Il NRRP nei provvedimenti del Governo Draghi, tra centralismo della governance e questioni di genere ancora aperte

di Marta Ferrara

Con l’approvazione del decreto legge sul reclutamento del personale nella P.A. (d.l. n. 80 del 9 giugno 2021), l’architettura gestionale essenziale del piano nazionale di ripresa e resilienza può dirsi completata. Si è infatti cristallizzata la fase strumentale di quel segmento dell’attività di indirizzo politico che sarà in sostanziale condivisione con la Commissione europea fino al 2026. 

L’Esecutivo Draghi ha scelto la via della decretazione d’urgenza per la definizione della dimensione organizzativa e funzionale del Piano nazionale, in linea con il “ritorno” dell’attuale Governo all’art. 77 Cost. e con il contestuale abbandono dei d.P.C.M. É questa una decisione di policy normativa che nel caso della governance nazionale appare giustificata dalla necessità di sanare il ritardo accumulato dall’Italia, che è destinataria dopo la Spagna del più ingente sostegno economico del Recovery e Resilience Facility. La decisione di agire ex art. 77 Cost. riflette poi il peso specifico che il Piano ha sull’agenda politica dell’attuale Esecutivo, e dunque, la centralità del Governo nella interlocuzione con la Commissione UE. 

In luogo di un unico provvedimento come inizialmente prospettato, il Consiglio dei Ministri ha finito con l’adottare due provvedimenti distinti entro un ristretto arco temporale, a partire dal cd. decreto governance del PNRR e semplificazioni (d.l. n. 77 del 31.5.2021) che configura l’assetto di gestione e controllo del PNRR e snellisce le procedure amministrative. Il secondo provvedimento (d.l. n. 80, cit.), invece, mira al rafforzamento del corpo amministrativo attraverso una disciplina speciale per l’accesso al pubblico impiego e la prestazione di supporto tecnico e specializzato che, come annunciato (Comunicato stampa del Consiglio dei ministri n. 22), è propedeutica alle riforme orizzontali e trasversali dei settori giustizia e pubblica amministrazione prospettate nel Piano nazionale di ripresa e resilienza ora all’esame di Bruxelles (spec. 45-47).

E’ ancora interessante notare che il Governo ha adottato i decreti-legge dopo la concertazione preliminare nella cabina di regia politica, ormai diventata la camera informale di decompressione di eventuali contrasti interni all’Esecutivo che consente di porre in sicurezza la successiva adozione degli atti in seno al Consiglio dei Ministri. Si tratta di una prassi che elide l’abusato metodo del “salvo intese” (art. 7, c. 5 del l. n. 400/88) perpetrato avanti, tra gli altri, dai Governi Conte (cfr. G. Poletti, Francesco Clementi: «Il “salvo intese” è l’esempio plastico della politica irresponsabile»Il dubbio, 9 luglio 2020). In una sorta di successione temporale invertita rispetto a tale ultima formula, la ricerca di un accordo preventivo sui provvedimenti da adottare evita infatti che il Consiglio dei Ministri si trovi ad approvare testi normativi “vuoti”, destinati a essere riempiti dalla successiva concertazione tra apparati ministeriali.

Nel merito, l’assetto che si delinea dal decreto sulla governance (d.l. n. 77, cit.) appare in linea tanto con le indicazioni contenute nel Piano nazionale approvato a larga maggioranza dal Parlamento lo scorso 27 aprile, quanto con le linee annunciate in precedenza dal Ministro delle Finanze, in sede di audizione presso le Commissioni riunite di Camera e Senato (8 marzo 2021), anche se resta da chiarire, ad esempio, il ruolo che Cassa depositi e prestiti avrà all’interno del flusso finanziario interministeriale. 

