Comuni e PNRR: la sfida della trasformazione del settore pubblico in uno scenario di dissesto finanziario

di Camilla Buzzacchi

La difficile situazione finanziaria dei Comuni è oggetto da anni di previsioni legislative che hanno cercato di mettere a disposizione rimedi che sostanzialmente sono consistiti in prestiti: come tutti i prestiti, le anticipazioni di liquidità fornite da Cassa Depositi e Prestiti a partire dal dl. 35/2013 erano destinate ad essere restituite, ma la disciplina che le aveva introdotte aveva permesso un arco temporale di addirittura trent’anni per tale rientro. 

Corte dei conti e Corte costituzionale hanno gradualmente ma costantemente sottoposto al proprio sindacato previsioni della legislazione nazionale – il decreto del 2013 e le sue successive modificazioni – che permettevano restituzioni di questo debito che erano incoerenti con la logica del mandato. Infatti se le amministrazioni del territorio possono contare su tempi di rientro di tre o anche solo due decenni, la responsabilità di chi spende viene meno, andandosi così a svuotare il contenuto sostanziale del principio democratico nonché l’altro principio che ormai riveste un ruolo centrale non solo nel quadro costituzionale ma anche nel comune sentire: l’equità tra generazioni, in virtù della quale il quadro normativo non deve permettere al personale politico – dello Stato e delle autonomie – di usare risorse che vanno restituite, ma non nell’arco di quel mandato bensì in mandati successivi, ad opera di amministratori che seguiranno.

La sentenza n. 80 del 2021 della Corte costituzionale ha inferto l’ultimo colpo a questa legislazione, che dal punto di osservazione dello Stato è vista come un aiuto alle autonomie, mentre nella prospettiva delle istituzioni di garanzia è stata ripetutamente sanzionata per la sua portata apparentemente di favore per i Comuni: per effetto di essa infatti queste amministrazioni sono state indotte a una gestione contabile piuttosto disinvolta, che invece di utilizzare le anticipazioni per pagare i creditori le hanno destinate ad artifici contabili che hanno finito per consentire nuova spesa. Andando a incidere sul risultato di amministrazione, quel saldo che ai sensi del D.lgs. n. 118/2011 – la disciplina di armonizzazione dei bilanci – rappresenta il rapporto tra debiti e crediti, queste anticipazioni sono state trattate come indebitamento legittimo, ovvero quello che la Costituzione contempla all’art. 119, co. 6: e diventando debito legittimo, esse vengono utilizzate dai Comuni per destinazioni contrarie a questa stessa disposizione, ovvero esborsi di natura corrente. Mentre la Costituzione consente alle autonomie territoriali di indebitarsi solo per spese di investimento, che generino crescita economica e valore sociale.

La decisione n. 80 pare però avere introdotto elementi di destabilizzazione «definitiva» a carico della situazione contabile dei Comuni: essi infatti, a partire da questa pronuncia, sono destinati ad andare incontro ad un dissesto certo, e il pericolo insito in questo scenario è tale che il Governo ha immediatamente «sposato» la causa di queste istituzioni e si è messo a studiare soluzioni che evitino l’epilogo più drammatico. Ma le stesse associazioni rappresentative di questi enti hanno preso posizione: a metà maggio Anci e Upi, a nome della Conferenza Stato-città e autonomie locali, hanno ritenuto di intervenire in merito a tale questione. Esse hanno invocato una soluzione normativa che metta in sicurezza i bilanci di tanti Comuni che rischiano – e questa è la criticità a breve – di incontrare in via definitiva il dissesto; ma che in più – e questa è la criticità a lungo termine – rischiano di essere totalmente non attrezzati rispetto alle politiche che dovranno intraprendere nel quadro degli interventi di trasformazione del settore pubblico per effetto dei finanziamenti europei veicolati dal Piano di ripresa e resilienza.

Nell’Appunto sintetico sugli interventi di sostegno agli enti locali in condizioni di debolezza finanziaria, anche a fronte della sentenza CCost n. 80/2021 del 12 maggio scorso Anci e Upi osservano che fino alla sentenza n. 80/2021 non si era «mai messo in discussione la liceità di un ripiano specifico delle anticipazioni, coerente con la restituzione su trent’anni delle somme erogate. Il punto critico riguardava l’esigenza di neutralizzare le somme in questione (necessariamente accertate in entrata, quindi nella parte attiva del bilancio), per evitare l’indebito ampliamento della capacità di spesa corrente dell’ente beneficiario». Invece la nuova sentenza del 2021 mette in mora anche il meccanismo di rimborso a scalare che la legislazione più recente aveva introdotto, soprattutto per conformarsi alle sentenze n. 4 e 115/2020 della Corte costituzionale, che da ultimo avevano sanzionato la legislazione contabile.

