Per uno Stato costituzionale diffuso

Il giorno 15 dicembre 2022, ore 15:00-17:30, in occasione della pubblicazione del volume di Tania Groppi, Oltre le gerarchie: In difesa del costituzionalismo sociale (Laterza 2021), si terrà un seminario dal titolo “Per uno Stato costituzionale diffuso” presso la Biblioteca di Politeia, Università degli Studi di Milano, Via Festa del Perdono 7.

Il seminario si terrà in presenza. La partecipazione è libera, nel rispetto delle norme anti Covid-19, fino ad esaurimento posti e previa iscrizione a: info@politeia-centrostudi.org.

Il ruolo delle Regioni nel contrasto alla pandemia

di Carlo Alberto Ciaralli

ABSTRACT: La sentenza della Corte costituzionale del 12 marzo 2021, n. 37, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di numerose disposizioni contenute nella legge regionale della Valle d’Aosta n. 11/2020, avente ad oggetto misure di contenimento della diffusione del virus Covid-19 nelle attività sociali ed economiche regionali. La Corte costituzionale ha ricondotto le disposizioni emergenziali di contrasto alla diffusione del virus nell’ambito della “profilassi internazionale”, materia di competenza esclusiva statale, ridimensionando fortemente il ruolo delle Regioni nella gestione dell’emergenza sanitaria.

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Con la pronuncia del 12 marzo 2021, n. 37, la Corte costituzionale è intervenuta sul delicato tema del rapporto tra Stato e Regioni nell’elaborazione ed implementazione delle politiche di contrasto all’emergenza sanitaria derivante dalla diffusione del virus Covid-19, riconoscendo allo Stato una sostanziale primazia nell’imposizione delle misure necessarie al fine di fronteggiare la drammatica diffusione dell’infezione su scala nazionale.

La sentenza n. 37/2021 si rivela assai interessante, specie in relazione alla gestione verticale della crisi sanitaria, nonché con riferimento alla querelle, protrattasi per lungo tempo, circa l’effettivo ruolo riconosciuto alle Regioni (e, in particolare, ai Presidenti di Regione) nell’affrontare le conseguenze drammatiche della pandemia. Come noto a tutti, specie in coincidenza di importanti appuntamenti elettorali, taluni Presidenti di Regione hanno assunto un protagonismo mediatico di primo momento, rivendicando sovente scelte che si ponevano in parziale distonia con quanto disposto dallo Stato centrale. Si pensi, per citare solo alcuni esempi, alla “chiusura” unilaterale dei confini regionali, alla contrattazione autonoma per l’acquisto di vaccini non ancora validati ed adottati né da EMA né dalle autorità sanitarie nazionali, nonché alla redazione di specifici profili di prevalenza nell’accesso prioritario alla vaccinazione.

In particolare, la Corte costituzionale è stata chiamata a valutare la conformità alla Costituzione di talune disposizioni contenute nella legge regionale della Valle d’Aosta 9 dicembre 2020, n. 11, recante “Misure di contenimento della diffusione del virus SARS-COV-2 nelle attività sociali ed economiche della Regione autonoma Valle d’Aosta in relazione allo stato d’emergenza”. Dal punto di vista del riparto delle competenze tra Stato e Regioni, la Corte costituzionale, apertis verbis, ha riconosciuto l’afferenza delle misure di contrasto all’emergenza pandemica da Covid-19 (e di ogni altra emergenza sanitaria involgente l’applicazione di “procedure elaborate in sede internazionale e sovranazionale”) alla materia “profilassi internazionale”, quindi di esclusiva competenza dello Stato, a norma dell’art. 117, co. 2, lett. q), della Costituzione (fra le altre, si vedano le precedenti pronunce nn. 5/2018, 270/2016, 173/2014, 406/2005, 12/2004).

In prima istanza, il Giudice delle leggi ha posto alla base della propria decisione la necessità, ai fini di arginare gli effetti nefasti della pandemia, di una “disciplina unitaria, di carattere nazionale, idonea a preservare l’uguaglianza delle persone nell’esercizio del fondamentale diritto alla salute e a tutelare contemporaneamente l’interesse della collettività” (Considerato in Diritto, p.to 7.1). A nulla varrebbe, sul punto, la considerazione per la quale il sistema sanitario regionale sia stato il principale “ammortizzatore” nelle fasi particolarmente acute della diffusione dell’infezione ed un attore di primo piano nell’organizzatore territoriale della campagna vaccinale tuttora in corso, ponendo così le Regioni in una condizione di “eccezionale” visibilità nei riguardi dei cittadini. Ad avviso della Corte, infatti, il legislatore nazionale può, in ogni momento, imporre ai servizi sanitari regionali di adeguarsi a “criteri vincolanti di azione, e modalità di conseguimento di obiettivi che la medesima legge statale, e gli atti adottati sulla base di essa, fissano, quando coessenziali al disegno di contrasto di una crisi epidemica” (Considerato in Diritto, p.to 7.2). In tal senso, l’esclusività della competenza statale in materia è in grado di attrarre la produzione legislativa e regolamentare, nonché la complementare funzione amministrativa.