Nessuna task force, nessun commissario straordinario a capo dell’enforcement del Piano: il Governo ha evitato ogni esternalizzazione, come d’altro canto hanno fatto gli altri paesi europei. Il modello di governance prescelto è infatti centralizzato, plurilivello, a composizione ministeriale flessibile e con una forte verticalizzazione del potere politico nel premier che presiede la cabina di regia per il Piano nazionale di ripresa e resilienza (art. 2, d.l. n. 77; su cui cfr. C. Bertini, Intervista a Sabino CasseseL’accentramento non è esagerato piano straordinario, tocca al premierLa Stampa, 30 maggio 2021) e di quello economico-finanziario nel  Mef, che cura il monitoraggio finanziario, il raccordo con la Commissione UE nonché le attività di prevenzione e contrasto ai fenomeni di corruttela e di frodi (artt. 6-8, d.l. n. 77; per l’incidenza della regolazione europea sulla crescita del potere dell’amministrazione tecnico-contabile, cfr. E. D’Alterio, Dietro le quinte di un potere. Pubblica amministrazione e governo dei mezzi finanziari, Bologna, 2021, 156-160). 

La prospettata gestione del piano appare, comunque, in armonia con le istanze di pluralismo che provengono dal piano costituzionale. L’apertura all’interlocuzione con le Regioni nei settori di loro competenza normativa concorrente o residuale sia in Cabina di regia (art. 2, c. 3, d.l. n. 77) sia in sede di Tavolo permanente per il partenariato economico, sociale e territoriale (art. 3) è in linea infatti con l’art. 5 Cost., mentre la presenza delle “categorie produttive e sociali” sempre al Tavolo permanente parrebbe avvalorare, nello spirito dell’art. 2 Cost., il ritorno del Governo alla concertazione con le parti sociali, già evocata in occasione della recente sottoscrizione del Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale con le confederazioni sindacali maggiormente rappresentative (F. Fubini, Draghi blinda il Recovery: patto a Palazzo Chigi con i sindacatiCorriere della sera,8 marzo 2021; per una lettura diversa, v, invece, R. Mania, Dialogo e pragmatismo il metodo Draghi oltre la concertazionela Repubblica, 11 marzo 2021).

Criticità maggiori sembrano profilarsi invece sul versante del rispetto del principio democratico-rappresentativo e di quello di parità di genere. Uno dei rischi è infatti quello del sostanziale isolamento dell’organo assembleare rispetto all’attuazione domestica del NGEU, in una materia, quella dei rapporti con l’Ue, che già tradizionalmente sconta un sensibile accentramento governativo (cfr. G. Rivosecchi, I riflessi dell’Unione europea sul rapporto Governo-Parlamento e sull’organizzazione interna del Governo, in N. Lupo, R. Ibrido, Dinamiche della forma di governo tra Unione europea e Stati membri, Bologna, 2018, spec. 371 ss.). 

Per questa ragione, nella fase domestica di enforcement del Piano, a Commissioni parlamentari specifiche e/o all’Ufficio parlamentare di bilancio dovrebbe essere quanto meno garantito l’esercizio della funzione di monitoraggio sulle fasi di gestione delle risorse europee, che vada oltre al già riconosciuto diritto del Parlamento all’informativa a cadenza semestrale della Cabina di regia (art. 2, c. 2, lett. e), d.l. n. 77, cit.) e annuale da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri (art. 1, c. 1045, l. n. 187/2020), rispettivamente sullo stato di avanzamento del PNRR e sull’uso delle risorse economiche del NGEU.

I problemi in ordine alla parità di genere, invece, costituiscono il riflesso della già debole rappresentanza femminile che caratterizza l’Esecutivo Draghi, in cui sono presenti 8 donne su 23 ministri, delle quali 2 sole a capo di Dicasteri con portafoglio (mentre il precedente Governo contava 8 donne su 21 Ministri, di cui 5 al vertice di dicasteri con autonomia finanziaria). 

