Il futuro del regionalismo, tra autonomia differenziata e “deriva” amministrativa

Il giorno 5 dicembre 2022, alle ore 16.30, presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Perugia, Aula 1 di Via Pascoli, si terrà il convegno “Il futuro del regionalismo, tra autonomia differenziata e ‘deriva’ amministrativa”.

Il convegno verrà altresì trasmesso sulla piattaforma Microsoft Teams.

L’Amministrazione Regionale

Il giorno 22 novembre 2022, ore 17:00-19:00, in occasione della pubblicazione del volume di Gianluca Gardini e Claudia Tubertini, L’Amministrazione Regionale (Giappichelli 2022), si terrà un incontro nell’ambito del book-forum di CERIDAP (Centro di ricerca Interdisciplinare sul Diritto delle Amministrazioni Pubbliche).

L’evento si svolgerà sulla piattaforma Microsoft Teams.

Si pubblica la locandina, nella quale è indicato il link al quale iscriversi.

G. Gardini, C. Tubertini, “L’amministrazione Regionale”, Torino, Giappichelli, 2022

GIANLUCA GARDINI, CLAUDIA TUBERTINI, L’amministrazione Regionale, Torino, Giappichelli, 2022.

Questo volume nasce anzitutto da una constatazione relativa alla produzione scientifica riguardante il diritto regionale. Sin da quando si è iniziato a riflettere sulla fisionomia e sulle funzioni delle Regioni, ossia ben prima della loro effettiva istituzione, l’attenzione della dottrina italiana si è concentrata, in massima parte, sul profilo costituzionale di questi enti: il potere legislativo regionale, l’autonomia statutaria, i rapporti tra le fonti, la forma di governo, e più in generale i limiti derivanti dall’innesto delle Regioni all’interno di uno Stato che aveva da poco, e faticosamente, raggiunto la propria unità politica. La riprova di ciò si può ottenere da una rapida disamina della letteratura giuridica in tema di Regioni, in massima parte alimentata da studiosi di diritto costituzionale e, per tradizione, delimitata dagli argini robusti – quantomeno nel nostro sistema giuridico e universitario – del relativo settore disciplinare. In quest’ottica, le Regioni sono state percepite principalmente come articolazioni istituzionali della Repubblica, nel loro rapporto di permanente tensione con il centro e con la spinta centripeta che da esso proviene, nell’ambito di una più generale riflessione sulla forma di Stato italiana e sui suoi elementi differenziali rispetto ai più consolidati ordinamenti federali.

Questo approccio ha finito per lasciare parzialmente in ombra un aspetto che ha assunto crescente importanza: la natura di grandi apparati amministrativi delle Regioni, che occupano una parte rilevante, in termini di competenze e mezzi, della vasta galassia delle pubbliche amministrazioni. La crescita costante delle dimensioni dell’apparato amministrativo regionale diretto e indiretto, sintomo evidente di una torsione amministrativa rispetto al modello politico originario, è divenuto un elemento chiave, che non può più essere ignorato né sottovalutato per comprendere a fondo il funzionamento reale del nostro ordinamento. La progressiva affermazione delle Regioni come enti di amministrazione oltre che come centri di produzione legislativa, la loro attitudine a proporsi come rappresentanti degli interessi generali della comunità regionale, il rapporto (non sempre agevole) con gli enti territoriali minori, impongono all’analisi scientifica un diverso approccio. Il difficile equilibrio tra poteri autonomi, la complessità dei livelli di governo compresenti all’interno nel medesimo ambito territoriale, la formazione di nuove organizzazioni per la rappresentanza e la cura degli interessi delle collettività, rappresentano oggi la ricchezza e, al tempo stesso, uno dei principali fattori di complessità dell’ammini­strazione italiana.

Un simile quadro è ben diverso da quello che si offriva ai Costituenti al momento di disegnare la fisionomia delle Regioni. Questa diversità ci ha spinto a proporre un’analisi dell’ordinamento regionale che pone al centro l’amministrazione nelle sue principali declinazioni (principi, organizzazione, attività, relazioni intersoggettive), pur senza trascurare la forma di governo e i tratti costituzionali delle Regioni, tradizionalmente oggetto dell’attenzione dottrinale. L’analisi si è concentrata prioritariamente sul­l’esperienza delle Regioni a statuto ordinario, tenendo però in considerazione anche le principali differenze (e le relative criticità) derivanti dalla loro coesistenza con le Regioni speciali.