Nel documento si prospetta un’evoluzione che viene qualificata «devastante»: «alle prime analisi, dei circa 1.400 Comuni coinvolti nella costituzione del Fondo anticipazione liquidità circa 950 risultano in disavanzo nel 2019, come anche 8 Province. Richiedere un ripiano ordinario (diciamo in tre/cinque anni) comporterebbe una maggior esposizione annuale moltiplicata mediamente per 8 o per 4,5 volte, con risultati disastrosi per una parte degli enti già in disavanzo nel 2019 e molto pesanti anche per i circa 450 enti in avanzo, almeno per quelli con avanzi esigui e quote di anticipazione più rilevanti. Tra gli enti in disavanzo, circa un terzo registra quote di maggior ripiano necessario, almeno in questa ipotesi-base, complessivamente per oltre 100 euro pro capite. Va anche tenuto a mente che solo poco più della metà dei Comuni in piano di riequilibrio sono coinvolti dagli effetti della sentenza. Su questi aspetti, numerosi interventi giurisprudenziali hanno via via messo in mora taluni comportamenti di Regioni ed enti locali considerati illegittimi, ma non il principio applicativo generale di ripiano/restituzione trentennale, peraltro in vigore fin dal 2015 per le Regioni senza che sia tuttora sorta alcuna contestazione».

Di conseguenza il documento si appella affinché venga adottato dallo Stato un «intervento di sistema, volto ad impedire che le convergenti debolezze precipitino in un tracollo della capacità amministrativa – corrente e d’investimento – nelle funzioni di molti enti locali, accentuando per questa via i divari territoriali che siamo impegnati invece a colmare, anche con le risorse nazionali ed europee connesse al PNRR». Ma ancora di più il soccorso dello Stato viene invocato in vista dell’efficace impiego delle risorse aggiuntive da PNRR, affinché sia «aumentata la capacità amministrativa nei campi finanziario, tecnico, sociale e della sicurezza e innestare un percorso di reale convergenza verso una stabilità della gestione, anche finanziaria».

Diverse sono evidentemente le criticità che si prospettano all’orizzonte. Da un lato una crescente difficoltà dei Comuni nel fronteggiare le loro funzioni ordinarie, e dunque nel dare risposta ai bisogni delle loro comunità con una spesa per servizi che diventa sempre meno sostenibile. Dall’altro l’incapacità nell’intraprendere un percorso di innovazione profonda, di ripensamento delle politiche e degli strumenti di soddisfacimento dei diritti, che il PNRR astrattamente renderà possibile da quest’anno e fino al 2026. La straordinaria distribuzione di risorse di cui la Repubblica italiana auspicabilmente beneficerà per effetto del programma Next Generation EU è destinata ad essere incanalata verso molteplici obiettivi nominalmente virtuosi, di cui una grande parte saranno trasformazioni delle modalità di agire della Pubblica amministrazione, centrale e del territorio. Dunque anche per Comuni e Regioni si apre la scommessa del cambiamento – e in larga misura un cambiamento che dovrebbe essere digitale – che è però fortemente condizionato dalla capacità amministrativa di istituzioni che invece, in questo passaggio, appaiono sempre più costrette a trovare soluzioni di ripiego per assenza di risorse finanziarie, che l’emergenza sanitaria ha in più dirottato verso esigenze straordinarie che non erano state messe in conto, e che la finanza locale ha dovuto immediatamente sostenere.

Il documento di Anci e Upi prospetta varie soluzioni, e varie forze politiche dell’attuale maggioranza parlamentare stanno già dimostrandosi sensibili alla questione: l’auspicio è che non si metta in campo un rimedio nuovamente incompatibile rispetto al quadro dei principi costituzionali. È evidente infatti che le responsabilità per una situazione di evidente difficoltà finanziaria di Comuni e Regioni non sono certo addebitabili alle Corti e alle loro sentenze, ma a tante amministrazioni del territorio poco avvedute nell’impiego delle risorse, nonché ad una legislazione dello Stato centrale che invece di fare leva sulla responsabilità politica degli amministratori locali punta piuttosto a renderli sempre più dipendenti da erogazioni dello Stato, che svuotano il principio di autonomia e penalizzano la corretta gestione amministrativa e finanziaria soprattutto di Comuni ed enti di varia natura. Mentre proprio di sana e corretta gestione contabile e amministrativa si sente la necessità nel momento in cui ci si prepara a ricevere finanziamenti che potenzialmente potrebbero trasformare nel profondo la realtà comunale, innescando un’innovazione di sistema rispetto alla quale però sia lo Stato che le autonomie devono dimostrare serietà e autentica responsabilità.