Nel caso del PNRR, la consistenza dell’allocazione delle risorse rispetto alle missioni previste (Piano nazionale, cit., p. 21) lascia presagire che i dicasteri primariamente coinvolti nell’attuazione saranno quelli della transizione ecologica, per l’Innovazione tecnologica e la transizione digitale, dell’Istruzione e della ricerca e delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili. Ne consegue che la cabina di regia vedrebbe la presenza di una sola donna, la Ministra dell’Università e della ricerca, per di più non in modo stabile ma con una turnazione dovuta alle questioni oggetto di indirizzo in seno all’organismo. Peraltro neppure la presenza dei Presidenti delle Regioni, prevista dall’art. 2 del d.l. n.77, riuscirebbe a controbilanciare la prevalenza della quota maschile dal momento che solo la Regione Umbria è ad oggi a guida femminile.

Ora, appare evidente che un Piano nazionale che annovera all’interno della missione Inclusione e coesione gli obbiettivi trasversali di sostegno all’empowerment femminile e contrasto alle discriminazioni di genere (Piano nazionale, cit., p. 198) e che è invece gestito da una cabina di regia a trazione maschile presenta una discrasia, quando non una scarsa credibilità iniziale in tema di parità di genere. Ciò è tanto più preoccupante alla luce del vuoto di partecipazione femminile già registratosi in occasione della scelta dei membri delle task forces per la lotta al Covid e portato all’attenzione istituzionale dalla lettera del Presidente della Società italiana degli Economisti, a seguito della nomina della Ministra per l’Innovazione ecologica e la digitalizzazione del Governo Conte bis di un gruppo multidisciplinare composto da soli uomini chiamato a valutare e proporre soluzioni tecnologiche per gestire l’emergenza sanitaria, economica e sociale legata alla diffusione del virus SARS-CoV- (7 aprile 2020; in www.siecon.org/sites/siecon.org/files/media_wysiwyg/lettera_presidente_sie.pdf). A riguardo, appare superfluo, ancora, richiamare l’attuale composizione del Comitato tecnico scientifico che supporta anche il Governo Draghi nelle scelte legate alla crisi epidemiologica e che annovera oggi solo 2 donne su 11 membri; o i dati aggregati sulla partecipazione delle donne alla catena di comando per il contenimento del contagio a livello statale e regionale, in cui la presenza femminile si attesta su quota 20%, sebbene con la positiva eccezione delle prefetture, ove la componente “rosa” raggiunge il 39,5% (cfr. Open Polis, Gestione Covid, poche donne e non nei ruoli chiave, 29 aprile 2020).

Rispetto a questo quadro, l’attuazione trasversale della Strategia nazionale per la parità di genere cristallizzata nel Piano nazionale (p. 36) sarà certo decisiva, ma il Governo ha ancora la possibilità nella presente fase di apportare almeno due correttivi all’organigramma della governance. Il premier potrebbe anzitutto orientare al principio di parità di genere la scelta dei membri delle istituende strutture di supporto, come la Segreteria tecnica e l’Unità per la razionalizzazione e il miglioramento della regolazione (artt. 4 e 5, d.l. n. 77, cit.), tanto più in quanto la durata in carica di queste ultime è vincolata alla conclusione dell’enforcement del NRRP ed è dunque più lunga della permanenza dell’attuale Esecutivo a Palazzo Chigi. Potrebbe inoltre promuovere e raccomandare la presenza di componenti femminili presso gli organismi consultivi che completano la governance, come il richiamato Tavolo permanente. Si tratterebbe, in entrambi i casi, di importanti segnali per “l’inserimento delle donne … nei   livelli   nei   quali esse sono sottorappresentate e in particolare nei settori tecnologicamente avanzati ed ai livelli di responsabilità”, come prevede il Codice delle pari opportunità (art. 42, c. 2, lett. e), d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198), in un contesto peraltro particolare in cui si colloca anche la recente ordinanza di rinvio alla Corte costituzionale della sezione III del Consiglio di Stato (4.6.2021) in merito alla presunta incostituzionalità dell’art. 71 c. 3 bis del d.lgs. n. 276/2000 (T.U.E.L.), nella parte in cui sottrae alla sanzione dell’“esclusione” dalle competizioni elettorali per i Comuni con meno di 5000 abitanti le liste che non rispettano il principio di rappresentatività di entrambi i sessi ex artt. 3 e 51 Cost.

