Lo sport e una riforma sbagliata nel metodo

di Federico Orso

Con l’approvazione dei decreti legislativi nn. 36-40 del 2021, il Governo ha attuato, ancorché solo parzialmente, la delega contenuta nella legge 8 agosto 2019, n. 86, avente a oggetto la riforma dello sport. Si è trattato di un percorso accidentato, fortemente condizionato per un verso dall’instabilità politica e per l’altro dall’emergenza sanitaria, che ne hanno dilatato i tempi e, in fine, ridimensionato la portata innovatrice. Questo breve commento ripercorre le principali tappe evolutive della riforma, inserendosi nel dibattito che era stato avviato su questo blog da Leonardo Ferrara (Leonardo Ferrara, Sport Juridification as the Hallmark of a Recent Italian Reform).

Tutto può rimproverarsi alla diciottesima Legislatura, tranne di essere stata noiosa. Sebbene infatti l’esito delle elezioni e la solidità della convergenza politica venutasi a creare tra il Movimento Cinque Stelle e la Lega lasciasse immaginare un’andatura a velocità di crociera, lo scioglimento di ben due esecutivi in trenta mesi ha fatto registrare il record di instabilità politica del nuovo millennio.

Ebbene, tra le vicende che hanno animato tale instabilità, un posto di primo piano lo ha avuto senz’altro la (mancata) riforma dello sport.

Avviata nell’autunno 2018 grazie a una solida intesa tra le forze di maggioranza, questa riforma ha difatti determinato una brusca interruzione dei risalenti rapporti di cordialità (e talvolta quasi di reciproca deferenza) tra i vertici delle istituzioni statali e quelli del movimento olimpico nazionale. Né è da attendersi che il conflitto possa rientrare rapidamente.

Il fatto è che si è trattato di una riforma sbagliata. Ma l’errore, è questo quel maggiormente preme sottolineare, è stato di metodo più che di merito, ché anzi, tutto sommato, il programma del Governo appariva in larga parte lodevole.

Ingenuamente, infatti, si è creduto di poter avviare il più grande riassetto del governo dello sport della storia repubblicana partendo dalla riallocazione delle risorse invece che dalla ridistribuzione delle funzioni. Così, prima ancora di decidere quale sarebbe stata la sorte del Coni, che fino a quel momento aveva nei fatti esercitato le funzioni di un ministero dello sport collocato al di fuori del circuito democratico, si è trasferito circa il novanta per cento del finanziamento pubblico destinato alle politiche sportive a Sport e salute s.p.a., società pubblica a tal fine appositamente istituita e partecipata per intero dal Ministero dell’economia e delle finanze.

Tale scelta si deve probabilmente alla fiducia, finanche eccessiva, che l’Esecutivo aveva riposto nella stabilità degli equilibri politici contingenti e nella possibilità di distendere la propria azione lungo l’intero corso della Legislatura.

Pertanto, sebbene ragioni di logica e di prudenza avrebbero suggerito di invertire l’ordine degli interventi, pensando cioè prima al riassetto istituzionale e poi, solo in seconda battuta, alla ripartizione delle risorse, il Governo preferì utilizzare la prima legge di bilancio a disposizione per mettere al sicuro la parte finanziaria della riforma, rinviando le misure ordinamentali alla legge 8 agosto 2019, n. 86, e ai relativi decreti delegati da approvare a stretto giro.

Sennonché, proprio mentre il Parlamento licenziava la legge delega, inaspettatamente si aprì una violenta crisi politica, dalla quale scaturì nel torno di qualche settimana la migrazione all’opposizione della Lega (la quale, circostanza non irrilevante, era per l’appunto il partito di afferenza dell’on. Giancarlo Giorgetti, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri al quale era stata assegnata pro tempore la delega in materia di sport).