La seconda ragione che ha ispirato questo lavoro è legata all’ondata di critiche che, negli ultimi dieci anni, ha investito e continua a investire le Regioni italiane.

A far data dall’inizio della violenta crisi finanziaria che, nel secondo decennio del XXI secolo, ha travolto l’economia globale, tutte le autonomie territoriali, incluse quelle regionali, sono state sottoposte a un ripensamento radicale, e l’intero fenomeno che va sotto il nome di decentramento autonomistico è stato messo in discussione nella propria ragione di esistenza.

Sferzati dalla crisi, gli Stati sono stati costretti a operare drastiche misure di razionalizzazione, che hanno determinato una massiccia fuga di investimenti e fiducia dalle autonomie in direzione del centro, in particolare verso gli esecutivi. Il fenomeno non ha riguardato solo l’Italia, ma l’in­tera Eurozona: osservando le riforme messe in atto in paesi come Grecia, Portogallo, Spagna, Francia, si percepisce in modo evidente il movimento in senso ascensionale del potere pubblico, che risale i diversi livelli di governo nella speranza di incontrare nello Stato un soggetto politico fornito di una visione unitaria, in grado di contenere la frammentazione delle sedi decisionali e di esercitare un controllo più efficace sulla spesa. Il «dilagante neocentralismo della legislazione della crisi» ha trovato in Italia un terreno particolarmente fertile, e il recupero da parte dello Stato di molte politiche, sia congiunturali che strutturali, già devolute alle autonomie territoriali, è divenuta la “ricetta nazionale” per la cura dei problemi economici del Paese. Le Regioni sono uscite fortemente indebolite dalla crisi, sia sul versante finanziario che nella loro capacità di legiferare, al punto che oggi molti sostenitori e promotori del regionalismo teorizzano, se non la riconfigurazione in apparati amministrativi privi di potestà legislativa, quantomeno un forte ridimensionamento del ruolo politico delle Regioni.

La battuta di arresto subita dal decentramento autonomistico non sfuma con l’attenuarsi del ciclo della crisi economica, ma viene anzi ulteriormente acuita e aggravata dall’emergenza sanitaria che si accende nel 2020, per la diffusione del virus Covid-19. Sin dall’esordio della Pandemia, molti studiosi e commentatori, con la stessa fermezza con cui in passato avevano sostenuto il progetto autonomistico, hanno evidenziato l’inadeguatezza del­l’articolazione dei poteri tra centro e periferia, nonché le eccessive differenziazioni regionali e locali (non solo nella sanità), considerate un intralcio per la guida unitaria del Paese dinanzi alle emergenze.

Tenendo conto di questi elementi, questo volume cerca di riportare il dibattito sulle Regioni e sul regionalismo entro binari più certi, più oggettivi e meno condizionati dall’emotività che inevitabilmente è associata al verificarsi di fasi storiche avverse. Alzando lo sguardo oltre il dato congiunturale, si è provato a ripercorrere la parabola istituzionale di questi enti, mettendo a confronto il progetto originario con l’immagine attuale che le Regioni proiettano nella società. Il giudizio comunemente diffuso sulle Regioni e sulla classe politica regionale, questa è stata la premessa del nostro ragionamento, è spesso acriticamente negativo, e le Regioni vengono solitamente ricordate più come centri di spesa – e di spreco – che come enti cui sono ormai da tempo intestati la regia e lo sviluppo delle politiche territoriali.

In realtà, gli Autori del volume ritengono che non sia possibile immaginare un ritorno al passato, ad uno Stato centralizzato e uniforme che dall’alto governa i territori, amministra le risorse, gestisce i servizi pubblici, cura l’interesse delle persone che abitano le diverse aree del nostro Paese.. I singoli, le collettività, le istituzioni, oggi, non potrebbero più immaginare se stessi senza le Regioni, perché il regionalismo contiene un’intuizione formidabile, vitale, che riempie di significati nuovi il concetto di cittadinanza, intercettando il bisogno di fondo delle comunità di praticare la democrazia rappresentativa nei territori e a partire da essi. Il fatto che il “tipo di Regione” sin qui realizzato, tanto al Nord quanto al Sud del Paese, non abbia corrisposto alle aspettative, non autorizza a scartare questo modello di amministrazione, bollandolo come inutile, ma deve semmai spingere ad avviare un processo di riforma e rifondazione del regionalismo. L’effi­cienza dei servizi pubblici, l’effettività delle prestazioni e la soddisfazione dei diritti dipendono in gran parte dalla capacità delle Regioni di trasformarsi in enti di governo, di assumere la funzione di agenzie per lo sviluppo dei territori, di fornire un indispensabile contributo per l’innova­zione delle regole. Senza le Regioni, questo è il senso ultimo dell’analisi svolta, viene meno la possibilità di realizzare il concetto stesso di democrazia.

