

Incoraggiato da questa pronta ancorché incomprensibile risposta, scrivo allora altrettanto tempestivamente all’Università di Pisa, sede amministrativa presso cui sostenni all’epoca l’esame finale, per sapere se potesse lei, e non il Ministero, emettere una copia del mio titolo di dottorato. L’università di Pisa, facendo sfoggio di logica ineccepibile, mi risponde che, per scelta coerente ai principi di semplificazione e sburocratizzazione, da anni non rilascia più certificati o attestazioni da presentare ad altre pubbliche amministrazioni (in questo caso il Ministero), in quanto sostituiti completamente dalle autocertificazioni. E, per suffragare questa sua decisione, mi invita leggere alcune disposizioni del Codice della documentazione pubblica (DPR 445/2000), a cui, nella mia qualità di docente di diritto amministrativo, avrei peraltro dovuto pensare da solo.

Non mi resta altro, di fronte a tanta bassaniniana razionalità, che far presente all’Ufficio VI la situazione di stallo (l’università non fornisce al Miur informazioni che quest’ultimo dovrebbe già avere in pancia) e allego via mail la pagina web in cui la posizione dell’Università di Pisa è illustrata con precisione disarmante. Chiedo poi cortesemente all’Ufficio VI, quasi supplicandolo (o supplicandola, non conoscendo il genere preciso dell’umano alla guida della macchina) di aiutarmi ad uscire da questo vicolo cieco, apparentemente senza uscita. La mia tattica di ripiegamento consiste, da questo momento in poi, nel fare appello al buon senso dell’innominato funzionario/a che si cela dietro l’istituzione: chiedo pertanto che, dopo aver verificato la mia identità (anche con SPID, se necessario) e il mio curriculum accademico, l’Ufficio mi consenta di ottenere una copia del Diploma di dottorato anche in mancanza di un certificato sostitutivo che, a questo punto, non mi è più possibile produrre. In chiusura, per aggiungere una nota costruttiva (e anche virile) a una missiva dal tono sostanzialmente remissivo e prono, mi permetto di suggerire all’Ufficio VI di indicare sempre un nome in calce alle risposte, come prevede la normativa sul responsabile del procedimento (legge 241/90), onde evitare al cittadino di scontrarsi con un’entità indefinita e consentirgli una maggiore personalizzazione nelle relazioni con l’amministrazione. Le bacchettate giuridiche dell’Università di Pisa non si erano rivelate inutili, in fin dei conti. Rileggo il tutto, mi sembra uno scritto convincente e equilibrato, per cui lo invio senza ulteriori indugi.

La risposta dell’Ufficio VI, sempre senza firma in calce in sfidante provocazione, non si fa attendere:

Gent. dott. Gardini,

 ai fini del rilascio del certificato di dottorato da parte dell’ufficio, è necessario inviare una richiesta formale all’indirizzo indicato in calce, accompagnata da fotocopia documento di identità e n. 2 marche da bollo da € 16,00 e autocertificazione ai sensi del DPR 445/2000 relativa a: denominazione del corso di dottorato e università sede amministrativa del corso, data di superamento esame finale, università sede esame finale.

Se invece intende ritirare il diploma originale, non potendo esibire il certificato sostitutivo richiesto, dovrà inviare un’autocertificazione come sopra indicato e, previa verifica da parte di questo ufficio presso l’università sede dell’esame finale, potrà ritirare il diploma presso i nostri uffici all’indirizzo in calce (previo appuntamento), presentando documento di identità e una marca da bollo da € 16,00.

Cordiali saluti

Ufficio VI”.

Per prima cosa noto con fastidio che quasi trent’anni di sacrifici e una mezza dozzina di concorsi sono ridotti in poltiglia dalla risposta piccata del funzionario-Ufficio VI, che non deve avere gradito le mie richieste né tantomeno i miei suggerimenti professorali.