Si era materializzato insomma il peggiore scenario possibile: il Coni era stato spogliato delle risorse ma continuava ad avere, almeno sulla carta, le stesse funzioni del passato; Sport e salute s.p.a. aveva le risorse ma non era chiaro di che cosa si sarebbe dovuta occupare; chi aveva progettato la riforma era transitato nelle fila dell’opposizione; il nuovo Esecutivo era sostenuto da una maggioranza diversa dalla precedente e la delega in materia di sport, affidata all’on. Vincenzo Spadafora, aveva addirittura cambiato colore politico.

Come se non bastasse, in tale contesto di fragilità si è innescata poi l’emergenza sanitaria, che per un verso ha stravolto, anche nell’ambito delle politiche sportive, l’ordine delle priorità e per altro verso ha determinato un’ulteriore dilatazione dei tempi, con il risultato pratico che gli iniziali dodici mesi stimati per l’attuazione della delega sono divenuti diciotto.

Ma il tempo, è noto, è nemico della politica. Così, proprio quando sembrava che la riforma, avendo superato imponderabili difficoltà, potesse finalmente giungere a conclusione, l’arrivo di una seconda crisi di governo ha stravolto nuovamente lo scenario, costringendo alle dimissioni il Ministro per lo sport in carica e mettendo a rischio l’attuazione della legge n. 86 del 2019.

A un metro dal traguardo, il quadro non era dunque dei più promettenti.

Nella nuova maggioranza multicolore, infatti, l’unico partito che aveva sempre sostenuto la riforma era il Movimento Cinque Stelle. Tutti gli altri, per un verso o per l’altro, l’avevano ostacolata: il Partito Democratico, Italia Viva e Leu avevano sostenuto i decreti delegati, ma si erano opposti all’approvazione della legge delega; la Lega, aveva sostenuto la legge delega, ma non i decreti attuativi; Forza Italia era sempre stata contraria, sia all’una che agli altri.

È già un successo quindi che la riforma non sia stata cestinata. Non si può tuttavia fare a meno di rilevare che l’alternativa escogitata sia stata una vera e propria soluzione al ribasso: non soltanto dei sei decreti attesi ne sono stati approvati solamente cinque, con esclusione proprio di quello più atteso, che avrebbe dovuto provvedere al riassetto istituzionale, ma vieppiù la loro entrata in vigore è stata posticipata, sia pur con qualche eccezione, al 2023, quando però si sarà molto vicini al termine naturale della Legislatura.

Una circostanza, quest’ultima, non priva peraltro di un suo autonomo rilievo: considerata la quantità di atti ministeriali che dovranno essere adottati per dare esecuzione ai decreti attuativi, la riforma dello sport potrà vantare il non invidiabile primato delle quattro paternità, corrispondenti ciascuna ai governi che l’avranno realizzata. A farne le spese, è da temere, sarà la coerenza dell’indirizzo politico e, di conseguenza, la bontà del risultato finale.

La contesa del pallone: a proposito di Superlega europea, UEFA e libera concorrenza

di Carlo Alberto Ciaralli

ABSTRACT: Il 19 aprile 2021, dodici fra le più importanti società calcistiche europee hanno tentato di dare vita ad una nuova competizione internazionale per club, svincolata dall’egida dell’UEFA: la Superlega. Il tema del monopolio UEFA nell’organizzazione delle competizioni calcistiche continentali e lo “strappo” prodottosi a seguito della nascita della nuova competizione calcistica sarà oggetto di valutazione da parte della Corte di Giustizia UE, interessata dal Tribunale di Madrid circa il possibile abuso di posizione dominante da parte dell’UEFA.