All’esito di un lavoro di ricostruzione storica e giuridica, che ripercorre gli ostacoli, esogeni ed endogeni, che l’attuazione delle Regioni ha incontrato in questi cinquant’anni di esistenza, vengono formulate alcune proposte per una possibile rifondazione del regionalismo, inteso come spirito più che come architettura istituzionale. La speranza che anima quest’opera è quella di riaprire un dibattito costruttivo sulle Regioni, che non abbia come obiettivo ultimo quello di assimilarle alle altre autonomie territoriali attraverso un processo di mero downsizing di funzioni e apparati, ma di riportare questi enti al­l’originario ruolo di regia del sistema territoriale, contenendone gli eccessi di burocratizzazione e valorizzandone al contempo il profilo rappresentativo e democratico.

Gli autori

Il contenzioso costituzionale Stato-Regioni: di chi è la “colpa”?

di Claudia Tubertini

Chi avrà letto l’articolo di Sergio Rizzo (Le Regioni, Una guerra sulle leggi che stritola cittadini e imprese) pubblicato su “La Repubblica” del 15 febbraio 2021, sarà rimasto impressionato da quanto riportato dall’autore circa la crescente conflittualità tra Stato e Regioni dinanzi alla Corte costituzionale, ormai divenuta “un ingorgo spaventoso”.  Nell’ultimo decennio quasi una legge regionale su 13, si nota, è stata impugnata dal Governo, e la percentuale non è diminuita negli ultimi tre anni, anzi, è aumentata, impegnando la Corte per quasi un terzo della sua attività nell’esame di tali impugnative. Per alcune regioni (Molise, Liguria, Veneto) negli ultimi 5 anni le declaratorie di illegittimità hanno superato il 50 percento delle leggi impugnate. Ma non solo: l’autore riporta – citando un “rapporto riservato” consegnato in questi giorni dall’uscente Ministro per gli affari regionali alla Conferenza delle Regioni – che nonostante l’impegno a modificare le leggi regionali tenendo conto dei rilievi della Presidenza del Consiglio, addirittura nella metà dei casi i Presidenti di regione non hanno poi portato a termine l’impegno preso, facendo nel frattempo decorrere i termini per il ricorso da parte del Governo e far così “sfuggire alla tagliola una montagna di provvedimenti regionali potenzialmente illegittimi”. La conclusione che se ne trae – già annunciata in premessa –è impietosa per tutto il sistema regionale: il rapporto Stato-Regioni è ormai una guerra senza soluzione di continuità, di cui vittime sono soprattutto le attività economiche e le imprese”.

Il dovere di verità imporrebbe a chi utilizza dei documenti riservati a fini giornalistici di estrapolare da essi non solo i dati necessari a confermare le proprie teorie, ma di riportare anche a quelli che tali teorie potrebbero mettere in discussione. Il citato “rapporto riservato” – che è in realtà la Relazione sul contenzioso costituzionale in via principale relativo alle leggi delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano nel periodo dal 2015 al 2020  elaborata dal gruppo di lavoro all’uopo istituito dal Ministro Boccia – si concentra infatti non solo sulle ipotesi in cui l’iniziativa governativa si è conclusa con l’accoglimento del ricorso, ma anche su quelle in cui l’esito è stato a favore delle Regioni. Esaminando, infatti, gli esiti per capi di sentenza, dalla Relazione emerge la sostanziale soccombenza del Governo nel 39% dei casi (27% per infondatezza e 12% per inammissibilità); dato che porta il gruppo di lavoro a concludere che “la prospettazione delle questioni da parte dello Stato talvolta non è “centrata” o appare carente sul piano dei requisiti processuali” e che “le impugnazioni sono troppe e dovrebbero essere più chirurgiche”. Il “progressivo peggioramento, a partire soprattutto dal 2018, della qualità dei ricorsi del Governo” porta gli autori dell’analisi a suggerire di tentare sempre una interpretazione secundum constitutionem della disposizione che si intende impugnare, onde evitare la pronuncia di infondatezza; e, per evitare le pronunce di inammissibilità, a proporre l’adozione da parte del Ministro, o del Presidente del Consiglio, di indicazioni vincolanti sulle modalità di redazione delle richieste di impugnativa da parte degli Uffici legislativi dei Ministeri, in particolare specificando, per ciascuna questione sollevata, la necessità di precisare il parametro costituzionale violato e la norma interposta, in modo da creare, in sostanza un meccanismo di filtro e selezione più stringente delle questioni che realmente meritano l’avvio di un contenzioso costituzionale.