Sulla base della riconduzione delle misure di contrasto alla competenza esclusiva dello Stato, la Corte ha ritenuto che fosse sufficiente ad assicurare il coinvolgimento delle Regioni quanto disposto dai decreti legge nn. 19/2020 e 33/2020, laddove si prevede la necessaria acquisizione del parere dei Presidenti di Regione interessati da misure restrittive o, in caso di misure applicabili all’intero territorio nazionale, di quello del Presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province Autonome, nonché la possibilità per le Regioni di introdurre “misure derogatorie” restrittive o, per converso, ampliative rispetto a quelle già vigenti in ambito nazionale, previa intesa con il Ministro della Salute, nei casi e secondo le modalità previste dai dpcm. In tal senso, a parere della Corte, verrebbe salvaguardato il principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni, prevedendo un “percorso gestionale” concordato, laddove le misure previste dalla Stato non verrebbero “imposte”, bensì “condivise” con le Regioni, anche sulla base degli specifici dati territoriali relativi ai contagi. La riconducibilità delle misure emergenziali di contrasto alla pandemia alla materia “profilassi internazionale” non è stata, tuttavia, unanimemente ritenuta plausibile, giacché le argomentazioni proposte dalla Corte apparirebbero «piuttosto apodittiche e prive anche di un chiaro ancoramento che non sia quello logico-razionale, prospettato dallo stesso giudice» (V. Baldini, p. 417).

In sostanza, sulla base dello scrutinio svolto dalla Corte, alle Regioni viene interdetta qualsivoglia disciplina di carattere locale che, sovrapponendosi incongruamente a quella nazionale, tenda a “deviare” dal tracciato predisposto dal livello centrale, invadendo così la sfera di attribuzione riconosciuta allo Stato, per nulla rilevando la specialità statutaria della Regione Valle d’Aosta, posto che la competenza statale in materia di “profilassi internazionale” preesisteva, anche nei riguardi dell’ente regionale in parola, alla riforma del Titolo V della Costituzione (in tal senso, v. l’art. 36, co. 1, n. 1), della legge 16 maggio 1978, n. 196, recante “Norme di attuazione dello statuto speciale della Valle d’Aosta”). Sul punto, una parte dei commentatori ha paventato il rischio che la pronuncia abbia potuto recare in nuce l’intento di «dare copertura alla poderosa costruzione statale di contrasto alla pandemia, evitando qualsiasi possibile interferenza delle Regioni, anche nell’esercizio di competenze costituzionalmente garantite» (L. Cuocolo-F. Gallarati, p. 4), legittimando, così, una profonda estensione della nozione di “profilassi internazionale”, atta a ricondurvi, in senso teleologico, ogni azione intrapresa al fine di contenere la diffusione dell’infezione.

D’altro canto, in funzione di “contrappeso” rispetto ad una statuizione così perentoria, dalla pronuncia n. 37/2021 emerge anche una qualche attenzione nei riguardi della “preservazione” del valore costituzionale del principio autonomista, stante il potenziale “pericolo” che l’attivismo statale possa sfociare in un’illegittima compressione dell’autonomia regionale. Tale “attenzione” si estrinseca, necessariamente, nel richiamo al doveroso rispetto della disciplina costituzionale sul riparto delle competenze tra Stato e Regioni, articolandosi tale percorso in una duplice direzione: in primo luogo, nelle materie di competenza concorrente “tutela della salute” e “protezione civile”, verrebbe assicurato alle strutture sanitarie regionali di poter “operare a fini di igiene e profilassi, ma nei limiti in cui esse si inseriscono armonicamente nel quadro delle misure straordinarie adottate a livello nazionale, stante il grave pericolo per l’incolumità pubblica” (Considerato in Diritto, p.to 7.2). In secondo luogo, residuerebbero nella disponibilità esclusiva delle Regioni (competenza legislativa “residuale”, ex art. 117, co. 4, Cost.), tutte quelle azioni e provvedimenti che, atteggiandosi quali applicazioni “funzionali” delle disposizioni nazionali, non siano in alcun modo capaci di “interferire con quanto determinato dalla legge statale e dagli atti assunti sulla base di essa”, quali, a titolo esemplificativo, “la definizione di quali organi siano competenti, nell’ambito dell’ordinamento regionale, sia a prestare la collaborazione demandata dallo Stato, sia ad esercitare le attribuzioni demandate alla Regione” (Considerato in Diritto, p.to 16. In tal senso, si veda anche la pronuncia n. 250/2020).