Il 19 aprile 2021, alcune delle più importanti società calcistiche a livello continentale hanno dato vita ad un progetto “rivoluzionario” nel panorama calcistico internazionale: un nuovo format, una competizione internazionale per club svincolata dalle regole vigenti per le competizioni organizzate dall’organo di governo del calcio europeo, la UEFA, autonoma ed indipendente da quest’ultima ed, anzi, in diretta concorrenza con la maggiore competizione calcistica internazionale tuttora esistente, la UEFA Champions League. Tale nuova, “originale” competizione, denominata European Super League, avrebbe annoverato fra i “soci fondatori” società calcistiche di notevole spessore e blasone, quali Juventus, Milan, Inter, Real Madrid, Barcellona, Atletico di Madrid, Chelsea, Liverpool, Manchester United, Manchester City, Tottenham ed Arsenal, rappresentative dei tre principali campionati nazionali in Europa (Italia, Spagna ed Inghilterra).

Come noto, ogni competizione di rilevanza europea (per rappresentative nazionali e per società calcistiche) viene direttamente gestita ed organizzata, in condizione di sostanziale monopolio, dalla UEFA (Union of European Football Associations), sotto la “supervisione” della FIFA (Fédération Internationale de Football Association), massimo organismo calcistico a livello mondiale, non essendosi sinora create le condizioni per le quali un raggruppamento di società professionistiche, operanti nel mondo del calcio, ponesse direttamente in questione la “legittimità” giuridica e, parimenti, la “sostenibilità” finanziaria della suddetta condizione di monopolio. In particolare, l’adesione delle 55 federazioni calcistiche nazionali tuttora affiliate all’organizzazione UEFA permette loro, sulla base del ranking dei singoli tornei nazionali, nonché dei posizionamenti delle squadre all’interno di essi e nelle stesse competizioni internazionali, la partecipazione alle diverse competizioni per club promosse dalla UEFA (European Super Cup, Champions League, Europa League, Conference League, Youth League). L’adesione di ciascuna federazione calcistica all’UEFA, in sostanza, è una condizione essenziale affinché le squadre nazionali possano, legittimamente, prendere parte alle competizioni internazionali ed essere, al contempo, riconosciute dall’UEFA quali legittime federazioni calcistiche operanti all’interno di una determinata nazione.

Sulla base di quanto sinora descritto, il tema che la Superlega europea pone all’attenzione del dibattito è, quantomeno, duplice: da un lato, la legittimità, in termini giuridici, della condizione esercitata dalla UEFA che, a giudizio dei promotori della Superlega, si atteggerebbe quale ingiustificata posizione di monopolio, specie nel momento in cui FIFA e UEFA possano imporre alle società calcistiche di non promuovere od aderire a competizioni internazionali estranee a quest’ultime (in funzione della affiliazione alle stesse delle federazioni nazionali), pena l’apertura di un procedimento disciplinare comportante, a valle dello stesso, l’esclusione dai tornei nazionali ed internazionali, nonché considerevoli sanzioni di natura economica. Dall’altro lato, ciò che maggiormente richiama l’attenzione si riferisce alla praticabilità, in termini giuridici e finanziari, di una competizione parallela, con regole ed organizzazione proprie, in concorrenza diretta con il principale (finora, unico) player europeo nella gestione ed organizzazione di eventi sportivi.

Vi è da sottolineare come la Superlega europea non sia, almeno in questa fase embrionale, un’unione di federazioni calcistiche nazionali. L’intento, in prima battuta, non sarebbe quello di promuovere una struttura di livello europeo, con un’organizzazione autonoma ed indipendente dalla UEFA, in diretta concorrenza con quest’ultima. L’obiettivo non sarebbe, quindi, quello di annoverare numerose altre federazioni calcistiche nazionali e creare, in sostanza, un reale competitor nell’organizzazione e gestione di tornei calcistici di rilievo internazionale in Europa. Scopo precipuo della Superlega è, viceversa, quello di creare un singolo torneo continentale di “eccellenza”, indipendente dall’organizzazione UEFA ed in competizione, in particolare, con la Champions League. La partecipazione ai singoli tornei nazionali non verrebbe, pertanto, messa in discussione, sul modello di quanto già avvenuto venti anni orsono nel mondo delle competizioni europee di pallacanestro. In quest’ultima esperienza, infatti, l’esempio dell’Eurolega appare piuttosto illuminante: detto format, in sostanza, consiste in un torneo di pallacanestro d’eccellenza, a cui accedere tramite “licenze pluriennali” o wild cards, al fine di “selezionare” i potenziali partecipanti alla competizione, anche sulla base di particolari requisiti di accesso, afferenti persino alle strutture ed alla capacità finanziaria delle squadre. Un sistema tendenzialmente “chiuso”, il quale ha ispirato, piuttosto consapevolmente, il modello di Superlega promosso in ambito calcistico.