I bilanci dei Comuni in affanno: dalle “Corti” le coordinate per evitare i dissesti

di Camilla Buzzacchi

La Corte costituzionale si è di recente pronunciata su una tematica di crescente – e preoccupante – attualità e rilevanza per tutte le amministrazioni del territorio: quella della difficile situazione finanziaria degli enti locali, che diventa questione sempre più critica dopo un anno di emergenza sanitaria, economica e sociale. Queste istituzioni si sono infatti prodigate con misure di varia natura per sostenere situazioni di disagio delle rispettive comunità: tale provvidenziale impegno ha comportato un’esposizione contabile che potrebbe implicare conseguenze spiacevoli per le stesse, ma soprattutto per le prestazioni che i cittadini da esse si attendono.

Con la sent. n. 34 del mese di marzo il giudice delle leggi ha accolto il ricorso della Corte dei conti, che ha dubitato della costituzionalità della disciplina della procedura di riequilibrio finanziario di Comuni e Province. Tale disciplina prevede che questi enti possano ricorrere al piano di riequilibrio finanziario pluriennale – il cosiddetto predissesto – che ha durata da quattro a venti anni: tale piano viene poi sottoposto al controllo della sezione regionale della Corte dei conti, che è chiamata a pronunciarsi sulla sua congruità. Occorre infatti che l’istituzione contabile valuti l’idoneità del piano a ripristinare l’equilibrio del bilancio nel tempo indicato dall’amministrazione: lo scrutinio viene effettuato a partire dall’attendibilità della copertura della spesa nell’intero periodo di rientro, ma riguarda altresì il rispetto dei limiti di indebitamento e dei vincoli di finanza pubblica nazionali ed europei.

Ora l’anomalia segnalata dal giudice remittente – che appunto in sede di questa verifica del piano ha riscontrato il possibile allontanamento dalla Costituzione – è che il Testo unico sugli enti locali non consentirebbe a tali enti di avvalersi del termine di sessanta giorni per deliberare il piano quando, durante la pendenza del termine per adottarlo, sia subentrata una nuova compagine amministrativa. Tale anomalia, e il giudizio che ne è seguito, offrono l’occasione per ragionare sulle condizioni della finanza di tante amministrazioni del territorio, prendendo come faro le indicazioni fornite dalla Corte costituzionale e provando a prefigurare alcune ricadute che il crescente stato di indebitamento di questi enti potrà avere.

Tanti sono i beni costituzionali che, nella pronuncia della Consulta, vengono riconosciuti violati: anzitutto il principio dell’equilibrio di bilancio e quello della sana gestione finanziaria dell’ente – trattandosi di disposizioni che dovrebbero essere preposte al sano governo delle risorse – ma anche quello del mandato conferito agli amministratori dal corpo elettorale. Infatti il fatto che il dissesto si avvii in via automatica quando una nuova amministrazione subentri alla guida dell’ente, e che dunque essa sia chiamata a farsi carico di un’eredità onerosa ricevuta dalle precedenti gestioni, pregiudica da un lato la sua capacità di programmare il risanamento della situazione finanziaria compromessa; e dall’altro la sua possibilità di esercitare pienamente il mandato elettorale. Il vulnus tocca dunque addirittura il principio democratico ex art. 1 Cost., come tante decisioni della Corte ormai segnalano, a partire dalla c.d. sentenza di San Valentino – la n. 18/2019 – che ha completato la costruzione della nozione del bilancio quale bene pubblico: bene in qualità di strumento di soddisfacimento di diritti, e pubblico in quanto esso comporta l’obbligo dell’amministratore di rispondere delle decisioni che assume a riguardo. La finalità deve essere quella di evitare il dissesto attraverso un fattivo e coerente comportamento economico-finanziario dell’ente locale nel tempo ipotizzato di rientro dal deficit, ma per raggiungere tale risultato «i nuovi depositari del mandato elettorale devono essere posti nella condizione di farsene pienamente carico».