Le Regioni, in tempo d’emergenza, hanno visto affermare fattualmente un nuovo protagonismo istituzionale. In occasione della pandemia, a ben vedere, l’ente regionale ha saputo imporsi e “proporsi” quale essenziale fondamento delle Repubblica, specie sotto il versante del necessario supporto al contenimento dell’infezione prima e, successivamente, nell’organizzazione territoriale della campagna vaccinale. Tuttavia, a parere di autorevole dottrina, la strada intrapresa dalla Corte apparirebbe sin troppo “drastica” (quanto necessitata), consentendo così allo Stato, nell’ambito della materia “profilassi internazionale”, di «entrare come un bisturi nel burro delle residue competenze regionali» (B. Caravita, p. 4).

Conclusivamente, non può considerarsi esente da criticità la soluzione individuata dalla Corte costituzionale. La riconduzione delle misure emergenziali di contrasto alla diffusione del virus Covid-19 alla materia “profilassi internazionale”, nonostante la dimensione globale della crisi sanitaria e specie se non “direttamente connessa” all’esecuzione di protocolli imposti a livello sovranazionale (è noto come ogni Stato membro abbia posto in essere strategie di contenimento piuttosto diversificate), non appare del tutto convincente. Seppure possa apparire giuridicamente necessario e logicamente ammissibile garantire un’omogeneità nazionale delle misure di contrasto all’emergenza pandemica, la riconduzione della disciplina alla materia “tutela della salute”, di competenza concorrente tra Stato e Regioni, avrebbe potuto assicurare il medesimo risultato, preservando maggiormente la funzione delle Regioni in tempi così gravi. Ad ogni buon conto, la disciplina generale dello Stato avrebbe potuto imporsi su legislazioni regionali divergenti o distoniche da essa, garantendo tuttavia un ruolo non riconducibile alla mera “esecuzione” da parte delle Regioni e valorizzando, al contempo, il principio cooperativo ed il rispetto delle reciproche sfere di competenza, intesi ambedue quali pilastri necessari della relazione tra centro e periferia.

La pandemia è la fine delle autonomie regionali?

di Gianmario Demuro

da La Nuova Sardegna del 27 aprile 2021

Quando finirà la pandemia a chi sarà attribuita la competenza in materia di tutela della salute? Questo è un punto centrale nel dibattito di molti opinionisti sui giornali, nelle trasmissioni televisive, nelle discussioni pubbliche perché, si dice, le regioni che avrebbero dovuto fare di più e meglio dello Stato non si sarebbero dimostrate all’altezza del compito ad esse affidato. Colpisce in particolar modo la retorica contro il regionalismo, portatore di diseguaglianze, fomentatore di caos, di spreco di risorse collettive. E le regioni spesso non aiutano a presentare una immagine meno negativa, vaccinazioni in ritardo, minacce di chiusura dei “confini”, riaperture incostituzionali, bizzarrie territoriali. In sintesi, la tempesta perfetta per chi ritiene che a prendere le decisioni e a garantire l’eguaglianza di tutti debba essere un solo soggetto, lo Stato, che tutto può, vede e provvede. Questo è uno degli effetti della pandemia: mettere alla prova i sistemi che erogano i servizi alle persone e, verificato il loro cattivo funzionamento, decretare che la soluzione è quella di riportare al centro tutti i poteri di erogazione del servizio stesso.

La pandemia globale ha avuto un impatto anche sull’architrave del costituzionalismo occidentale. Il primo è avvenuto sulla capacità di regolare la complessità nell’emergenza in assenza di una previa definizione completa delle regole sulla regolazione di tale emergenza. Non è, infatti, costruita per l’emergenza l’architettura costituzionale che prevede tempi di verifica dell’azione democratica pensati rispetto a cicli di discussione parlamentare. Non è costruita per affrontare l’emergenza e il complesso sistema delle fonti che parte da un decreto-legge, si sviluppa in un Dpcm e affida ad ordinanze regionali e locali la differenziazione territoriale. La democrazia, infatti, innervata dal principio di eguaglianza deve poter dare regole per tutti sul territorio nazionale ma, nel contempo, deve poter garantire una ragionevole differenziazione territoriale. In assenza di regolazione preventiva il rischio di contrapposizione tra lo Stato e le Regioni era altissimo e abbiamo assistito alla impossibilità per i cittadini di incidere sulle scelte e verificarne la correttezza democratica. 