In sostanza, nel caso della Superlega calcistica, la partecipazione al torneo d’eccellenza verrebbe “sganciata” (quantomeno in parte) dal parametro di valutazione da sempre adottato nello sport per l’accesso alle manifestazioni sportive continentali, ovvero dal merito sportivo manifestatosi in ambito nazionale. In tal senso, infatti, alla nascente competizione sarebbero abilitate a partecipare venti squadre: dodici società fondatrici (anche se sul sito internet ufficiale della Superlega si parla di quindici squadre partecipanti “di diritto”) e cinque società “invitate” ogni anno, a discrezione del board della Superlega europea. Rispetto a quest’ultimo punto, si deduce agevolmente che le squadre “invitate” alla competizione rappresenterebbero (o meglio, dovrebbero rappresentare) società con un appeal decisamente rilevante quanto a sponsor, fatturati e tifoseria. Tale impresa, sulla base di un preciso accordo contrattuale, verrebbe finanziata tramite sponsorizzazioni della competizione, vendita dei diritti televisivi su scala continentale e, nondimeno, a mezzo di un poderoso investimento iniziale (circa 3-4 miliardi di euro), promosso da una nota banca d’affari internazionale, al fine di garantire la “sostenibilità” finanziaria del torneo e generare ragguardevoli ricavi per le società partecipanti. Su tale crinale, appaiono giustificati il timore e l’apprensione, circolati negli ambienti politico-sportivi e nelle cancellerie europee, che il maggiore appeal del “nuovo” prodotto, caratterizzato unicamente da “supersfide” fra le migliori società europee, a cadenza settimanale, potrebbe condurre al crash economico-finanziario del sistema calcistico europeo consolidato, polarizzando ulteriormente la forza economica nelle mani di pochi top club europei, a discapito, in particolare, delle leghe minori di livello nazionale.

A fronte della nascente competizione d’élite, FIFA, UEFA e federazioni calcistiche nazionali interessate, timorose di una possibile “fuga” delle big dal circuito calcistico sinora dominante, hanno minacciato intense sanzioni di carattere sportivo ed economico (tra le quali, in particolare, la sospensione delle società dalle competizioni internazionali e nazionali), al fine di dissuadere le società “ribelli” dal persistere nell’iniziativa indipendente. A seguito di tali pressioni, nonché dell’ondata popolare di protesta diffusasi rapidamente tra gli appassionati in tutta Europa (la quale ha coinvolto, “sorprendentemente”, anche i supporters delle “Fab 12”), nove delle dodici società fondatrici (ad eccezione di Real Madrid, Juventus e Barcellona) hanno ritirato la loro partecipazione dalla Superlega, venendo così “riammesse” nel consesso unitario europeo. Formalmente, beninteso, la European Superleague Company è tuttora esistente, non essendosi perfezionata la “risoluzione” dei rapporti fra le società, ivi compresa l’eventuale “dissoluzione” del format stesso e della società organizzatrice della competizione.