Il “certificato verde digitale” sulla vaccinazione e l’attuale ruolo dell’Unione europea nel settore dell’e-Health

di Marta Ferrara

Il contrasto alla crisi epidemiologica ha fatto riemergere nel dibattito europeo e in quello scientifico il tema della sanità digitale o dell’e-Health. Si tratta di un’area vasta, che va dalle prestazioni mediche effettuate a distanza con l’impiego delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC), alla digitalizzazione dei dati sulla salute dei pazienti, passando per i certificati vaccinali ora al centro del confronto in sede sovranazionale. Vista la difficoltà dei legislatori di tutti i livelli di tenere il passo con l’evoluzione tecnica e tecnologica, il settore sconta un forte ritardo regolatorio di cui la pandemia ha in modo paradossale accelerato i tempi di recupero negli Stati come in Europa. È infatti significativo che un paese come l’Italia, 19simo tra gli SM per servizi pubblici digitali secondo il Digital Economy and Society Index relativo al 2020, abbia di recente avviato in seno alla Conferenza Stato-Regioni una prima regolazione uniforme dei servizi medicali resi in telemedicina, attraverso l’adozione di Indicazioni nazionali per l’erogazione di prestazioni in telemedicina (dicembre 2020). Del pari, nel contesto europeo attuale, caratterizzato dalla ricerca di soluzioni condivise per l’allentamento progressivo delle misure di restrizione, l’Unione si sta ritagliando un importante ruolo di coordinamento nella possibile adozione di certificati vaccinali riconosciuti tra e dagli Stati membri. L’autoinvestitura dell’Unione finalizzata alla predisposizione di un certificato sanitario vaccinale si presenta tuttavia complessa per almeno tre ragioni. Anzitutto perché essa deve assicurare standard di sicurezza e di disponibilità informativa elevati, omogenei e coerenti con la natura personale e sensibile dei dati sanitari, che rivelano le informazioni connesse allo stato di salute fisica o mentale passata, presente o futura dell’interessato e pertanto ne richiedono il consenso espresso ai fini del trattamento. Un ulteriore elemento che riduce lo spazio di agibilità unionale risiede nella governance statale sui dati sanitari dei propri iscritti al SSN. La digitalizzazione sanitaria si sostanzia infatti in una modalità additiva di erogazione delle prestazioni legate alla salute, che lascia inalterato il riparto delle competenze UE-SM in materia sanitaria. Proprio la resistenza degli Stati a cedere dati personali e, più in generale, porzioni di controllo sull’organizzazione dei servizi sanitari di loro competenza esclusiva (art. 168 TFUE) concorre a determinare il terzo fattore di complicazione: il forte rallentamento che caratterizza i processi di dematerializzazione delle informazioni sanitarie, ben prima dell’affaire vaccini. Lo dimostra la vicenda legata alla circolazione nello spazio europeo di un formato standardizzato di cartella clinica elettronica o European Health Record (EHR) che è stata formalizzata nel 2019, ma che resta inattiva. Peraltro, i temi delle EHR e delle certificazioni vaccinali risultano in stretta connessione. Nella prospettiva delineata dalla Commissione UE, le European Health Records e i Digital Green Certificates sarebbero supporti funzionali all’archiviazione dei dati sanitari riconosciuti dagli Stati membri, ma dalla durata non omogenea. Quest’ultimo tratto differenziale riflette in realtà le diversità di contesto – prepandemico e postpandemico, rispettivamente – in cui i due modelli di archiviazione sono stati elaborati: le EHR sono pensate infatti come supporto ordinario all’assistenza sanitaria transfrontaliera, mentre i vaccine certificates solo temporaneo, destinato a operare fino alla dichiarazione di cessazione della pandemia da parte dell’OMS. L’idea di condizionare la ripresa della mobilità transfrontaliera al possesso di un certificato vaccinale rilasciato dal SSN di affiliazione è stata dapprima assunta come impegno comune dagli Stati nel Consiglio europeo, quindi formalizzata dalla Commissione Ue nella proposta di regolamento presentata il 17 marzo scorso (COM (2021) 130 final).