Già questi dati, da soli, forniscono una rappresentazione più completa e meno sbilanciata delle cause dell’esplosione del contenzioso costituzionale Stato-Regioni, tanto che verrebbe polemicamente da chiedersi di chi sia la colpa, se “lo scorso anno un provvedimento regionale ogni 88 ore e 32 minuti è stato spedito alla Corte costituzionale”. A ben vedere, non sono solo gli abusi legislativi e le illegittimità normative delle Regioni ad alimentare il contenzioso costituzionale, ma (anche) l’eccessivo ricorso dello Stato alla tecnica dell’impugnazione per contrastare tutti gli interventi del legislatore regionale, anche quelli legittimi. A tacer del fatto che l’aumento progressivo della produzione legislativa regionale – particolarmente evidente, e segnalato nella relazione, specie in alcune Regioni, molto meno in altre – è dato che non può trascurarsi in una analisi di questo tipo, che sui numeri complessivi dei ricorsi fonda l’intero ragionamento. 

Ma nella Relazione vi sono molti altri dati interessanti, non citati nell’articolo, che meriterebbero di essere approfonditi con ulteriori analisi: a partire dal rilevantissimo peso assunto, nel contenzioso costituzionale, dalla legislazione delle Regioni a Statuto speciale (la più frequentemente impugnata e, proporzionalmente, anche oggetto del maggior numero dei pronunce di inammissibilità ed infondatezza); alle materie su cui il contenzioso è più ricorrente (tutela dell’ambiente, comprensiva di caccia e pesca; tutela della salute, comprensiva delle controversie relative al personale sanitario); agli ambiti in cui a risultare soccombente è più spesso il Governo (coordinamento della finanza pubblica, tutela della concorrenza, ordinamento civile).  Si tratta di dati che confermano ampiamente le risultanze a cui la dottrina è da tempo pervenuta nell’individuare i punti più critici del sistema di ripartizione delle competenze Stato-Regioni.

Altrettanto interessanti sono i dati relativi alla sperimentazione, a partire dal 2013, della prassi dell’“impegno” formale assunto dal Presidente della Giunta regionale a modificare, sostituire o abrogare la norma oggetto di censura da parte delle Amministrazioni centrali. Sul punto, il gruppo di studio suggerisce la necessità che tale prassi venga resa più trasparente e che sia regolamentata, in modo da definire i contenuti specifici dell’impegno, ivi inclusa la data certa di sottoposizione delle modifiche al Consiglio regionale, in modo che all’impegno assunto si ottemperi nell’arco della legislatura regionale; promuovendo in tal modo il funzionamento di un istituto che si inquadra nella tanto auspicata “leale collaborazione”. Altrettanto condivisibile è la proposta di promuovere, se del caso in sede di Conferenza Stato-Regioni, un nuovo accordo sulla qualità della legislazione regionale, analogo alla c.d. circolare Amato degli anni ’80, al fine di migliorare la tecnica di redazione degli atti legislativi regionali e ridurre, conseguentemente, le occasioni di impugnativa.

In conclusione, se si concorda sul fatto che il nostro sistema istituzionale abbisogna, mai come ora, dell’azione coordinata di tutti i livelli di governo; che i rapporti Stato-Regioni (ma anche quelli Stato, Regioni ed autonomie locali) sono un punto dolente del sistema; che il miglioramento di questo rapporto è indispensabile per “cittadini e imprese” (endiadi, questa, sempre più spesso invocata, come se le imprese non fossero frutto dell’attività di cittadini..); la questione va affrontata con spirito critico, si, ma anche costruttivo. Altrimenti, il rischio è solo quello di provocare un aumento della sfiducia, o peggio, di spingere cittadini e imprese a invocare soluzioni centripete, davvero poco praticabili, e soprattutto dagli esiti incerti.