Nondimeno, l’esercizio di tali, considerevoli, pressioni sono alla base del ricorso, presentato dalle residue società “ribelli” innanzi al Tribunale commerciale di Madrid, avverso il procedimento disciplinare promosso dalla UEFA, con l’intenzione di richiederne l’immediata sospensione. Il Tribunale di Madrid, tuttavia, non si è esclusivamente limitato a diffidare UEFA e FIFA dall’adozione di procedimenti di carattere sanzionatorio a carico delle società aderenti alla Superlega o nei riguardi dei loro tesserati, oltreché di azioni che possano compromettere la nascita della nuova competizione. Con rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea ha ventilato l’ipotesi che la situazione di monopolio di cui beneficiano UEFA e FIFA costituisca un “abuso di posizione dominante”, in potenziale violazione degli artt. 101 e 102 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea, incidendo così sul principio generale di libera concorrenza vigente nello spazio giuridico europeo.

A fronte dell’importante crescita dimensionale ed economica dello sport in Europa negli ultimi decenni (e, su tutti, del calcio), si è venuta profilando una “coesistenza” fra mondo sportivo e ambito pubblicistico, nel senso che, riconosciuta l’autonomia dell’ambito sportivo, si abbia cura di intervenire laddove detta autonomia possa entrare in rotta di collisione con ambiti e profili di rilevanza pubblicistica. In tal senso, a livello continentale, rilevano le disposizioni del TFUE, in particolare l’art. 6, ove si prevede, da parte dell’UE, un’azione di sostegno, coordinamento e completamento delle politiche statali in materia sportiva, nonché l’art. 165, laddove, più diffusamente, si stabilisce che, tenuto conto della specificità dell’ambito sportivo, l’azione dell’Unione sia tesa a “sviluppare la dimensione europea dello sport, promuovendo l’equità e l’apertura nelle competizioni sportive e la cooperazione tra gli organismi responsabili dello sport”. A livello nazionale, parimenti, rilevano le disposizioni contenute nell’art. 117, co. 3, della Costituzione, il quale affida la materia “ordinamento sportivo” alla disciplina concorrente fra Stato e Regioni, nonché la legge n. 280/2003, la quale, a fronte dell’autonomia riconosciuta all’ordinamento sportivo, prevede un’eccezione alla stessa nei “casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo”.

Su tali profili (in particolare quelli relativi all’ambito continentale) si “gioca la partita” fra Superlega e UEFA. L’eventuale “compressione” dello spazio di autonomia riconosciuto all’ordinamento sportivo potrebbe realmente inverarsi laddove la Corte di Giustizia dovesse individuare un’indebita lesione del principio della libera concorrenza nello spazio UE; principio, come noto, posto quale pilastro fondante della stessa architettura giuridica comune. In sostanza, pur trattandosi di organizzazioni autonome, la lesione di principi fondamentali europei “nell’azione di contrasto” alla nascita di una nuova competizione continentale comporterebbe il divieto di porre in essere azioni svantaggiose (specie dal punto di vista economico) nei riguardi delle società ribelli, nonché di frapposizione di qualunque ostacolo alla nascita del nuovo format. Resterebbe ferma, ad ogni modo, la possibilità per le federazioni nazionali, la UEFA e la FIFA, nell’ambito del loro spazio di autonomia, di non riconoscere la nuova competizione.

Il pronunciamento della Corte di Giustizia UE sarà, indubbiamente, di particolare spessore, in quanto potrebbe realmente favorire una ulteriore rivoluzione nel mondo della governance calcistica, aprendo la strada a nuove forme di organizzazione internazionale fra privati, svincolate dal circuito ufficiale dell’UEFA. L’attività pretoria della CGUE riveste una particolare valenza anche in ambito sportivo, specie considerando il più noto dei precedenti giurisprudenziali in materia, quel “caso Bosman” che ha determinato una mutazione profondissima della quale, a volte con eccessi irrazionali e distorsivi, abbiamo riscontro a tutt’oggi. La Corte, infatti, consegnò ai calciatori un maggiore potere contrattuale nei confronti delle società calcistiche ed eliminò i “calciatori comunitari” dal computo massimo dei giocatori “stranieri” tesserabili da ciascuna società calcistica europea. Anche in tal caso, a ben vedere, la questione, lungi dall’afferire all’ambito meramente sportivo, implicava profonde limitazioni in tema di libera circolazione dei lavoratori e tutela della concorrenza in Europa, le quali hanno legittimato un intervento “invasivo” della Corte nell’ambito dello sport, al fine di tutelare i principi del diritto comunitario.