Nel frattempo, le linee guida predisposte dalla rete sanitaria on line (eHealth Network, Guidelines on verifiable vaccination certificates – basic interoperability elements, 12 March 2021) hanno sì fornito le prime indicazioni su quello che dovrebbe essere il modello europeo di titolo attestante l’avvenuta vaccinazione, ma anche lasciato scoperto il complesso profilo relativo alla privacy. Su tale ultimo aspetto, d’altro canto, né la proposta di regolamento né le dichiarazioni provenienti da Bruxelles offrono maggiore conforto. Al contrario, alimentano l’impressione che sia in atto una tendenza a ridimensionare il problema della gestione dei dati sanitari attraverso l’idea che la quantità ridotta delle informazioni presenti nel certificato vaccinale risolva anche il problema della loro qualità di trattamento, ossia di garanzia di uno standard di sicurezza elevato. L’argomentazione che si registra più di frequente, infatti, è quella secondo la quale i certificati vaccinali conterrebbero poche ed essenziali informazioni (quantità), che per questo sarebbero in automatico rispettose del GDPR (qualità) e del principio di minimizzazione del trattamento dei dati in esso codificato. Nello specifico, secondo le linee guida la certificazione dovrebbe recare un contenuto interoperabile minimo e uniforme, destinato a raccogliere: le informazioni di base del soggetto, come i dati personali e il certificato vaccinale rilasciato dallo Stato di affiliazione anche mediante un QR code personalizzato (minimum dataset); il codice identificativo vaccinale o UVCI, che consentirà a qualunque autorità sanitaria europea di accertare la condizione di parziale o totale vaccinazione del soggetto (unique vaccination/certificate assertion identifier); infine, la protezione tecnica contro la falsificazione nelle attestazioni, diversa in relazione al supporto di certificazione scelto dallo Stato di provenienza del soggetto (trust framework). Così delineato, il modello a cui la proposta sembra ispirarsi è quello del ‘Green Pass’ israeliano, che il soggetto vaccinato ha diritto a ottenere per mezzo dell’accesso riservato al portale del Ministero della Sanità. Si tratta di un titolo dalla durata di sei mesi che è richiesto per la riapertura di attività commerciali e culturali, nonché per gli spostamenti sia territoriali sia extraterritoriali, dal momento che il Governo Netanyahu intende consentire a breve ai soggetti vaccinati la circolazione oltre frontiera verso Cipro e Grecia (corona.health.gov.il/en/directives/vaccination-certificate/).