La sovranità dello Stato non è certamente in discussione, come non è in discussione che tutti i cittadini abbiano diritto ad un trattamento eguale nell’erogazione dei servizi ma siamo sicuri che soluzione sia riformare la Costituzione per riportare al centro tutti i poteri? Siamo sicuri che la soluzione sia affidare la tutela della salute in modo capillare al Ministero della salute? Se vogliamo ritrovare un maggior controllo delle scelte in materia di sanità abbiamo bisogno di più democrazia regionale come sintesi tra erogazione dei servizi e verifica democratica. Le regioni, infatti possono essere considerate come mero ente di governo amministrativo a cui spetta la distribuzione territoriale dei servizi che lo Stato deve erogare in ogni parte della Repubblica. Secondo un’altra ricostruzione le Regioni però sono espressione di comunità politiche di democrazia diffusa sul territorio. Queste due radici delle regioni hanno da sempre convissuto ma oggi si sottolineano soprattutto le inefficienze senza tener conto del fatto che i due profili, quello amministrativo e quello politico, debbono convivere perché senza il giudizio da parte dei cittadini nel luogo in cui sono erogati i servizi non vi sarà possibilità di migliorarli.

Il contenzioso costituzionale Stato-Regioni: di chi è la “colpa”?

di Claudia Tubertini

Chi avrà letto l’articolo di Sergio Rizzo (Le Regioni, Una guerra sulle leggi che stritola cittadini e imprese) pubblicato su “La Repubblica” del 15 febbraio 2021, sarà rimasto impressionato da quanto riportato dall’autore circa la crescente conflittualità tra Stato e Regioni dinanzi alla Corte costituzionale, ormai divenuta “un ingorgo spaventoso”.  Nell’ultimo decennio quasi una legge regionale su 13, si nota, è stata impugnata dal Governo, e la percentuale non è diminuita negli ultimi tre anni, anzi, è aumentata, impegnando la Corte per quasi un terzo della sua attività nell’esame di tali impugnative. Per alcune regioni (Molise, Liguria, Veneto) negli ultimi 5 anni le declaratorie di illegittimità hanno superato il 50 percento delle leggi impugnate. Ma non solo: l’autore riporta – citando un “rapporto riservato” consegnato in questi giorni dall’uscente Ministro per gli affari regionali alla Conferenza delle Regioni – che nonostante l’impegno a modificare le leggi regionali tenendo conto dei rilievi della Presidenza del Consiglio, addirittura nella metà dei casi i Presidenti di regione non hanno poi portato a termine l’impegno preso, facendo nel frattempo decorrere i termini per il ricorso da parte del Governo e far così “sfuggire alla tagliola una montagna di provvedimenti regionali potenzialmente illegittimi”. La conclusione che se ne trae – già annunciata in premessa –è impietosa per tutto il sistema regionale: il rapporto Stato-Regioni è ormai una guerra senza soluzione di continuità, di cui vittime sono soprattutto le attività economiche e le imprese”.

Il dovere di verità imporrebbe a chi utilizza dei documenti riservati a fini giornalistici di estrapolare da essi non solo i dati necessari a confermare le proprie teorie, ma di riportare anche a quelli che tali teorie potrebbero mettere in discussione. Il citato “rapporto riservato” – che è in realtà la Relazione sul contenzioso costituzionale in via principale relativo alle leggi delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano nel periodo dal 2015 al 2020  elaborata dal gruppo di lavoro all’uopo istituito dal Ministro Boccia – si concentra infatti non solo sulle ipotesi in cui l’iniziativa governativa si è conclusa con l’accoglimento del ricorso, ma anche su quelle in cui l’esito è stato a favore delle Regioni. Esaminando, infatti, gli esiti per capi di sentenza, dalla Relazione emerge la sostanziale soccombenza del Governo nel 39% dei casi (27% per infondatezza e 12% per inammissibilità); dato che porta il gruppo di lavoro a concludere che “la prospettazione delle questioni da parte dello Stato talvolta non è “centrata” o appare carente sul piano dei requisiti processuali” e che “le impugnazioni sono troppe e dovrebbero essere più chirurgiche”. Il “progressivo peggioramento, a partire soprattutto dal 2018, della qualità dei ricorsi del Governo” porta gli autori dell’analisi a suggerire di tentare sempre una interpretazione secundum constitutionem della disposizione che si intende impugnare, onde evitare la pronuncia di infondatezza; e, per evitare le pronunce di inammissibilità, a proporre l’adozione da parte del Ministro, o del Presidente del Consiglio, di indicazioni vincolanti sulle modalità di redazione delle richieste di impugnativa da parte degli Uffici legislativi dei Ministeri, in particolare specificando, per ciascuna questione sollevata, la necessità di precisare il parametro costituzionale violato e la norma interposta, in modo da creare, in sostanza un meccanismo di filtro e selezione più stringente delle questioni che realmente meritano l’avvio di un contenzioso costituzionale.