Ad onor del vero, non può disconoscersi che le nuove tecnologie (social networks, entertainment, console interattive, piattaforme streaming) e alcune formule organizzative sovente stantie (quali, ad esempio, i format delle competizioni internazionali UEFA e i numerosi cambiamenti regolamentari) abbiano, in qualche modo, “raffreddato” l’interesse degli appassionati, come dimostrato dai dati pre-pandemici sull’afflusso di abbonati e tifosi “occasionali” negli impianti per la fruizione degli eventi sportivi. È pur vero che gli argomenti utilizzati in questa tenzone per difendere lo status quo (“il calcio è di tutti”) hanno sovente risuonato quali vuoti espedienti dialettici, a fronte delle criticità di un sistema che ha, nel corso tempo, progressivamente accantonato la figura del “tifoso” e dei “valori” (anche etici) dello sport, a favore della valorizzazione del business indotto “dall’industria del calcio”. In tal senso, la “rivolta” dei tifosi potrebbe essere letta non soltanto quale ferma opposizione al progetto della Superlega, bensì quale “grido di allarme” nei confronti dell’intera struttura di governo del calcio europeo, al fine di recuperare una dimensione maggiormente prossima allo spirito sportivo, svincolando il meccanismo sotteso al funzionamento del calcio da logiche sovente estranee ad esso.

Sostanzialmente, nell’intento dei proponenti, la c.d. “operazione Superlega” si prefiggerebbe lo scopo di “ravvivare” l’interesse popolare nei confronti del calcio (specie al tempo della pay-tv e dei social networks) e, soprattutto, aumentare i ricavi per le società aderenti, a fronte del paventato rischio di “insolvenza” del modello di business calcistico. La sostenibilità finanziaria del “sistema calcio” è oggetto di annoso dibattito, acuitosi esponenzialmente a fronte degli effetti nefasti della pandemia, la quale ha prodotto una drastica riduzione dei ricavi, costringendo le società, anche quelle di maggior seguito, a misure di carattere eccezionale quali, su tutte, la dilazione del pagamento dei gravosi stipendi dei tesserati, in primis i calciatori.

Alcune soluzioni adottate nel passato, su tutte il Financial Fair Play, non hanno prodotto i risultati auspicati, acuendo anzi il divario economico fra le società calcistiche. Si è in sostanza determinato un “circolo ristretto”, capace di maneggiare ingenti somme di denaro, a fronte di una moltitudine di realtà, specie di piccole dimensioni, costrette sovente alla dichiarazione di fallimento o a profondi piani di ridimensionamento. Paradossalmente, lungi dal voler promuovere un modello d’eccellenza fondato sul brand e non sui risultati sportivi, queste sono alcune delle “motivazioni” che hanno indotto i promotori della Superlega allo “strappo”, aprendo un dibattito che la futura pronuncia della Corte di Giustizia non potrà far altro che amplificare.