Tornando al certificato vaccinale europeo, va detto che la difficoltà di superare il monopolio degli Stati in tema di organizzazione sanitaria e il perdurante diverso livello di interoperabilità delle reti sanitarie nazionali sono solo due delle criticità che il tema pone. Sussiste infatti l’ulteriore rischio che il passaporto sanitario concretizzi un’elusione del principio di non obbligatorietà del trattamento sanitario vaccinale peraltro priva di una motivazione ragionevole, visto che le evidenze scientifiche a oggi disponibili non assicurano che alla somministrazione del siero vaccinale faccia seguito uno stato di immunità attiva. A ciò si aggiunge il potenziale vulnus al principio di non disparità di trattamento, già sottolineato dall’OMS, in sede di audizione al Parlamento europeo. La Commissione Ue sembra tuttavia essersi accorta “in corsa” di entrambe le criticità ora richiamate. Lo dimostrano da un lato, l’attenzione comunicativa tesa a precisare che il “green pass” non è equiparabile a un passaporto ma a un certificato finalizzato a “evitare divisioni e blocchi” tra gli Stati membri; dall’altro, la sopravvenuta apertura politica verso l’associabilità al codice identificativo personale presente nel certificato non solo dello status di “vaccinato”, ma anche di quello di “negativo al test Covid-19” e di “guarito dall’infezione da Sars-CoV-2”, così da consentire la circolazione transfrontaliera di tutti i viaggiatori, a prescindere dalla scelta di sottoporsi o meno al vaccino. L’urgenza della Commissione di procedere verso la formulazione di una proposta normativa si spiega però anche con l’esigenza di affermare la leadership europea su un tema come quello della tutela della salute. Il duplice obbiettivo è, infatti, quello di anticipare possibili accordi di libera circolazione tra due o più paesi europei basati sul mutuo riconoscimento e superare iniziative isolate come quella avviata dal Governo austriaco. Se la proposta del Digital Green Certificate incontrasse l’appoggio degli Stati – ipotesi che appare al momento nebulosa alla luce delle divisioni già registrate -, la Commissione UE potrebbe conseguire un doppio risultato utile: la riattivazione della circolazione sicura delle persone e delle merci in Europa fino al termine dello stato pandemico e la probabile riapertura del dossier sullo scambio di un formato europeo di cartella sanitaria digitale (European electronic health record exchange format) da tempo in attesa di sviluppi.

Una prima regolazione uniforme sulla circolazione di cartelle sanitarie elettroniche tra i SSN nazionali si deve infatti aun atto di “armonizzazione mite” del 2019: la Raccomandazione Ue n. 243. L’idea di cui si è fatta promotrice già la Presidenza Junker è che la cartella digitale sanitaria europea possa accompagnare lo “stato in luogo” o il “moto a luogo” dei pazienti in e verso un sistema sanitario diverso da quello di affiliazione, offrendo al contempo al personale sanitario degli SM un patrimonio disponibile e sicuro di dati inerenti al diario clinico del malato. Come dimostra ancora l’esempio virtuoso di Israele, i vantaggi nell’uso e nello scambio di un modello standard di cartella digitale sono innegabili, se solo si pensa alla velocità di diagnosi e all’immediata disponibilità di informazioni a fini di ricerca scientifica, che avrebbe potuto forse agevolare la raccolta dei dati all’esordio della diffusione del SARS-COVID in Europa. Tuttavia attorno alle EHR si annodano le stesse problematiche politiche, tecniche e giuridiche evocate a proposito dei certificati vaccinali. Sussistono infatti le resistenze statali e la forte disomogeneità delle reti sanitarie interoperabili; i problemi legati alla sicurezza dei dati raccolti e la necessità di superare in modo condiviso le iniziative di circolazione di cartelle sanitarie già attive tra Stati come Finlandia, Lussemburgo, Repubblica ceca ed Estonia. Proprio la coincidenza anche problematica tra certificato vaccinale e cartella sanitaria digitale potrebbe però rappresentare un fattore di potenziamento per il ruolo dell’Unione nel settore dell’e-Health, specie nell’attuale contesto sovranazionale. La Commissione UE potrebbe infatti investire in modo strategico le sue competenze di sostegno e la sua credibilità istituzionale nelle questioni di politica sanitaria digitale che presentino una struttura progressiva e concentrica, come appunto il certificato vaccinale e le cartelle sanitarie elettroniche. In quest’ottica, il coordinamento intergovernativo muoverebbe da una micro-issue come il green vaccine certificate, per poi estendersi a una macro-issue, come l’European health record, secondo un approccio graduale e internamente vincolato nei risultati. Se gli Stati dovessero infatti convergere verso l’adozione temporanea di un certificato vaccinale europeo sarebbero poi più facilmente predisporsi alla condivisione delle cartelle sanitarie elettroniche.