Mi toglie infatti i gradi seduta stante (nella prima mail mi apostrofava con “Gentile professore”) e, svilendomi a semplice dottore, punta chiaramente a indebolire la mia autostima. La ostinata mancanza di firma in calce, poi, mi deprime come una sentenza di condanna. La parte che segue, tuttavia, è musica per le mie orecchie: l’autocertificazione esiste ed è praticata anche dall’amministrazione italica, quella statale e non solo quella protetta dell’autonomia universitaria. Non fosse per le marche da bollo di paleolitica memoria, e per l’Ufficio VI naturalmente, sembrerebbe quasi di avere di fronte un’amministrazione moderna e collaborativa, persino capace di abbandonare gli schemi predefiniti dinanzi a circostanze che oggettivamente lo richiedano. Mi chiedo per un attimo perché l’Ufficio VI non mi abbia da subito, spontaneamente, suggerito di percorrere la strada dell’autocertificazione, ma questo sofisticato dubbio viene prontamente ricacciato indietro dalla ragion pratica.

Scrivo allora una bella autocertificazione con tutti i riferimenti normativi, come quelle che si insegnano ai funzionari che vogliono fare carriera, chiamo al telefono un paio di colleghi per ricostruire le date della discussione del dottorato (30 novembre 1995, all’epoca con commissione e sede nazionale), fotocopio il documento di identità, e mi precipito dal tabaccaio per acquistare busta, francobolli e, soprattutto, due marche da bollo da 16 euro. È il 17 settembre 2021, ed io sono molto euforico perché sento avvicinarsi la vittoria sui servizi burocratici. Tuttavia, non mi abbandona la fastidiosa sensazione che in tutta questa produzione di carta bollata e invio di documenti cartacei ci sia qualcosa che non torna, un punto che in qualche modo stride con quanto da anni predichiamo circa l’amministrazione digitale, la semplificazione, la relazione inclusiva con il cittadino e l’inquinamento del pianeta. Ma metto a tacere anche questa stolida vocina, e con spirito franco infilo la busta nella cassetta postale più vicina, destinazione “fuori città”.

A tre settimane dall’invio della carta bollata, in assenza di qualsiasi notizia da parte dell’Ufficio VI, mi assale un orrendo sospetto. E se la busta non fosse mai arrivata? Se avere indicato solamente l’ufficio nell’indirizzo di spedizione non fosse stato sufficiente? Se un postino scaltro e vizioso avesse fiutato la presenza di due preziose marche da bollo da 16 euro all’interno della busta e le avesse rubate?

Preda di questi dubbi notturni, il 4 ottobre decido di scrivere una nuova mail all’Ufficio VI, chiedendo notizie della mia istanza, abbandonata per settimane senza riscontro. Nel frattempo, l’avvio del Master incombe, e la segreteria peruviana mi scrive a intervalli regolari per avere notizie del certificato di dottorato, considerata l’imminenza delle lezioni.

A strapparmi da queste domande angosciose interviene un fatto nuovo, un evento che per un attimo mi induce a credere che la nostra Pubblica amministrazione rappresenti ancora una risorsa, non solo il problema che tutti dicono essere. L’Ufficio VI non solo mi risponde, a distanza di soli due giorni, ma scrive quanto segue:

“Gent. dott. Gardini,

siamo in attesa di conferma di quanto dichiarato con autocertificazione relativamente all’esame finale da parte dell’università di Pisa.

Il certificato sarà inviato all’indirizzo da lei indicato e anticipato via email.

Cordiali saluti.

M….. C…….”

In un primo momento, stento a trattenere le lacrime dall’emozione: non solo hanno ricevuto tutto l’incartamento e i bolli, ma la persona che mi risponde si firma con tanto di nome e cognome. L’Ufficio VI, finalmente, acquista un volto ai miei occhi, un volto femminile e gentile per di più. E probabilmente ha anche deciso di ascoltarmi, penso soddisfatto, visto che la funzionaria si dice pronta a anticipare “via mail” il documento richiesto. Poco importa se continuo a essere per lei un semplice dottore, a dispetto di varie monografie e concorsi accademici, ciò che davvero conta è ottenere l’ambito certificato. Non vale nemmeno la pena di soffermarsi troppo sul paradosso per cui l’Ufficio del Ministero che detiene nei suoi archivi il mio Diploma di dottorato sostiene che, per poter attestare l’esistenza di tale Diploma, deve prima aver conferma del conseguimento del titolo da parte dell’Università di Pisa, presso cui ho discusso la mia tesi trent’anni prima. Posso tornare a dormire sonni tranquilli, mi dico, l’arrivo del certificato è comunque imminente.