In conclusione, il punto chiave non si colloca esclusivamente nella polemica relativa alla “esclusività” che il format della Superlega, quasi naturalmente, rappresenterebbe, realizzando così una competizione d’élite e, consequenzialmente, decretando un declino certo, forse irreversibile, per le già barcollanti leghe minori di livello nazionale, a fronte del massiccio spostamento verso la Superlega di sponsorizzazioni e, dunque, risorse finanziarie. Occorre, in definitiva, una profonda e complessiva ridefinizione della governance del “sistema calcio”, il quale, stante gli attuali assetti di vertice, appare chiaramente incapace di autoriformarsi ed instaurare un circuito finanziario virtuoso. Tale ridefinizione della governance dovrebbe imperniarsi su di un duplice versante: in primo luogo, incidere radicalmente sulle voci di spesa maggiormente impattanti sui bilanci delle società (in particolare, emolumenti dei calciatori e commissioni degli agenti); in secondo luogo, limitare o rimuovere pratiche contabili artificiali e capziose, quali, a mo’ di esempio, quella delle “plusvalenze” negli scambi dei calciatori che hanno caratterizzato la gestione finanziaria di svariati club negli ultimi tre decenni, contribuendo ad incrementare l’insostenibilità finanziaria del modello societario calcistico. In altre parole, la riforma, necessaria ed indifferibile, del sistema dovrebbe ispirarsi a un modello (anche di business) sostenibile, inclusivo, equo ed improntato ad un principio “redistributivo” (almeno in parte) nei riguardi della base della piramide.

Sport Juridification as the Hallmark of a Recent Italian Reform

di Leonardo Ferrara

1.

In August 1890, the Master of the Rolls, Lord Esher, had to consider an unpleasant bit of sports business involving the Blackburn Rovers Football Club and the Nottingham Forest Football Club. When the time came to deliver judgment (Radford v Campbell), it emerged that the defendant Campbell had first signed an agreement to play for Forest for the very generous salary of four pounds a week. Dissatisfied with these lavish terms, he then had himself registered with Rovers. So, when Forest applied for an injunction to prevent Campbell from playing for the Rovers, Lord Esher refused the injunction because these were clubs that had resorted to engaging professionals for the sole purpose of winning games.

In other words, once upon a time, even football was just a game. Today we live in another world. Sport is big business. Above all, as far as we are concerned, sports activity has been subject to a considerable amount of state regulation. It is no longer an area of freedom where participants decide the game rules. Competitive games are increasingly constrained, controlled and licensed. Sports organisations and their employees are now subject to a variety of conventions, statutes, programmes, policies and directives as governments considersports competition regulation instrumental to their political agenda.

This post revolves around the sports law in Italy, since the Cabinet at the end of February, by passing five delegated statutory decrees, introduced a major and comprehensive reform. The reform leaves out only sports litigation and audiovisual rights on sporting events.

        2.

Before analysing the reform, let me give you a couple of heads-up concerning sports juridification.

First, juridification is also the story of the tensions between sports organisations and individual states. These tensions have no territorial boundaries. Considering the U.S., think of the opposition of the National Collegiate Athletic Association (N.C.A.A.) – the association in charge of U.S. and Canadian colleges and universities sports activities – towards the decision by the state of California in late 2019 to allow college athletes to use their name, image or likeness commercially.

Second. The process of juridification in Italy, only (almost only) in Italy, is at the same time the story of the tension between the public law dimension of sport and its self-regulation. If private autonomy prevails in the United States, state regulation is the dominant ordering factor in Italy. 

Bear in mind that C.O.N.I. is a public body, unlike the U.S. Olympic Committee (established in Colorado Springs); indeed, C.O.N.I. is the most influential public sports institution in Italy. Things have recently become to change, for the budget law for 2019 reduced for the first time the C.O.N.I. budget. 

Be aware that sport governing bodies, even when they are private, resemble governmental bodies as long as their structure and role as regulatory bodies are concerned. The dominant idea (which I dislike) is that public law principles govern their actions, such as passing legislation or administrative decisions. After all, C.O.N.I. is a public body, as I said. The curious thing is that Italian sports institutions hunt two rabbits at one time. They are part of the state, but they aren’t too. We can also say that Sports Institutions compound the nature of private corporations and state institutions. I know it’s all bizarre!

        3.

The reform is envisaged by the delegation statute (the enabling act passed by the Parliament) no. 86 of 8 August 2019, which delegates the Government to enact six statutory decrees in corresponding policy areas. 