Ma anche il principio di buon andamento risulta negato, se si riflette che l’obiettivo della procedura di riequilibrio è quello di risanare una situazione deficitaria che può rendere poco efficace l’attività amministrativa: ovvero può comportare la rinuncia all’erogazione di servizi o alla realizzazione di opere necessarie per il benessere della comunità. Il giudice segnala che «le norme regolanti l’endemico fenomeno del dissesto degli enti locali» hanno avuto una «tormentata evoluzione legislativa» mentre occorre un assetto di regole che permetta ai medesimi di conseguire «un equilibrio strutturale che si conservi nel tempo». Tale orizzonte è auspicabile non per un mero desiderio di rigore contabile, ma perché questa è la condizione che garantisce «l’acquisizione delle entrate e l’individuazione degli interventi necessari a garantire l’erogazione dei servizi pubblici alla collettività»; rispetto a tale traguardo «gli amministrati possono valutare l’operato degli amministratori nella gestione della crisi», realizzandosi così nella maniera più autentica il modello del governo democratico.

Il riferimento alla situazione di crisi è formulato dal giudice con riguardo genericamente ai contesti di deterioramento dei conti che da anni tante amministrazioni presentano, ma ora suona ancora più realistico: ovvero da quando alla realtà di conti dissestati già esistente si è andato ad aggiungere l’eccezionale sforzo dei Comuni, volto soprattutto a rimediare a contesti di povertà legati al perdurare della pandemia, della mancanza di lavoro e alle molteplici condizioni di fragilità delle persone. Sforzo eccezionale da cui non è escluso che si producano sempre più numerose situazioni di squilibrio finanziario.

A tale proposito è interessante l’analisi Comuni in dissesto? Li prevede l’intelligenza artificiale di Raffaele Lagravinese e Giuliano Resce, pubblicata su LaVoce.info, che parte dal seguente dato di criticità: dall’introduzione, nel 1989, della speciale procedura di insolvenza dei Comuni, fino a fine 2019, vi hanno fatto ricorso 814 comuni, circa il 10 per cento del totale. L’analisi riferisce di metodologie che potrebbero consentire un approccio di tipo previsionale, dal momento che queste tecniche forniscono modelli predittivi che, nel caso qui in esame, condurrebbero ad acquisire per tempo la consapevolezza di situazioni di dissesto e a mettere in atto misure idonee a correggere – o addirittura prevenire – il «fallimento». Si rappresenta infatti la possibilità dell’integrazione tra open-data – ovvero quantitativi di dati che anche le amministrazioni italiane ormai raccolgono in maniera consistente – e intelligenza artificiale per poter «prevedere con una precisione molto alta i dissesti degli enti locali». Monitorando 7795 comuni italiani nel periodo 2009–2016, i risultati dello studio richiamato indicano che è possibile effettuare previsioni di insolvenza con un alto tasso di «veri positivi» e un basso tasso di «falsi positivi». E si conclude – curiosamente, visto il punto da cui qui si è partiti – che «i modelli in grado di prevedere i dissesti finanziari dei Comuni potrebbero diventare strumenti preziosi per le autorità di monitoraggio (ad esempio la Corte dei conti). Poiché la specificazione utilizza i dati degli anni precedenti per prevedere il default nell’anno in corso, i modelli possono far parte di un sistema di “diagnosi precoce” (early detection) per valutare i Comuni a rischio di difficoltà finanziarie e attuare politiche di recupero preventivo».

Ciò potrebbe essere di particolare utilità nella prospettiva che si apre, che per i Comuni sarà tutta in salita: essi sono stati in prima linea negli interventi a sostegno del disagio, ma con drastiche riduzioni di entrata, dovute al minor incasso collegato ai tributi locali e anche a quelli trasferiti. Rispetto a questa fiscalità, fondamentale perché i Comuni possano svolgere le proprie funzioni, la decretazione dell’emergenza ha infatti disposto delle sospensioni che, se hanno recato sollievo ai cittadini contribuenti, hanno però posto le amministrazioni davanti alla sfida titanica di garantire più prestazioni con minor gettito. E infatti grazie al decreto legge c.d. Rilancio si è provveduto ad avviare un tavolo di confronto, che ha generato una richiesta di 5 miliardi da parte degli enti locali, a cui il Governo ha risposto anche con maggior larghezza. Ma ciò non elimina lo scenario non propriamente sereno che aspetta i sistemi di finanza locali, che verosimilmente si troveranno a dover ricorrere a procedure di dissesto che preoccupano soprattutto per il vuoto di servizi che potrebbe derivarne: e dunque per la mancata risposta a bisogni di un crescente numero di persone in difficoltà. È prima di tutto nell’ente di prossimità che essi trovano un supporto che non deve in alcun modo venir meno in una fase di emergenza di cui, al momento, non è ben distinguibile la fine. Amministratori responsabili devono pertanto poter destinare risorse certe – e non frutto di un ricorso al debito di cui poi non potranno rispondere – alle tante richieste che stanno emergendo, e che una legislazione statale coerente deve consentirgli di utilizzare secondo criteri virtuosi per il bene delle proprie comunità.