Ma le mie speranze sono destinate a essere nuovamente frustrate. Trascorrono altre due settimane, senza segnali di vita. Il mio umore peggiora gradualmente, finché il 21 ottobre sono costretto a importunare di nuovo la gentile funzionaria, visto che il Master dell’Università di Lima inizia di lì a qualche giorno. Le scrivo un sollecito. Passa un’altra settimana. Nessuna risposta, silenzio di tomba.

Forse Pisa ha perso il faldone con i miei dati, penso sgomento.

Nel frattempo i problemi urgenti mi incalzano: 40 studenti peruviani attendono le mie lezioni online che, in assenza di certificato sostitutivo, l’Università di Lima non mi permette di tenere.

Inizia allora un fitto scambio con la segreteria dell’Università sudamericana, che si conclude dopo circa una settimana con una soluzione pragmatica, partorita dal buon senso dei miei interlocutori.  La burocrazia peruviana, cosa difficile da credere, si dimostra più flessibile e efficiente della nostra, e decide di ammettermi, seppure in via eccezionale, tra i suoi “professori visitanti” pur in assenza di una documentazione conforme. Per quest’anno, sia chiaro, in attesa dell’invio di una certificazione ufficiale ex post. Sono salvo, e al contempo incredulo di fronte a questa schiacciante superiorità della creatività latina sulla meccanicità della burocrazia nazional-popolare.

Ma la battaglia di principio con il Ministero resta aperta, il certificato di dottorato non è mai arrivato, nonostante i bolli.  Attendo un altro mese, e il 15 novembre invio l’ennesimo sollecito alla solerte funzionaria dell’Ufficio VI. Da quel momento in poi, silenzio siderale. Nessuna risposta, nemmeno interlocutoria, a tutt’oggi.

Siamo così giunti all’epilogo. In conclusione di questa lunga lettera, gentile Direttore, sono a chiederle di voler intervenire per porre fine a questo prolungato silenzio-inadempimento dell’Ufficio posto sotto la sua direzione, che a distanza di quasi sei mesi dalla prima richiesta (5 agosto) e a distanza di due mesi e mezzo dall’invio della documentazione cartacea richiesta (17 settembre) non è stato in grado di inviarmi un solo messaggio di posta elettronica, un appunto, un dato informale dal quale risulti la presenza presso gli archivi di quell’Ufficio del mio Diploma di dottorato. Termini procedimentali, comunicazione di avvio e responsabile del procedimento, neanche a parlarne. L’aspetto più paradossale della vicenda, a mio avviso, è che l’Ufficio in questione sostiene di dover ricevere conferma dall’Università di Pisa circa l’esistenza di un titolo (diploma di dottorato) che è presente da anni nei propri archivi. Un documento che si trova pertanto nella sua piena e diretta disponibilità, e che tuttavia l’Ufficio VI, dopo avermi costretto ad inviare un plico in carta bollata quasi tre mesi or sono, dice di non essere in grado di attestare autonomamente.

Visti i fatti, gentile Direttore, le chiedo di intervenire per porre rimedio a questa e altre storture simili, per fare sì che i cittadini, partendo dalle piccole cose, possano avere più fiducia nell’amministrazione e per indurre l’amministrazione a tenere un atteggiamento più trasparente, collaborativo, moderno, all’altezza delle sfide che la aspettano.

La prego pertanto di considerare questo scritto come un ricorso a lei rivolto in via gerarchica, cui spero vorrà dare pronta risposta evitandomi il dispiacere, umano e professionale, di ricorrere anche al Ministro competente, al Tribunale amministrativo del Lazio, e, come ultimo ripiego, a qualche organo di stampa o testata televisiva.

Certo della sua attenzione, le porgo i migliori saluti

Gianluca Gardini