The first area concerns the adoption of measures in the field of “ordinamento sportivo”. A caveat is fitting. There is no translation for this term. I could translate it as sports legal order, but it would be slightly misleading. To get an idea, we can imagine the sports phenomenon as if it were, to some extent, a state. It is as if sportspeople, sports organisations and the rules these organisations give themselves created an entity comparable to a state. However, the “ordinamento Sportivo” is theoretically not in the realm of the state. You understand that we face a huge problem. Although I am really at odds with this concept, that is how things stand.

The second area concerns the reorganisation and reform of the provisions on professional and amateur sports bodies and the sports employment relationship.

The third area includes measures regarding the reorganisation and reform of safety standards for the construction and operation of sports facilities and legislation on the modernisation or construction of sports facilities.

The fourth area deals with the representation relationships between athletes and sports clubs and access and exercise of the profession of sports agents.

The fifth area is about simplifying the obligations relating to sports organisations.

The last policy covers matters of safety in winter sport disciplines.

        4.

The first policy area is the most relevant. However, the Government has not issued the decree yet. It was supposed to redefine, in particular, the role of CONI, bringing it back to its original Olympic mission.

From its birth, in 1942 during Fascim, to the 1999 Melandri and the 2004 Pescante reforms, CONI has been regulating and managing sports in every respect. However, as I mentioned earlier, the budget law for 2019 brought back to the Government most of the financial resources destined for the sustenance of sport. For these purposes, this law notably created a joint-stock company wholly owned by the Minister of Economy and Finance.

We can understand that a reorganisation of governance in sport was therefore necessary. In my opinion, this change of direction is, at least from a theoretical and constitutional point of view (leaving out less edifying practical reasons), definitely acceptable. 

The fact is that interests never live in isolation from each other. Sports activity, in other words, may clash with other collective goals, such as health protection, job protection, education, urban planning, infrastructure, the environment, and so on. We could also say that sport is not a matter of interest to athletes only. Hence, as a sectoral policy, it cannot be managed irrespective of the collective interests previously mentioned.

This is why sports institutions cannot ignore the directives of a representative political body such as the Government in the management of public funding. However, until now, this management was entirely in the hands of CONI, an unelected body expression of the world of athletes only. As such, CONI clearly lacks democratic legitimacy. 

Given the political conflict between the Government and CONI, the legislative reform decree has not been passed until now. Thereby, the reorganisation of the functions did not follow the redistribution of the budget.

        5.

The Government has passed five statutory decrees, the most relevant of which deals with the reorganisation and reform of the provisions on professional and amateur sports bodies. It is divided into six titles or headlines, concerning general principles, amateur and professional sports bodies, individuals, the sports employment relationship, the use of animals, equal opportunities for people with disabilities in accessing military sports groups and sports groups of civil corps of the state.

I will focus on amateur and professional sports bodies and the sports employment relationship.

A first significant change concerns the distinction between amateur sports organisations and professional sports organisations. Amateur sports organisations carried out non-profit activities while professional sports organisations could even be listed on the stock exchange. The reform now allows amateur entities, set up in the form of a company, to distribute profits to members within an amount not exceeding fifty per cent.

A second important innovation concerns the regulation of the employment relationship in amateur sport. Until now, the legislator had included only professional athletes in an employment relationship. The reform has dictated a unitary discipline of the employment relationship for professional and amateur sports, while it has laid down some special rules for either. However, the reform has at the same time established that amateurs can engage in sport in a personal, spontaneous and freeway, in other words, voluntary and non-profit.       

        6.

I reserve for another occasion to commenting on the other four decrees. To cut a long story short, I make only a final general observation. It is true that the reformis particularly expansiveand it widens the chasm with a De Coubertin ideal of sport. However, we should also admit that behind the incessant juridification, there is a growing necessity to protect the individual and collective interests that sport affects.