Già questi dati, da soli, forniscono una rappresentazione più completa e meno sbilanciata delle cause dell’esplosione del contenzioso costituzionale Stato-Regioni, tanto che verrebbe polemicamente da chiedersi di chi sia la colpa, se “lo scorso anno un provvedimento regionale ogni 88 ore e 32 minuti è stato spedito alla Corte costituzionale”. A ben vedere, non sono solo gli abusi legislativi e le illegittimità normative delle Regioni ad alimentare il contenzioso costituzionale, ma (anche) l’eccessivo ricorso dello Stato alla tecnica dell’impugnazione per contrastare tutti gli interventi del legislatore regionale, anche quelli legittimi. A tacer del fatto che l’aumento progressivo della produzione legislativa regionale – particolarmente evidente, e segnalato nella relazione, specie in alcune Regioni, molto meno in altre – è dato che non può trascurarsi in una analisi di questo tipo, che sui numeri complessivi dei ricorsi fonda l’intero ragionamento. 

Ma nella Relazione vi sono molti altri dati interessanti, non citati nell’articolo, che meriterebbero di essere approfonditi con ulteriori analisi: a partire dal rilevantissimo peso assunto, nel contenzioso costituzionale, dalla legislazione delle Regioni a Statuto speciale (la più frequentemente impugnata e, proporzionalmente, anche oggetto del maggior numero dei pronunce di inammissibilità ed infondatezza); alle materie su cui il contenzioso è più ricorrente (tutela dell’ambiente, comprensiva di caccia e pesca; tutela della salute, comprensiva delle controversie relative al personale sanitario); agli ambiti in cui a risultare soccombente è più spesso il Governo (coordinamento della finanza pubblica, tutela della concorrenza, ordinamento civile).  Si tratta di dati che confermano ampiamente le risultanze a cui la dottrina è da tempo pervenuta nell’individuare i punti più critici del sistema di ripartizione delle competenze Stato-Regioni.

Altrettanto interessanti sono i dati relativi alla sperimentazione, a partire dal 2013, della prassi dell’“impegno” formale assunto dal Presidente della Giunta regionale a modificare, sostituire o abrogare la norma oggetto di censura da parte delle Amministrazioni centrali. Sul punto, il gruppo di studio suggerisce la necessità che tale prassi venga resa più trasparente e che sia regolamentata, in modo da definire i contenuti specifici dell’impegno, ivi inclusa la data certa di sottoposizione delle modifiche al Consiglio regionale, in modo che all’impegno assunto si ottemperi nell’arco della legislatura regionale; promuovendo in tal modo il funzionamento di un istituto che si inquadra nella tanto auspicata “leale collaborazione”. Altrettanto condivisibile è la proposta di promuovere, se del caso in sede di Conferenza Stato-Regioni, un nuovo accordo sulla qualità della legislazione regionale, analogo alla c.d. circolare Amato degli anni ’80, al fine di migliorare la tecnica di redazione degli atti legislativi regionali e ridurre, conseguentemente, le occasioni di impugnativa.

In conclusione, se si concorda sul fatto che il nostro sistema istituzionale abbisogna, mai come ora, dell’azione coordinata di tutti i livelli di governo; che i rapporti Stato-Regioni (ma anche quelli Stato, Regioni ed autonomie locali) sono un punto dolente del sistema; che il miglioramento di questo rapporto è indispensabile per “cittadini e imprese” (endiadi, questa, sempre più spesso invocata, come se le imprese non fossero frutto dell’attività di cittadini..); la questione va affrontata con spirito critico, si, ma anche costruttivo. Altrimenti, il rischio è solo quello di provocare un aumento della sfiducia, o peggio, di spingere cittadini e imprese a invocare soluzioni centripete, davvero poco praticabili, e soprattutto dagli esiti incerti.